Pensieri

c'è tanta gente al café Belgíë


c'è tanta gente al café Belgíë, individui stretti come granchi nella tana, che bisbigliano e rumoreggiano mentre un formicolio cresce nel petto, fra i tavoli, come vino che fermenta, e impetuose balenano impressioni coscienti di cui mi invaghisco, di cui mi sono invaghito, mentre si schiudono ricordi. Ci sono tutte le persone e le cose che ho creduto essere andate, morte, sparite, ma che, ora capisco, è più corretto dire che sono già arrivate, soldati disertori dopo un armistizio, di cui nessuno si dà pena; mutazioni sociali, percorsi senza uscita dell'evoluzione. Il mondo è una impressione cosciente ed io lo so che, come il resto, sono già stato pensato al di là di una porta che cigola, la porta del tempo, con il suo suono d'acqua che stilla da un rubinetto. Sono cresciuto come una montagna, un bimbo, un'evoluzione: non c'è differenza se non per livello d'astrazione, e per il conto dei giorni. Fossi stato senza memoria, sarei rimasto sempre all'origine ma, nel qual caso, non ci sarebbe stata neppure la vita, con tutte le minuzie e le malizie di cui sia lei che noi ci pasciamo. Sono uno dei commensali al tavolo a cui ospite non pervenuta è l'esistenza. Aquiloni ricciuti soffiano in piccole sensuali vele di cartilagine sotto soli di capelli, petti e pance sussultano tenere e selvagge come la deglutizione, inconsulte, come uno scoglio che inghiotta un'onda. Sono belli e convenzionali gli esseri umani nei loro vestiti di carne; fusi, indistinti nella carne del tempo che invecchia. Non è più una sorpresa il fatto che mi sorprenda ancora chi non impara mai gli indugi e le incertezze ma resta triviale come la realtà, con le caviglie pelose nell'acqua. Bevo. Perdo i sensi e li ritrovo, e scopro che c'è tanto non senso nell'irreale quanto senso nella realtà e che inaspettatamente queste entità si somigliano molto. Eppure come è facile trovare una ragione a ciò che sta fuori di me e non mi appartiene e, al contrario, quanto consueto non avere spiegazioni per ciò che mi nasca dentro, per i parti della mente, per tutte queste sensazioni. Forse è perché l'esistenza non è altro che testimonianza e non ci è concesso di portarne di noi stessi. Fuochi di Pietramala, infondo non siamo diversi, fatue macchie celesti iridescenti infiammate dai respiri, lente combustioni. Dio giusto, lenta morte, dio eutanasia, dio vecchiaia, dove sei. E tu, luna sdentata, gentile, generosa come un lago, mare, azzurro d'Alemagna, turbolenta e rumorosa come suonatori di sax, dove sei. Cresco, gonfio sommessamente intorno a delle ossa, in mezzo agli altri, pioggia torrenziale di questa stanza: abbiamo aggiunto troppa sabbia al cemento su cui costruiamo le nostre case, nelle mura che crollano su solitudini di cui ciascuno, qui distratto, tiene la propria chiave; nei palazzi fitti come formicai dove a un tratto sbuchi tu. Divento liquido, macero, sono un sorriso, mi ramifico, la mente è lontana e intricata, una mappa senza rotte da Barcellona. Per pochi attimi vivo il me stesso che ho già vissuto, racchiuso là, ancipite, nel limbo dei brevi aneddoti che rimangono di una vita. Ho intenzionalmente voluto essere così occupato da non vederli: i baci da Adriano Meis, una tigre bianca, la cartilagine dell'orecchio rotta, la scriminatura dei capelli. I corvi non inghiottiranno mai gli avidi avvoltoi. Ci saranno solo brevi pause, simboli fisici, due boccali di birra che possano trasformarsi nel ramo d'oro per il mondo dei morti, efficaci per fottersi l'anima nella sua presenza parassitaria e larvale. Due boccali di birra e posso essere Ghandi che guida i seguaci dalle tenebre alla luce, persone sconosciute, ammucchiate, che fanno le bizze alla normalità, alla noia, burrascose come Unni su sedie appuntite e sofferenti, antiche come Camiti. Solo in questi momenti so parlare con la bocca piccola da una bocca grande, so possedere, maneggiare le cose come se non mi appartenessero. Mi accendo, so fantasticare ma non articolare; non creo forme, idolatro idoli: una partita a pallone con papà, tu che mi tieni la mano, il profilo di un viso su un guanciale, scoglio di scogliera: entità che non respirano più ma sono rimaste intatte come il corpo di San Cristoforo. Abbiamo corso e scherzato. Abbiamo corso e scherzato, e le nostre corse, i nostri scherzi, erano i suoi respiri. Poi ci siamo spostati, digerendo, come i bruchi. Per quanto vicini, per quanto lontani, muoversi senza raggiungersi mai, come Achille con la tartaruga. E nonostante questo, tutti continuano la loro strada, da capo a coda, da coda a capo, pensando che sia un tubo, trascinati d'inganno alla fiamma in spirale di falena. Dio è un infinito numero di casi e non c'è improbabilità dove non c'è numero: per questo siamo stati. Eppure una probabilità infinita in uno spazio infinito garantisce la vita ma non preserva singole esistenze: queste le conserviamo noi, per caso, per poco, semplici estensioni, sopravvivenze preservate, difese con ogni mezzo: pavoni dalla coda colorata, formiche sulle ali del mondo per far strage di batteri. Alla fine siamo stati esseri semplici o composti, abbiamo costruito cose semplici o complesse: atti di volontà su irriducibili complessità, riducibili semplicità, sempre vere, sempre false. E non convergono mai dalla fisica al mondo delle idee. Ma tutte cedono come bolle d'acqua. Tutte cedono come bolle d'acqua.