Pensieri

immagino di restare chiuso


immagino di restare chiuso nella piccola stanza del manicomio di Saint Paul de Mausole, a Saint-Rémy-de-Provence, sotto la notte stellata, come un matto senza un orecchio a far compagnia al proprio autoritratto blue. Passeggio all'interno del palazzo blue della mostra di Mirò. Provo un sentimento, ma è solo un altro tentativo che ho già razionalizzato e codificato al punto di dimenticarlo. Provo a pensare, a fermare i balzi, gli schizzi, i morsi delle cose. La vita è un compito di cui so la soluzione ma su cui non mi riesco a concentrare perché ciascuno di questi lampi ruvidi o lisci come dita, che sono l'immaginazione nelle parole e l'adulazione in cui mi riconosco offuscano la vista e non la posso affrontare. Cammino per strada sfiorando cuori che battono allo stesso modo e che continuano a battere perché ci illudiamo che i nostri battano di più, mentre sappiamo tutti che la noia o l'altro da fare alla fine contano più dei bei sentimenti e dei propositi di un attimo. Mettiamo da parte ciò su cui non si può costruire come un terreno friabile e renoso, anche se pieno di uova e di conchiglie, ed edifichiamo altrove. Lo recintiamo e ci attacchiamo sù un cartello con scritto "proprietà privata", cercando di autoconvincerci di tenere ben strette le cose davvero importanti; poi subito lo dimentichiamo o al massimo ne parliamo con orgoglio e boria senza mai darsi la pena di controllarne lo stato e disinteressandoci se qualcuno vi abbia fatto dei buchi nella rete e ne faccia scempio. Non credo che abbiamo davvero bisogno di vite cui applicarsi agli altri. I rapporti veri sono quelli senza impegno ed interesse in cui ci si ricorda chi siamo e da dove siamo venuti. Le famiglie, le coppie, i matrimoni sono imprese commerciali, enti di formazione al nulla dove l'amore è riservato alla ricreazione. Per questo sogno ancora il nostro di amore, perché è l'unico che in qualche modo sarebbe ancora realizzabile. Sogno di percorrere insieme a te il sentiero lungo il fiume ogni sabato pomeriggio, come faccio spesso da solo da qualche anno, e di stare là ad ascoltare il rumore della piccola cascata artificiale, così liscia e nera quando è piovuto, e parlare dei fiori, seduti su quella stessa panchina dove adesso c'è altra gente, ragazzini e anziani di giorno e puttane la sera, dei fiori che non ce l'hanno fatta a nascere, di quelli che sono morti come tutto muore, dei fiori che moriranno; e poi leccarti la fica, come ho già fatto; e farti venire, come non sono riuscito a fare, perché adesso non avrei più paura di fare del male e lo sbuffo della tua vagina sarebbe la palingenesi di ciò che siamo, un parto, un battesimo, una trasfusione che purifichi tutta la merda che mi scorre nelle vene. Tu non lo sai, perché raramente ci facciamo caso, ma siamo storie che collidono ogni giorno come atomi e, anche se non direttamente come le nostre, in qualche modo tutti quegli scontri, reali o immaginari, ci influenzano e ci fanno fallire il tiro o il bersaglio. Tu sei stata il pensiero, il desiderio, il fastidio dolce, lo struggimento, il languore più ricorrente negli ultimi quattro anni, da quando ti ho conosciuta; forse è dovuto al fatto che le persone hanno voglia di condividere solo calamità e sconfitte, morti e separazioni: pretendiamo tanta gente ai funerali, di non essere soli sotto la neve. A volte penso a te e mi immagino fra quaranta anni uguale a papà che mi racconta di come stringe forte la mamma nel sonno, come un maiale. Mamma è leggera, ha quindici anni, ammaliata, volteggia come una ballerina; e non è il rudere di adesso, impacciata come un orso. Il suo viso liscio d'intestino di una volta è la borsa dell'acqua calda di oggi. Non ancora è ciò che è stato ed io sono ciò che ero prima di iniziare ad imbruttire. Come succede a tutti. Isolamento e relazione sono due aspetti della stessa difesa dei corpi da ciò che loro malgrado sono costretti a generare. Altre volte invece penso agli ultimi giorni che siamo stati insieme, e tu improvvisamente somigli al prete, don Serafino, persona stimata ed amata da tutti. Non ho provato dispiacere quando si è ammalato ed è morto. Un giorno, durante l'ora di religione, sorvolò sgarbatamente, scostando il ciuffo bianco ed unto dagli occhi con un colpo di mano e girando la faccia grassa e paonazza come una torta al ribes, quando espressi l'opinione che anche la vita di una sola persona vale più di una guerra giusta. Tu avresti fatto lo stesso; l'avresti pensata come don Serafino che riteneva che, per la salvezza di tanti, quella sola vita fosse sacrificabile. Non l'ho più stimato da allora, né come persona, né come prete. Lui non