Oggi: un giorno di inizio settembre, una domenica qualsiasi del terzo millennio iniziato da poco. Fermarsi a riflettere dopo essersi, per giorni e giorni, guardati intorno ed interrogati. È questo il terzo millennio che immaginavamo? O non pensavamo forse che, con la fine del Novecento e la conclusione di un secolo così pieno di dolore, si sarebbero aperti scenari di pace, integrazione, libera circolazione di persone in un mondo, è vero sì, più globalizzato, ma anche molto più pronto ad accogliere noi ed i nostri figli e nipoti? Forse non abbiamo neanche fatto in tempo a spiegare ai nostri figli da quale situazione provenissimo ed a loro non abbiamo insegnato, e solo i più adulti lo ricordano, quanto fossero più complicate o addirittura poco o per niente realizzabili, le aspirazioni a viaggiare, conoscersi, uscire dalla propria individualità e nazionalismo, prendere direzioni comuni verso mete inimmaginabili. I nostri padri e nonni erano spesso partiti ma lo avevano fatto come migranti, per poter dare un futuro alle proprie famiglie impoverite dalle inutili guerre che avevano devastato l’Italia ed il mondo intero. Non abbiamo avuto il tempo di farli innamorare della loro acquisita libertà di spostarsi tra un Paese e l’altro, addirittura tra Continenti senza per questo sentirsi stranieri ma rimanendo cittadini della Terra intera. Lo avremmo fatto di sicuro se avessimo saputo che, di lì a poco, gli stessi giovani, ormai adulti, avrebbero avuto atteggiamenti di odio e ripulsa verso creature, per lo più, innocenti, sofferenti, partiti da soli o con i figli e le donne, in cerca di un’opportunità nuova per sé e per loro. Dove siamo finiti? Mi guardo intorno e sento l’urlo lacerante delle sirene, le grida della gente incattivita, la violenza e l’indifferenza così familiare nei gesti quotidiani delle persone che mi circondano. Sono al sud di un Paese, davanti alla costa, che ha visto sbarcare, nel corso di secoli e millenni, tante persone di tante provenienze, spinte dalla ricerca di lidi da conquistare o di luoghi in cui scambiare mercanzie preziose, per lo più dai Paesi dell’Oriente e del sud. I nostri monumenti, le nostre cattedrali, sono così simili alle loro perché proprio loro vi hanno lavorato, piccoli e grandi artigiani venuti al seguito dei crociati, portati dall’Imperatore Federico II di Svevia, per far bella la nostra terra del sud. Il sud, come descrive bene Paolo Rumiz nel suo libro-viaggio Appia, non ha quasi ricordo della Civiltà romana: la via Appia che vi passava, diritta e geniale opera strategica, non seguiva il percorso tortuoso dei suoi monti, delle sue valli e villaggi, ma, rapidamente, conduceva uomini, armati e cose, dalla Puglia a Roma. Un passaggio dunque, più causa di fastidio che occasione di cultura. Ma tante sono invece le opere, tracce vive di storia vissuta: dalle vestigia greche a quelle federiciane ogni cosa ha reso grande queste terre. Opere che hanno portato con sé cultura, insita nella loro stessa natura. Cose che esprimono momenti condivisi fatti di musica, teatro, filosofia, arti applicate e tradizioni condivise. Se è vero che l’arte e la bellezza salveranno il mondo, è anche vero che i popoli che vi rinunciano e non ne fanno nutrimento per i propri figli, sono destinati ad un lento e inesorabile declino.Quanto odio è stato seminato in questi anni e quanta poca consapevolezza delle sue nefaste conseguenze è arrivata a smorzarne i toni? Siamo arrivati a volerci chiudere nel nostro piccolo mondo piuttosto che aprire i nostri occhi al mondo ed abbiamo finito per chiedere ai nostri figli, ed a noi stessi, di essere prudenti, muoversi poco, non fidarsi, imparare a difendersi dalle differenze, credere che lo straniero potrà farci del male.