Don Scaccaglia pro gay: sarà trasferito.

Post n°30 pubblicato il 04 Dicembre 2008 da Fedellah

Il viso di Oscar Romero sorride affianco a un Cristo intessuto nei fili di tinte latinoamericane che avvolgono l’altare. Affianco a Gesù di Nazaret e al martire del popolo salvadoregno, bambini, minatori, indigeni reggono cartelli con parole di riscatto come “riforma agraria”. Dietro all’altare, il tabernacolo affiancato da due mappamondi, segno di quella fedeltà alla terra, che tanti uomini di fede hanno predicato e vissuto nella vita e nella morte. Entrare nella chiesa di santa Cristina è un respiro a pieni polmoni del soffio di quel vento di riforma e rinnovamento, di stretta comunanza con la vita delle donne e degli uomini e di prossimità agli esclusi ed emarginati che il Concilio - del cui annuncio si ricorderanno tra poco i 50 anni - insegnò alla Chiesa, in una stagione che oggi pare così pericolosamente rifiutata e negata.

Le porte di santa Cristina sono aperte, anche quando in chiesa non c’è nessuno. Don Luciano in questi anni le porte le ha aperte a tutti: omosessuali, divorziati, poveri, rifugiati e immigrati. Ora don Luciano quelle stesse porte se le vede sbarrare di fronte proprio dalla Chiesa cui ha professato amore e obbedienza. Nei giorni del duplice intervento vaticano rispetto alla proposta francese all’ONU di depenalizzare l’omosessualità e del rifiuto di firmare la Carta dei disabili per l’assenza di un riferimento al divieto all’aborto, la vicenda di don Scaccaglia assume una rilevanza enorme. Perché proprio sul tema dell’omosessualità, don Luciano ha preso posizioni di accoglienza giudicate non in linea col Magistero.

Le voci che da alcune settimane si rincorrono nel mormorare un possibile trasferimento del parroco più controverso, amato e disprezzato di Parma non appartengono più solo alle chiacchiere da sagrestia. Si attende nei prossimi giorni la notizia di un trasferimento di don Luciano, ma il provvedimento preso da Roma potrebbe addirittura essere più grave, arrivando alla riduzione allo stato laicale. Don Franco Barbero, amico di don Luciano, ci aiuta nel fare chiarezza in questa vicenda. “Conosco bene don Scaccaglia, i suoi libri, la sua persona. Sono stato a celebrare l’eucaristia nella sua parrocchia”. E afferma che ciò che accadrà  “è oggetto di trattativa. Certamente si parla di trasferimento, credo che il trasferimento sia l’ipotesi più probabile ma ci vuole riserbo e rispettp”. Don Franco è un altro di quelle figure religiose “scomode” - come si dice con un aggettivo improprio da salotto - che attraversano l’Italia e non solo. Ridotto allo stato laicale nel 2003 con un provvedimento firmato dall’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, don Barbero (come continua a farsi chiamare) anima a Pinerolo la realtà di una delle comunità ecclesiali di base che fiorirono negli anni conciliari in diversi continenti sulla scia latinoamericana, intorno alla centralità della lettura comunitaria delle Scritture, di una liturgia che parlasse alle persone e rimettesse al centro la radicalità del Vangelo e di una prassi di giustizia e solidarietà. Inutile dire che le CEB sono ora tra gli ambiti più malvisti dalle gerarchie vaticane.

Don Barbero analizza dalla sua prospettiva la realtà ecclesiale attuale in Italia e non solo: “C’è un’operazione di settaccio, una pulizia teologica, un clima di caccia all’eretico. È un periodo molto difficile perché le persone che tentano strade nuove di fede per amore del Vangelo vengono visti come soggetti pericolosi”. Per don Franco “la vicenda di don Scaccaglia si inserisce in questo contesto”. Don Barbero sottolinea come “nessun vescovo è insorto rispetto alle dichiarazioni sugli omosessuali. I vescovi sono burattini nelle mani del vaticano”. Ecco che allora nel caso di Parma, anche il diritto di parola e intervento del vescovo Enrico Solmi appare ridimensionato: “Penso che il vescovo di Parma cercherà di svolgere un ruolo di mediazione, ma i vescovi non contano nulla”, continua don Franco. Per trovare gli attori principali in questa vicenda bisogna allora spostarsi a Roma, a Città del Vaticano, negli uffici della Congregazione per il Clero e in quelli per la Dottrina della Fede.

