Pensieri

ho sorpreso la mia gioventù finire con la lingua nella tua vagina


ho sorpreso la mia gioventù finire con la lingua nella tua vagina, una sera d'inizio d'estate, in un prato in nessun posto. Aveva occhi spalancati color verde corteccia e cielo, gravi e gremiti d'assenza, screziati di un riflesso umido e vuoto; aveva occhi da belva, tutti volontà di rappresentazione e sacrificio. L'ho trattenuta supina, con i palmi a terra su spilli bagnati, fra lucciole e capelli. Le ho leccato la fica, fibrillando, rapito; non aveva sapore. Poi ti ho guardata. Tu eri un feto d'oro in una torre di bronzo senza parole sfiorita in quel breve percorso che porta dallo stomaco al cuore, come una preda assalita. Ed io ero la bocca davanti a un massacro d'ossa e carne, illuso deluso furioso, una posizione alla fine di un movimento, un nido di rondine da volo, pietra di fionda prima del lancio, ragnatela d'angoli predatori, ragno d'eventi, schiavo e umano per umanità, libero ad unanimità. Ma chi è che mangia cosa e chi la causa e quale l'effetto. Corro i canali di Utrecht all'alba e fingo di non avere più benzina, per non mortificarti, ed ogni cosa mi assale sbiadita e crolla. L'incompiutezza è una ragazza magra con le calze rotte, ne ho per poco coscienza; a sera veste la morte fisica dell'assenza dei corpi. L'incompiutezza è il difetto dell'universo, un dio svogliato che non finisce mai i lavori. E la fica, la tua fica, era una breccia, un pugno chiuso; la fica, la tua fica, è un volto al limite della notte, un passaggio per vivere vite non esclusive, e oltre, avere la tua scena, smettere la mia. Guarda, di nuovo, il tuo cazzo, è ciò che rimane. Il cazzo racchiude il nichilismo della linea e le possibilità della materia, un mazzo d'asparagi legato con un filo d'erba; è l'opera d'arte più astratta, traveste la profondità. Il cazzo è una performance, un fuoco, un bagliore nella notte. E noi questo eravamo, resistenze su un prato, sfregate fino all'anima, a baciarsi e battere contro i denti, aggrovigliate sempre più ad ogni movimento folle, articolazione, angolo e parola, impalcatura, pala e cazzuola, identici a tronchi d'albero impagliati alle dighe in una prateria di fili d'erba, silenziosi e sensibili, liquidi, fra molecole di fiume, mentre fugge l'amore e ti trascina via di schiena, contro la tua schiena. Ma chi è che mangia cosa e chi la causa e quale l'effetto. La natura è una genitrice d'eventi, non meno materiali e appiccicosi delle nostre feci. Ed è semplice: gli eventi indossano cerniere, hanno la patta; a volte ad alcuni facciamo pompini. Ed è l'essenza del loro essere vuoti ed il poterli aprire, maneggiare, stimolare e chiudere che li generalizza a stanze dissolute e vagabonde in cui riversare ciò che di noi non possiamo apprezzare: la provvisorietà; perché non c'è uomo dio e terra, né frazione o resto, ma solo modulo e sesso, ed il non poter essere, l'aver potuto essere, il non essere mai stati sono i confini dove indugiano gli eventi e dove cominciamo noi, incerti su cosa ancora ti appartenga e tu in cosa ad essi; mentre coagularsi, come su quel prato, e poi lasciarsi andare o essere lavati via sono la conseguenza di un principio di separazione che è il modo naturale attraverso il quale la natura ti fa credere di sopravvivere alla sopraffazione da bestie e t'inganna che sia una scelta la scelta forzata di vivere, la più banale, nel non essere altro che se stessi. Non aver scelto e sentirsi ancora vivi ed accettare il trionfo della bellezza, mela bacata, splendida puttana piena di carie, verme, Vittoria casuale delle mutazioni, artificio d'incarnazione del simbolo e della verità, pera di bronzo in vena che affiora sotto la pelle. Ma quanto poco in me è variata l'esistenza, quanto poco sono cambiato e quanto è diverso da allora. Un lago d'indolenza, un armadio fitto di grucce, e due corpi, strani, avviluppati, di notte, su un prato, i jeans che ti strangolavano le cosce: eventi che non riesco a chiudere, che tengo in vita, persone vive, cuciture, punti di sutura, dove metto le dita, dove fa più male, e tu che ti apri e sbocci ed hai un fegato e smorzi ancora la morte. Due corpi, strani, avviluppati, di notte, su un prato, resistenti, fori precisi, tessuti, come di macchine da cucire Singer, e tu che hai un fegato, livido, e smorzi ancora la morte. Stasera a mezzanotte puoi viaggiare dallo spleen all'epoca bella, dai locali dove si serve l'assenzio alle ballerine di Can-can, ai cabaret di Pigalle, Le Divan Japonais e Le Chat Noir. Piove. Senza presente. Hai i capelli biondi adesso. E ti prego: non stare, non tornare. Brucia i tuoi desideri perché è l'unico modo di sottrarsi alla vita. Perché ad ogni istante fugge l'amore in quella statua di Rodin che ti è così vicina, nel viso rotto dai tuoi tratti che esce all'improvviso dal buio di quel prato, nei seni disserrati come costati di maiale di un'appartenenza altrui, nella visione di me e di te spacciati insalvabili nella realtà.