l'avrebbe salvato dio, per lui la morte era una cosa dovuta e un fatto necessario, come per te era necessaria ogni azione. Ognuno di noi per un un po' ha la parte di dio ed è inevitabile che venga sacrificato da qualcun altro. E lo so che non pensi più a noi come in quei giorni o almeno non allo stesso modo in cui lo faccio io adesso. So che neppure peschi più nel nostro di passato ma in quello che hai vissuto con qualcun altro. In fin dei conti sono solo parole che scrivo per me. Sai, condividere una vita a tempo perso è l'unico modo che avremmo per recuperarla. Ma ho cercato di farla vivere anche senza di te: ci sei stata in tutti i programmi che ho fatto, come un ospite a sorpresa; hai infestato ogni stanza della mia vita indipendente, da single; hai lasciato sabbia sui tappetini e impronte di sudore sulla tappezzeria della macchina nuova e ti ho vista ogni volta fra le facce dei tanti studenti, più o meno della tua età, che mi guardano come un dio e a cui racconto cazzate. Ci sarai nella prossima convivenza, anche se è un pensiero che fa arrossire. Ormai non credo potrà essere diversamente. Forse questa è l'immaginazione sana del malato immaginario. Lo spreco dei corpi privati, delle proprietà private, degli affetti privati è la vera impudenza. Ho già provato a dimenticare, mettendomi di fronte all'evidenza dei fatti: le tue nuove storie e le mie, gli interessi recenti e quelli di sempre, le strade divergenti su cui mi hanno portato l'impegno che ho messo nel lavoro per occupare la mente ed i viaggi verso incontri con persone sconosciute e di culture diverse per parlare di vaccate; e poi le persone che ho accanto, quelle cui mi sono abituato e con cui ho familiarità ed intimità e che a volte vorrei mi amassero di meno, per sgravarmi la coscienza; le persone che amano te. Ma non ce l'ho fatta, perché tu riesci a stare ovunque, ed io riesco a metterti dovunque. La gente riderebbero se vedesse cosa ho in testa. Avrebbero ragione perché mi rendo conto di essere un essere ridicolo, stupido come gli amanti, un fesso come gli amanti senza amore. Ma è così. Continuerò a pensarti, in ogni gesto, su ogni strada; e questo, per quanto mi faccia soffrire, per quanto non possa dirlo a nessuno, è l'unico pensiero che mi fa sentire vivo. Ci sei soprattutto in queste pagine che cerco invano di abbandonare; fra le cose che scrivo, da una parte per farti piacere, infondo credo sia bello avere un posto dove qualcuno scriva di te, anche se non ne sei a conoscenza; dall'altra perché queste parole sono come pezzi di carta igienica per liberare il culo dalla merda. Infondo non mi tradisco, ho sempre creduto nella scrittura come testimonianza della merda, biografia, antifinzione, antistoria, antipersonaggio. Non apprezzo i racconti di vita ma chi fa della propria vita un racconto e la sa concludere, la sa chiudere, come chi caca nella tazza. Per questo non apprezzo me. Cedo, ho ceduto, e cedo ancora. Suono la lira nella città in fiamme e sono totalmente lucido e so che buttare via tutto, la vita, è l'unica cosa che si possa fare. Poi duplico le chiavi di casa dal ferramenta e le metto in una busta trasparente portandole in giro come pesci rossi vinti alle giostre; alla fine le attacco ad un portachiavi di pelle che contiene un piccolo cuore di metallo a specchio. Cedo come i rami cedono ai loro frutti: forse cedo perché essi sono un perché. Questa vita infondo è soltanto una fra le tante cose che mi sono successe; non è poi così terribile. E mi chiedo cosa si abbia quando si pensa di averlo, se sia stato ciò che volevo, se adesso questo sia proprio questo. Credo che per certi bisogni di nulla non ci sia soluzione e sia come masturbarsi per rilassarsi, per allentare la corrente intorno al passato, immobile come un pilastro del ponte nel fiume, per toccare il presente che ci scorre intorno e corre via. Consumare, rubare alle nostre reciproche vite è l'unico modo di non lasciarle morire. È difficile da accettare, ma vorrei potertelo dire. O vorrei che tutto fosse volgare, compromesso e irrimediabile e non claustrofobico e strapieno della normalità delle pance piene e gravide come cortecce gonfie di rami in decomposizione, e che tutto questo fiorire, che in verità è esplodere, traboccare di mimi, di farfalle dagli occhi di gufo, polpi stelle marine, gatti amazzoni che simulano il richiamo dei piccoli di tamarindo e di noi santi, espiati dai ricordi, si atrofizzasse intorno ad essi e me li facesse riconoscere per ciò che sono. Allora forse mi rimarrebbe questo: tu che mi tiri una sega controvoglia, sdraiata sul sedile della mia auto, con lo schienale abbassato; e questo: la certezza che sia tutto ciò che è stato.