Don Scaccaglia è una figura particolare rispetto ad altre storie di “pretacci” perché da sempre unisce riflessione e prassi, teologia e pastorale, studio personale e guida della comunità parrocchiale. Per questo, afferma don Franco Barbero, “sono le sue predicazioni rispetto alla figura di Gesù, il suo commento al Vangelo di Marco, la sua solidarietà agli omosessuali e alle lesbiche” ad aver richiamato gli strali vaticani. Il tema del rapporto tra gay e lesbiche e cattolicesimo è particolarmente caro a don Franco, che proprio in questi giorni pubblica il libro “Omosessualità e Vangelo” e che su questi fronti anima un blog decisamente distante dalle linee vaticane. E il capitolo del nodo tra omosessualità e fede cristiana è un vaso di Pandora che squaderna un mondo sommerso che spesso nelle comunità ecclesiali non si conosce e si vuol far tacere. Sono tanti, tantissimi, i gruppi di gay e lesbiche che in Italia si interrogano sul come vivere la propria fede cristiana, con incontri, confronti, anche tensioni e differenze. Un mondo che però pochissimi conoscono e che invece nasce già negli anni ’80, a Milano, con il gruppo “La fonte”, accompagnato da don Domenico Pezzini. Anche nella Parma di don Scaccaglia esistono alcuni gruppi di questo tipo. I prossimi giorni risponderanno all’interrogativo sul futuro di don Luciano, se la sua colpa sia stata l’apertura verso gay e lesbiche, l’accoglienza degli ultimi o la sua interpretazione delle Scritture.

da Repubblica on line del 03 dicembre 2008

 

 
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Buon 5 novembre.........

Post n°29 pubblicato il 05 Novembre 2008 da Fedellah

"Come molti di voi, io apprezzo il benessere della routine quotidiana, la sicurezza di ciò che è familiare, la tranquillità della ripetizione. Ne godo quanto chiunque altro. Ma nello spirito della commemorazione, affinché gli eventi importanti del passato, generalmente associati alla morte di qualcuno o al termine di una lotta atroce e cruenta, vengano celebrati con una bella festa, ho pensato che avremmo potuto dare risalto a questo 5 novembre, un giorno ahimè sprofondato nell’oblio, sottraendo un po’ di tempo alla vita quotidiana, per sederci e fare due chiacchiere. Alcuni vorranno toglierci la parola. Sospetto che in questo momento stiano strillando ordini al telefono e che presto arriveranno gli uomini armati.

Perché?

Perché mentre il manganello può sostituire il dialogo, le parole non perderanno mai il loro potere, perché esse sono il mezzo per giungere al significato e per coloro che vorranno ascoltare all’affermazione della verità… e la verità è che c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese.

Crudeltà e ingiustizia, intolleranza e oppressione, e lì dove una volta c’era la libertà di obiettare e di pensare di parlare nel modo ritenuto più opportuno, lì ora avete censori e sistemi di sorveglianza che vi costringono ad accondiscendere su ogni cosa. Come è accaduto? Di chi è la colpa? Sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò, ma ancora una volta, a dire la verità, se cercate il colpevole non c’è che da guardarsi allo specchio. Io so perché l’avete fatto, so che avevate paura… e chi non l’avrebbe avuta?? Guerre terrore malattie, c’era una quantità enorme di problemi, una macchinazione diabolica atta a corrompere la vostra ragione e a privarvi del vostro buon senso. La paura si è impadronita di voi e il coas mentale ha fatto si che vi rivolgeste all’attuale alto cancelliere Adam Sathler: vi ha promesso ordine e pace in cambio del vostro silenzioso obbediente consenso. Ieri sera ho cercato di porre fine a questo silenzio. Ieri sera io ho distrutto il vecchio Beily per ricordare a questo paese quello che ha dimenticato: più di 400 anni fa un grande cittadino ha voluto imprimere per sempre nella nostra memoria il 5 novembre; la sua speranza: quella di ricordare al mondo che l’equità, la giustizia la libertà sono più che parole… sono prospettive. Quindi, se non avete visto niente, se i crimini di questo governo vi rimangono ignoti, vi consiglio di lasciar passare inosservato il 5 novembre.

Ma se vedete ciò che vedo io, se la pensate come la penso io e se siete alla ricerca di come lo sono io, vi chiedo di mettervi al mio fianco: a un anno da questa notte fuori dai cancelli del parlamento, insieme offriremo loro un 5 novembre che

non

verrà

mai

più

dimenticato"

V per Vendetta

 
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Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 17 Ottobre 2008 da Fedellah

E che palle questa lotta alla pedofilia. Tutti contro alla pedofilia ed ai pedofili.

Domanda: qualcuno può essere a favore (pedofili esclusi, si intende)? No.

Allora, gli amministratori di Libero segnalino alle autorità competenti i comportamenti illeciti.

Rientra nella disponibilità degli amministratori di Libero anche sanzionare comportamenti che siano contrari alla policy del sito, ma non certo quelli contrari alla morale.

Al di là delle problematiche intorno al concetto di morale, questa è qualcosa di ineffabile e di soggettivo (io, ad esempio, ne sono sprovvisto) e quindi non può darsi una censura sulla base del mancato rispetto di qualche cosa che non mi è dato conoscere.

Per tutti quelli che si stracciano le vesti per foto o blog (diciamo così) osè, non ci resta che parafrasare Bogey: è la rete bellezza, e tu non puoi farci nulla.

 

F.

