Silena DalFinestrino

i Treni della felicità


Una rivolta a S. Severo, donne in carcere a Lucera, i Treni della felicitàvideopresentazione di Giovanni RinaldiPrimi decenni del dopoguerra. In un’Italia unificata purtroppo da miseria e guerra avvengono episodi commoventi di generosa solidarietà tra nord e sud, tra poveri e poveri, che quella parte di Italietta incattivita di oggi neppure si sogna.Mia madre mi raccontava che negli anni ‘50 (*) i nostri contadini hanno accolto in casa i figli dei braccianti del sud, si sono letteralmente tolti il pane dalla bocca per sfamarli e mandarli a scuola e non credo che, per i miei nonni, quei ragazzi venuti dal Sud e dal sole sembrassero molto diversi dai giovani tunisini sbarcati a Lampedusa. Allora cosa è successo? Non siamo più umani? Cosa siamo diventati? Qualcuno già pensa di fare dell’onda che affonda i barconi, un simbolo leghista. Da “Forza Etna!” a “Forza onda! Mi torna sempre in mente quella scritta sul muro “Immigrati non lasciateci soli con gli italiani”.Così Arturo Ghinelli su il manifesto rifletteva pochi giorni dopo il naufragio di Lampedusa (6 aprile, 250 morti) e con l’asterisco citava, in appoggio al racconto di sua madre, una ricerca di Giovanni Rinaldi. I treni della felicità. Storie di bambini in viaggio tra due Italie. (Ediesse, 2009).La ricerca in un quadro più ampio parte dal 2002 condotta da Giovanni Rinaldi, studioso di culture orali e altro, e Alessandro Piva, regista (Henry, La CapaGira, premi Pubblico e Donatello). Il materiale raccolto tra Puglia, Marche, Toscana, Emilia Romagna in parte è scritto nel libro di Rinaldi appena citato, con la prefazione scritta da Miram Mafai, in parte per il materiale iconografico e dei luoghi diventa visivo in un cortometraggio, Pasta nera (2010), di Alessandro Piva col sostegno della Casa Di Vittorio (vedi anche M. Mafai su Venerdì di Repubblica, 26 agosto). Sarà proiettato alla 68ª Mostra cinematografica di Venezia, tra i documentari di Controcampo Italiano, il 6 settembre prossimo alla Sala Grande del Lido.Il lavoro dei due ricercatori è per noi ancora più prezioso perché racconta anche dei compiti che si assunse l’UDI nel primo decennio dopoguerra.Italia, 1950.(dal catalogo della mostra I treni della felicità di G. Rinaldi)Essere solidali in quegli anni non era facile: il pane aveva un diverso valore, punto di confine tra il vivere e il sopravvivere. Lo stesso pane in alcuni casi era un lusso, e quello “bianco” in particolare un sogno. Nel Tavoliere di Puglia come nella Romagna o nell’Emilia.A San Severo, nel Tavoliere di PugliaTeresa - Proprio il 23 marzo da noi c’era un cozzetto di pane, l’avevo conservato per mio fratello piccolo. C’era mio padre, viene un amico suo…Ada - … un amico, è venuto un compagno, ha bussato alla porta “Cumbà Lui’ vieni un poco, esci un poco„… Ha detto mio padre “Di’, ch’è successe? Quisse so’ i figghje mje… [parla pure]„, “M’a da’ nu cuzzette de pane che tenghe feme„… Questo cozzetto di pane, che noi avevamo conservato per tutti e due i miei fratelli piccoli, mio padre l’ha tolto di bocca ai figli e l’ha dato a quell’uomo che stava senza mangiare.Nella RomagnaIda - … prendevamo il pane dalla bocca – ne avevamo poco – [e lo davamo agli altri]. Io la definirei la miseria che aiutava l’altra miseria.Irma - Avevo fatto un favore a un contadino e lui per ricompensarmi mi porta una cesta di pane. Insomma mi era venuto proprio… una roba proprio fuori dal mondo, avrei cominciato ad addentarlo subito, ma non potevo, lo dovevo portare a casa, lo dovevo condividere con i miei. Insomma ho provato un piacere che non l’ho provato mai più per nessuna cosa al mondo, un piacere così grande nel mangiare questo pezzo di pane, bianco. La videopresentazione sopra acclusa di Giuseppe Rinaldi, I figli della rivolta (musiche di Eugenio Bennato, Afro Celt Sound System, Louis Clavis), ricorda la ribellione dei braccianti di San Severo che al grido pane e lavoro! il 23 marzo 1950 sfidarono la polizia del famigerato Scelba e contrapposero i carretti agricoli per ripararsi contro i carri armati inviati ad occupare la cittadina. Parecchie persone ferite, un giovane di 33 anni ucciso, 180 gli arresti con moltissime donne.
