Pensieri

resto al mio posto, seduto come una spugna


resto al mio posto, seduto come una spugna, e non rispondo mai al telefono. Scrivere è come passare in rassegna i fascicoli di un vecchio schedario di carcerati: alcuni per fortuna sono già volati via; altri purtroppo sono irrimediabilmente morti, nonostante l'ottimismo dei medici. Di quelli che restano non so che farmene, come non so che fare dei passerotti trascurati dai cacciatori, in vista del voto contro il decreto legge per la liberalizzazione della caccia. Passo ore a cavillare, a piluccare qua e là fra le pertinenze delle impalcature, fra barlumi di lucidità, levigando le parole con la pietra pomice per renderle affidabili o affilandole con la penna dopo averla strusciata su ciò che so essere impenetrabile, come un rasoio sulla coramella. Cerco di centrare la vita con gli arnesi a mia disposizione, con manovre avventate, a costo di straorzare, ma finisco per colpire sempre qualcos'altro, l'altro di cui quella è infestata ed intrisa fino al midollo e che mi stizzisce come ciò che è sufficiente, come i 'dunque' e ciò che per ora basta, come le cose che sopravvivono ma sono destinate a morire, come ogni presenza pronta a sventolare come canne al vento, nell'erba bianca e veloce come la coda di una volpe. L'io non è padrone a casa propria, quella casa che devitalizziamo come il dentista fa col dente; non lo è nel sonno, quando dai calci e pugni al letto, e poi ci ridi su; non lo è neppure nella veglia, quando si sospetta di non essere mutati, camminando per strada, prestanti come un decatleta; quando si incontra qualcuno con cui si è già vissuto. Anche tu, con cui ho avuto tanta intimità, non mi hai riconosciuto subito. Mentre parliamo mi accorgo che il tempo che non abbiamo passato insieme ci ha reso migliori: quasi sempre è per questo che tutto svanisce. Ti sono cresciuti dei piccoli peli biondi appena sopra e sotto la mascella, vicino all'orecchio, ancora incredibilmente piccolo, da morsicchiare. Non li ho visti crescere, e sono consapevole che per questo non ci sarà consolazione. Non ci sarà consolazione per ciò che non è stato. Se ometto il resto ed alzo la testa e gli alberi sono gli alberi, la strada la strada, di questo posso almeno chiedere scusa, questo lo posso accettare perché sono stato e voi siete stati ed ogni giorno ci siamo salutati; ma ciò che è strisciato sotto ai piedi, scalzi, ruvido come il velcro, non visto, è solo una mortificazione per ciò che abbiamo mistificato, come deturpare il viso di un bimbo estraendolo dalla vagina, violentemente, con un forcipe. Ora capisco che la mia sindrome di Stendhal non è altro che il panico che mi prende di fronte alla constatazione che è tutto più piccolo e miserabile di come l'avrei voluto, di come l'ho sognato, che i nostri strumenti sono obsoleti; le parole, le emozioni ed i gesti inadeguati; la mia vena aorta troppo fragile. Potremmo essere più grandi e meno aridi della facciata di Santa Croce. Lei, però, è dotata della perseveranza che a noi manca. Noi perdiamo facilmente la bussola ed i nostri sensi vanno in confusione. Solo raramente mi accorgo di possedere l'udito del barbagianni e sento il suono che mi scivola sulla faccia come sulla sua bianca mela. Siamo larve di farfalla in cui la normalità inocula il suo uovo come un ape braconida, contrariamente a quando, con l'andare degli anni, perdiamo tutti i capelli per alopecia e ci vediamo finalmente il cranio. Arriva tante volte il giorno in cui sei destinato a scoprirti molto diverso da chi avevi pensato di essere. Adesso, se appoggio la fronte sulla scrivania, sono di nuovo bambino e faccio la fila alla cannella per riempire i palloncini, per giocare ai gavettoni; d'incanto mi ritrovo in mano i miei testicoli grossi da vecchio, spelacchiati, gonfi come le mammelle di una mucca da latte, e provo a strizzarli, a piazzarli di nuovo sotto il glande. Adesso, se apro gli occhi, in mezzo a tanta gente, c'è il tossico con i capelli ricci e biondi, ossigenati, dalle grosse volute, come avevo anch'io quando ero adolescente e mio zio mi riservava le sue strane attenzioni. Ultimamente invece mamma prepara i cardi mariani, li cucina lessi; come sapesse che mi fa male il fegato. A dieci anni ho ingerito la trielina: io lo dimentico facilmente, lei lo ricorda continuamente. Arriva sempre il momento in cui capisci perchè, anche se non è mai per certo; chissà di che genere sarà la mia prossima pera o il prossimo viaggio. Infilo convulsamente la mano nella vaschetta per i resti di tutte le biglietterie automatiche della stazione; ho una giacca a vento blu, tirata sul collo, ed il viso rosso come un pastore d'alta montagna; cammino a piccoli passi; parlo sempre e solo con me stesso. Sempre e solo con me stesso, impersonando il diavolo che ci rende santi, magici come un campo dopo un bombardamento al napalm. Per dieta mi sono prescritto brioche e cappuccino. Ancora non sono del tutto guarito. E a volte mi si storce la bocca, e mi tirano le guance, e me ne sto rattrappito a formicolare, garrendo come una rondine; ed è questo l'ennesimo viaggio ad occhi stretti, il trip da sbevazzone, liberatorio come uno scivolone; la merda in cui mi posso grufolare, sradicato, scollato, come le carni ed i tendini tranciati di un animale; infarcito, da strappare con i denti, da infilzare con i rebbi della forchetta, trionfante nel parossismo della mia monotona, bisbigliata auto-omelia. E non vedo l'ora di terminare, stroncare ogni presentimento, contrarre la paura dei nervi che degenerano, riuscire ad inghiottire e mettere fine all'estenuante sensazione di transitorietà e vulnerabilità. E poi, da capo, ricominciare.