 
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Post N° 27

Post n°27 pubblicato il 23 Maggio 2008 da Fedellah

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me
e non c'era rimasto nessuno a protestare


(Bertolt Brecht)

 
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Il declino globale degli stipendi:in busta 5mila euro in meno l'anno

Post n°26 pubblicato il 03 Maggio 2008 da Fedellah


La lotta di classe? C'è stata e l'hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti). Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all'apogeo della Prima Repubblica, la quota del prodotto interno lordo italiano, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12 per cento.

Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del "miracolo economico". L'allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni '90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell'anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale.
Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent'anni prima.

Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l'8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent'anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all'anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po' di qui, un po' di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef.
on è, però, un caso Italia. Il fenomeno investe l'intero mondo sviluppato. In Francia, rileva sempre lo studio della Bri, la fetta dei profitti sulla ricchezza nazionale è passata dal 24 per cento del 1983 al 33 per cento del 2005. Quote identiche per il Giappone. In Spagna dal 27 al 38 per cento. Anche nei paesi anglosassoni, dove il capitale è sempre stato ben remunerato, la quota dei profitti è a record storici. Dice Olivier Blanchard, economista al Mit, che i lavoratori hanno, di fatto, perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra.

Forse, bisogna andare anche più indietro, al capitalismo selvaggio del primo '900: come allora, in fondo, succede poi che il capitalismo troppo grasso di un secolo dopo arriva agli eccessi esplosi con la crisi finanziaria di questi mesi. Ma gli effetti sono, forse, destinati ad essere più profondi. C'è infatti questo smottamento nella redistribuzione delle risorse in Occidente dietro i colpi che sta perdendo la globalizzazione e il risorgere di tendenze protezionistiche: da Barack Obama e Hillary Clinton, fino a Nicolas Sarkozy e Giulio Tremonti.

Sostiene, infatti, Stephen Roach, ex capo economista di una grande banca d'investimenti come Morgan Stanley, che la globalizzazione si sta rivelando come un gioco in cui non è vero che vincono tutti. Secondo la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, la globalizzazione doveva avvantaggiare i paesi emergenti e i loro lavoratori, grazie al boom delle loro esportazioni.
E quelli dei paesi industrializzati, grazie all'importazione di prodotti a basso costo e alla produzione di prodotti più sofisticati. "E' una grande teoria - dice Roach - ma non funziona come previsto".
Ai lavoratori cinesi è andata bene, ma quelli americani ed europei non hanno mai guadagnato così poco, rispetto alla ricchezza nazionale. Sono i capitalisti dei paesi sviluppati che fanno profitti record: pesa l'ingresso nell'economia mondiale di un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi emergenti, che ha quadruplicato la forza lavoro a disposizione del capitalismo globale, multinazionali in testa, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori dei paesi sviluppati.

Quanto basta per dirottare verso le casse delle aziende i benefici dei cospicui aumenti di produttività, realizzati in questi anni, lasciandone ai lavoratori le briciole. Inevitabile, secondo Roach, che tutto questo comporti una spinta protezionistica nell'opinione pubblica, a cui i politici si mostrano sempre più sensibili.

Ma il ribaltone nella distribuzione della ricchezza in Occidente è, allora, un effetto della globalizzazione? Non proprio, e non del tutto. Secondo gli economisti del Fmi, nonostante che il boom del commercio mondiale eserciti una influenza sulla nuova ripartizione del Pil, l'elemento motore è, piuttosto, il progresso tecnologico. Su questa scia, Luci Ellis e Kathryn Smith, le autrici dello studio della Bri, osservano che il balzo verso l'alto dei profitti inizia a metà degli anni '80, prima che le correnti della globalizzazione acquistino forza. Inoltre, l'aumento della forza lavoro disponibile a livello mondiale interessa anzitutto l'industria manifatturiera, ma, osservano, non è qui - e neanche nei servizi alle imprese, l'altro terreno privilegiato dell'offshoring - che si è verificato il maggior scarto dei profitti.

Il meccanismo in funzione, secondo lo studio, è un altro: il progresso tecnologico accelera il ricambio di macchinari, tecniche, organizzazioni, che scavalca sempre più facilmente i lavoratori e le loro competenze, riducendone la forza contrattuale. E' qui, probabilmente, che la legge di Ricardo, a cui faceva riferimento Roach, si è inceppata. Il meccanismo, avvertono Ellis e Smith, è tutt'altro che esaurito e, probabilmente, continuerà ad allargare il divario fra profitti e salari in Occidente.

Dunque, è la dura legge dell'economia a giustificare il sacrificio dei lavoratori, davanti alla necessità di consentire al capitale di inseguire un progresso tecnologico mozzafiato? Neanche per idea. La crescita dei profitti, sottolinea lo studio della Bri, "non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra". Anzi "gli investimenti sono stati, negli ultimi anni, relativamente scarsi, rispetto ai profitti, in parecchi paesi". In altre parole "l'aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa per un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche". La lotta di classe, appunto.
tratto da "repubblicaonline" 03/05/2008

 
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