carretti di traverso per le strade di S. Severo (foto dal catalogo della mostra di Giovanni Rinaldi) Correva l’anno 1950, io studentessa del quinto Liceo Scientifico, il giorno 23 Marzo (giornata di sole primaverile) mi recavo a scuola. Ero a pochi passi dalla scuola quando sentii degli spari, mi fermai di botto e poi d’istinto mi diressi verso piazza Municipio. La scena che mi si presentò davanti agli occhi fu sconvolgente. Gli Scelbini si erano impadroniti della piazza e coi fucili spianati intimavano la gente ad allontanarsi.Da ragazza incosciente, per strade secondarie, riuscii ad arrivare presso piazza Castello per cercare mio padre ma non lo trovai, vidi, invece non le barricate (come hanno riportato i giornali il giorno dopo) ma carretti sgangherati, messi in senso trasversale che facevano da riparo agli scioperanti. Tenevano dura la situazione ed inneggiavano cartelli con la scritta “vogliamo pane e lavoro“.Di corsa attraversai le strade per giungere a casa, la situazione in famiglia era preoccupante per le scarse e confuse notizie, man mano che passavano le ore la tensione cresceva sempre di più. Verso le quattordici si sentì il sibilo di una sirena, molti uscirono di casa gridando “si sono arresi, si sono arresi!”.Due anni di carcere duro, di privazioni, di sofferenze ed umiliazioni furono il prezzo pagato dai manifestanti.Forse pochi ricordano quel 23 marzo del 1950! Molti, infatti lo hanno già dimenticato.(Testimonianza di Antonella Pirro)Due anni di detenzione, con l’imputazione di insurrezione armata contro lo Stato, difensore al processo Lelio Basso a capo di un collegio. Alla fine proscioglimento e assoluzione generale. Le donne, trasferite insieme agli altri arrestati nel carcere di Lucera, riescono coralmente a comporre anche una canzone (video sopra a 4′:26”)Rubammo un pezzo di gesso dalla scuola del carcere, andavamo a un gabinetto che c’era, stava un paravento che si chiudeva e si apriva. Noi mentre che facevamo quel servizio, piglia e facevamo [scrivevamo] “Il 23 di marzo…”. Veniva un’altra “…che giornata di coraggio…” e abbiamo composto la canzone:Il ventitre di marzoSuccesse ‘n’arruina pe’ ddu belle San SevjireNnand’a la Cammera del lavoroVulevene eccìde a li lavoratour’U commessarie FratelleNe pers’ li cerevelle andù ‘rriga’ li femenelleAvevane deic’ come diceve jssePe’ ‘rrista’ li comunist’Alleghete è jut’a RoumaPurtete i connutete de li povere carcireteHa pigghiete la parolaCacciete four’ li lavoratour’Ha pigghiete la parolaL’aveite misse jind’ pe’ pane e lavour’
donne di S. Severo escono dal tribunale di Lucera scortate verso il carcere (foto dal catalogo della mostra di Giovanni Rinaldi) Per due anni i figli e le figlie con madri e padri agli arresti hanno vissuto da orfani. Ma qui scattava la stupenda operazione solidale: i circa 70 tra bambine e bambini venivano accolti da altre famiglie di Toscana, Marche, Emilia-Romagna.Non era un episodio dietro la commozione del momento. Operava fin dal 1946 su tutto il territorio nazionale una rete di Comitati di solidarietà democratica, organizzati dal fronte della sinistra di allora: PCI come componente più forte e soprattutto l’Unione Donne Italiane (oggi Unione Donne in Italia) che si assunse con particolare impegno il compito di protezione dell’infanzia disagiata (assistenza e aiuti, sostegno alla maternità, colonie estive, ecc.).Così furono chiamati Treni della felicità quelli che portarono, prevalentemente da sud presso famiglie ospiti al Centro-Nord, l’infanzia ferocemente colpita da bombe, fame e povertà, disagio sociale. Dal ‘46 al ‘52 furono circa 70.000 le bambine e i bambini in affidamento umanitario. Una grande operazione nata da un forte senso di etica sociale e politica condiviso, questa la vera unificazione, dove le donne hanno svolto un compito primario e con passione. Le donne dell’UDI in particolare, motivo di orgoglio per noi.Pasta nera, di Alessandro Piva in proiezione a Venezia, tutto questo racconta.
i Treni della felicità (foto dal catalogo della mostra di Giovanni Rinaldi)