Pensieri

questa è l'analisi impietosa di me stesso


questa è l'analisi impietosa di me stesso e di ciò che sono diventato; di come mi sembrino plausibili e condivisibili cose che una volta avrei definito inconcepibili, di come adesso veda una bimba dai riccioli castani nel mio futuro, che corra con difficoltà lungo l'argine del fiume; e di quanto sia chiaro che non è che abbia imparato qualcosa o sia cresciuto ma solo invecchiato. Per quanto ciò possa sembrare saggio e bello, sto solo inconsciamente obbedendo. Ho conosciuto la felicità quando ho capito che è qualcosa che si compra, un nemico con cui si viene a patti non perché hai veramente perdonato un affronto di tanto tempo fa, ma per stanchezza; che i sogni per definizione non si realizzano mai perché altrimenti dovrebbero essere sempre nuovi e smettere di essere sogni, e che ormai ho raggiunto quella fase della vita in cui ciascuno di noi è costretto a stare a guardare come Orione, senza più inseguire, camminando lentamente al fianco del fedele cane Sirio, mentre le Pleiadi si tuffano irraggiungibili al di là dell'orizzonte. Eppure, nonostante la convinzione della necessità di ciò che esiste, si evolve e muore, sia salda dentro di me e non ci siano ostacoli alla mia vista, ancora non riesco a fare a meno di aggredire per cose all'apparenza stupide e banali: perché non riesci a trovare la rotonda dove si è rotta la catena di distribuzione della macchina, di fronte alla concessionaria di Mercedes Benz usate "Antonio Fineschi", o perché non capisci come si fa ad alzare il volume del cellulare: è l'incapacità di riuscire ad accettare che non potrai essere qui. Mi spaventa sapere che quando saranno tutti morti, bene o male, in un modo o nell'altro, ce la farò. Le persone perdono e si perdono in un universo che è una sofferenza che si dispiega, mentre il resto, che ci è attaccato come l'acaro al tappeto, ciondola via, si disperde e si dilegua, nel tentativo vano di aggrapparsi come un ragno alla sua tela. Questo, almeno, è il vissuto dove metto tutto e non perdo niente, la valigia che non sto più facendo perché ho già iniziato a prepararmi. Starò qui finché non sarà finita. Tanto la merda avanza comunque tutto intorno e non serve scappare. E non credo a chi ha quasi cento anni ed afferma che è stanco di vivere. Le mie cose non le lascio andare, le porto con me: in questa valigia conservo un libro, Michel Houllebecq e "la ricerca della felicità"; il nottulino imbalsamato, il nottardo ed il torcicollo, la velia ed il nottolone; i cocci dell'accademia e la faina che vive nei racconti di mio zio; Geppo; le conchiglie fossili che rendevano dura come la pietra la terra che zappavi quando eravamo bambini, il soffio nel fischio in culo del tuo ciuchino di terracotta, l'autogru dell'Automobile Club Italia ed il sorriso placido del carrista gentile, che immagino somigli a quello del nonno che non ho mai conosciuto; le nervature di una foglia; la statua di bronzo su cui ho sbattuto la nuca, che mi ha fatto sentire per qualche giorno la mente lontana come una collina illuminata dal sole in un mattino di pioggia; il collirio al cortisone che ti sei messa troppo spesso; il tuo osso sacro sbucciato dalla nuova passione del cavallo che mi rassicura per come ti fa sembrare forte; le stronzate sulla morte che ho espresso a voce alta al tavolo degli amici ad una cena di matrimonio e la tua incazzatura; i merli neri, gli stessi della mia infanzia sulla scogliera, vividi come fucilate. E così cerco di mettere su la mia modesta opera d'arte, una strana composizione, dove riesca a dire ciò che vorrei credere sia reale e non se ne vada dimenticato. Ho intenzione di stupire chi sarà ad assistermi quando mi porteranno in sala operatoria e mi guarderanno dentro come ad un gambero sgusciato; di lasciare in anticamera delle cose da toccare, con cui riattizzare un poco il fuoco; affinché, non me, ma ciò che è stato di noi non vada sprecato, condannato all'estinzione; ma rimanga come appena impresso con le dita su una città di cera; come i tratti di pennarello sulle braccia degli adolescenti: qualcosa di evasivo, sempre taciuto, che riesci ad avvertire perché, anche se a poco poco finito nell'invisibile, non era diverso da te: come l'aneurisma che ancora non ti è venuto, come l'infarto che per poco non ti ha fermato il cuore. E la soluzione invece sarà in ciò che non abbiamo mai saputo.