Ieri abbiamo visto un film brasiliano molto interessante, si chiama “Linha de passe”. Il film, che ha ricevuto numerosi premi sia in Brasile che all’estero, sembrava volermi ricordare che esiste un’altra Sao Paulo, quella che non frequenta i raffinati ristoranti dei quartieri Jardim e Vila Madalena, non abita nei lussuosi condomini di Morumbi e Itaim Bibi, non partecipa all’intensa vita culturale di Pixiga o Pinheiros. Protagonisti del film sono 4 fratelli che lottano ogni giorno per la sopravvivenza, vivendo sul filo della precaria frontiera che divide la legalità dalla criminalità.Non si può dimenticare che la città non offrirebbe tutti i servizi che offre per le classi media ed elevata, se non fosse per la presenza di milioni di persone appartenenti alle classi povera e miserabile, disposte a offrire il proprio lavoro ad un costo molto inferiore rispetto ai livelli dei paesi europei. A Sao Paulo le opportunità di lavoro sembrano infinite, in ogni negozio si contano decine di commessi e nei ristoranti sembra a volte che ci siano più camerieri che clienti (un giorno ho chiesto quanti dipendenti avesse il ristorante in cui stavamo pranzando… mi è stato detto 98!!). Ma al tempo stesso un sacco di giovani svolgono attività che sono difficilmente qualificabili come professioni. Per esempio ci sono ragazze il cui lavoro consiste in tenere appeso al collo un grosso cartello che annuncia la dotazione di un nuovo edificio residenziale in costruzione; davanti ai negozi di ferramenta è abituale che ci sia un ragazzo che, travestito da grosso martello, saltella avanti e indietro per attirare l’attenzione dei passanti; davanti a molti parcheggi a pagamento è frequente che ci sia una persona che passa la sua giornata segnalando con le braccia l’entrata a tutte le auto che passano. E queste sono solo alcune delle “professioni” più lecite ovviamente. E’ facile intuire che tutto ciò è possibili solo perché il costo della manodopera è ancora molto basso. A tal punto che mi chiedo spesso dove sia il limite tra il diritto dell’uomo a svolgere un lavoro e il diritto di un datore di lavoro di sfruttare persone che pur di guadagnare due soldi accettano anche i lavori più umilianti.Nonostante tutto, in Brasile si sta vivendo un periodo di grande euforia, i giornali annunciano nelle prime pagine che la gente non è mai stata così ottimista, fiduciosa e… felice. A me invece urta un po’ vedere che questa “felicità” venga misurata in termini puramente di consumi, in funzione del numero di automobili e televisori LCD venduti; quando invece il Paese ancora offre standard ragionevoli di salute e istruzione solo a chi è in grado di pagare un’assicurazione sanitaria e di mandare i figli alla scuola privata; elementi che marcano in questo modo ancora di più la divisione sociale. E attraversando in autostrada le desolate periferie di Sao Paulo, costellate di favelas come quelle di Rio de Janeiro –solo meno scenografiche e panoramiche- viene da chiedersi quanti anni ci vorranno prima che l’ottimismo e la fiducia arrivino anche lì.
L'altra faccia della città
Ieri abbiamo visto un film brasiliano molto interessante, si chiama “Linha de passe”. Il film, che ha ricevuto numerosi premi sia in Brasile che all’estero, sembrava volermi ricordare che esiste un’altra Sao Paulo, quella che non frequenta i raffinati ristoranti dei quartieri Jardim e Vila Madalena, non abita nei lussuosi condomini di Morumbi e Itaim Bibi, non partecipa all’intensa vita culturale di Pixiga o Pinheiros. Protagonisti del film sono 4 fratelli che lottano ogni giorno per la sopravvivenza, vivendo sul filo della precaria frontiera che divide la legalità dalla criminalità.Non si può dimenticare che la città non offrirebbe tutti i servizi che offre per le classi media ed elevata, se non fosse per la presenza di milioni di persone appartenenti alle classi povera e miserabile, disposte a offrire il proprio lavoro ad un costo molto inferiore rispetto ai livelli dei paesi europei. A Sao Paulo le opportunità di lavoro sembrano infinite, in ogni negozio si contano decine di commessi e nei ristoranti sembra a volte che ci siano più camerieri che clienti (un giorno ho chiesto quanti dipendenti avesse il ristorante in cui stavamo pranzando… mi è stato detto 98!!). Ma al tempo stesso un sacco di giovani svolgono attività che sono difficilmente qualificabili come professioni. Per esempio ci sono ragazze il cui lavoro consiste in tenere appeso al collo un grosso cartello che annuncia la dotazione di un nuovo edificio residenziale in costruzione; davanti ai negozi di ferramenta è abituale che ci sia un ragazzo che, travestito da grosso martello, saltella avanti e indietro per attirare l’attenzione dei passanti; davanti a molti parcheggi a pagamento è frequente che ci sia una persona che passa la sua giornata segnalando con le braccia l’entrata a tutte le auto che passano. E queste sono solo alcune delle “professioni” più lecite ovviamente. E’ facile intuire che tutto ciò è possibili solo perché il costo della manodopera è ancora molto basso. A tal punto che mi chiedo spesso dove sia il limite tra il diritto dell’uomo a svolgere un lavoro e il diritto di un datore di lavoro di sfruttare persone che pur di guadagnare due soldi accettano anche i lavori più umilianti.Nonostante tutto, in Brasile si sta vivendo un periodo di grande euforia, i giornali annunciano nelle prime pagine che la gente non è mai stata così ottimista, fiduciosa e… felice. A me invece urta un po’ vedere che questa “felicità” venga misurata in termini puramente di consumi, in funzione del numero di automobili e televisori LCD venduti; quando invece il Paese ancora offre standard ragionevoli di salute e istruzione solo a chi è in grado di pagare un’assicurazione sanitaria e di mandare i figli alla scuola privata; elementi che marcano in questo modo ancora di più la divisione sociale. E attraversando in autostrada le desolate periferie di Sao Paulo, costellate di favelas come quelle di Rio de Janeiro –solo meno scenografiche e panoramiche- viene da chiedersi quanti anni ci vorranno prima che l’ottimismo e la fiducia arrivino anche lì.