IPERBOLE

UNO E BINO (CON PARENTESI INTIMISTICA)


            
Ha ragione il tribuno Di Pietro nel definire “uno e bino” il Presidente della Camera dei Deputati che da ieri rappresenta ufficialmente una destra di lotta e di governo, così come nella migliore tradizione di certa sinistra mai arroccata a difesa dello status quo (neanche succube di quel gattopardismo che le lusinghe del potere alla lunga ne hanno determinano il disfacimento), ma protesa a riaffermare il ruolo di “buon governo” che ogni maggioranza deve avere, a prescindere dal colore politico e dai partiti che pro tempore la esprimono. Il Bene Comune, innanzi tutto, non la salvaguardia del particulare, ma il conseguimento dell’interesse generale: questo credo sia il discrimine dal quale è impossibile prescindere. E’ un po’ come evocare il migliore dei mondi possibili o quell’utopia tanto cara agli italiani della mia generazione, illusi e delusi da un impegno politico che nella migliore delle ipotesi ha lasciato il posto al disincanto e, nella peggiore, a un cumulo di macerie alimentato dai cascami di ideologie il più delle volte totalitarie ispirate da un pensiero unico che le rendevano (e le rendono così come accade per il berlusconismo) allergiche ad ogni forma di dissenso e pertanto destinate a finire nella spazzatura della Storia.   Ho ascoltato con molta attenzione il discorso di Gianfranco Fini alla festa di “Futuro e Libertà” e sono rimasto piacevolmente sorpreso dal contenuto: quanto meno ha dimostrato di avere gli attributi e quella vitale tensione al dissenso (inusuale fra gli yes man del capo-padrone-padrino) non per partito preso (o perso) ma per l’onestà intellettuale di dire che no, le cose così non vanno, citando dati di fatto e facendo nome e cognome del responsabile del degrado civile e morale in cui l’Italia è precipitata. L’invito ad essere cittadini e non sudditi, la riscoperta della centralità del Parlamento (e la nostra è una Repubblica Parlamentare sia pure condizionata dalla presenza non di eletti, ma di nominati), il richiamo al rispetto delle Istituzioni, la difesa dell’Unità Nazionale e della Costituzione, la condanna dei tagli indiscriminati alla Pubblica Istruzione, alla Giustizia, alla Sicurezza, e quelli più in generale apportati allo Stato sociale da un malgoverno per niente attento al bisogno di legalità che confonde l’autorevolezza con l’autoritarismo; insieme ad altri riferimenti a valori non più condivisi, come il lavoro, lo sviluppo, l’etica, l’occupazione, la solidarietà, l’accoglienza e la concertazione a torto ritenuti prerogativa di una sinistra, purtroppo incapace di declinarli così come Fini ha fatto ieri, non ultima la necessità di adottare una legge sul conflitto d’interessi, mi hanno indotto a chiedermi se è lui che è diventato di sinistra o se sono io che improvvisamente ho scoperto di essere di destra. Conversione improponibile, almeno da parte mia, giacché laddove non è riuscita la mia Nadia (una “destrorsa” borghese e liberale a cui il cavaliere sembrò falso e indigesto fin dalla prima ora e che di certo sarà contenta del nuovo corso finiano), non penso riesca la folgorante affabulazione di un Fini sulla piazza di Mirabello che ha saputo far vibrare le corde di un elettorato stanco e svogliato.Probabilmente lui ha capito prima di altri che non basta più rivolgersi alla pancia della gente, ma anche e  soprattutto al cuore e alla mente parlando di ideali; forse lui ha scoperto con colpevole ritardo i guasti apportati alla democrazia dalla discesa in campo di un affarista senza scrupoli, di certo lui si fa ispirare da una destra europea e liberale che guarda a berlusconi silvio come ad un corpo estraneo per qualsivoglia sistema democratico, un vulnus da rimuovere prima che s’incancrenisca e provochi delle metastasi.  Apro una parentesi un po’ intimistica, Fini mi ha offerto il “destro” per ricordare il mio primo Amore incontrato sui banchi di un liceo, quando a scuola si facevano delle interminabili assemblee studentesche e la politica incendiava gli animi. Io, proletario, evaso da un seminario, mi ritrovai d’improvviso in una classe mista fatta di figli e figlie di papà, fu lì che incontrai la (non più) mia Nadia. La prima volta che mi rivolsi a lei fu proprio durante un’assemblea quando, al termine di un’accesa discussione, non sapendo ancora il suo nome, la chiamai: “Destronza!” Non si offese, anzi mi disse di chiamarsi Nadia. Da quel momento iniziammo a frequentarci, a volerci bene, a scoprire insieme l’Amore, a fare progetti per il futuro; anche se poi la diversa estrazione sociale (al sud conta ancora) e un baro che amico pensavo, hanno infranto i miei, i nostri, sogni. Ciao, Destronza, so che ogni tanto mi leggi e mi scuserai se a volte parlo e scrivo di te con quel pathos che a distanza di anni, oggi mi porta a chiamarti come allora: ciao Destronza, lo sai che ti amo ancora?  Chiudo la parentesi strettamente personale salutando anche gli occasionali lettori di questo post ai quali il suddetto epiteto di certo avrà loro ricordato un liceale imbranato alle prese con “il tempo delle mele”.  Ebbene sì, lo riconosco, sarò pure un inguaribile sentimentale soggiogato da un’idea di “politica di sinistra antiquata” ispirata inesorabilmente dall’Uguaglianza, principio fondamentale dell’ordine democratico e al riscatto sociale, che ne è la diretta conseguenza, ma il Fini, politico di una destra moderna, non più massimalista, mi ha piacevolmente sorpreso.Pensavo che l’evidente stato d’insofferenza verso un aborto di partito concepito sul predellino da un riccastro illiberale, il senso di isolamento derivatogli dal disagio provocato nella maggioranza dalle sue condivisibili esternazioni, insieme all’abbandono dei suoi colonnelli che come topi hanno abbandonato la nave salendo sul carro del vincitore e gli uppercut sferratigli da una campagna di stampa denigratoria, ordita dagli organ house del cavaliere, seppure inficiati dal metodo “boffo”, l’avessero messo al tappeto. E che dire della campagna acquisti dell’innominato, degli inviti rivolti ai reprobi finiani a ritornare mansueti all’ovile come se avesse a che fare con delle pecore? “Chi rientra sarà ricandidato!” E che pensare delle esche velenose del caimano che da predatore è diventato miseramente preda? Evidentemente il tele-imbonitore sta perdendo il suo ruolo di venditore di aria fritta e di padrone del vapore. Un colosso dai piedi d’argilla si sta sgretolando sotto il peso delle sue menzogne. Anche il barbaro padano, compagno di merende del cavaliere errante, rischia di ritrovarsi con le pive nel sacco oltre il confine di quell’immaginaria linea gotica tracciata dall’intolleranza legaiola sulle carte geografiche di un’Italia che egli vorrebbe dividere sollecitato dalle spinte secessioniste, mai ebbro di un federalismo privo di quei decreti attuativi che lo rendono inapplicabile ed economicamente insostenibile: uno dei troppi do ut des che “il governo del fare” ha scambiato con le tante camarille di bassa lega che hanno degradato il tessuto economico e sociale italiano peraltro già lacerato, per dirla con Pasolini, da una profonda “mutazione antropologica” e da un’irreversibile crisi del “Palazzo”.   Si sta preparando un’ordalia d’inverno, alcuni dicono di primavera e ciò sarebbe anche meglio a condizione che, nel frattempo, si approvi una nuova legge elettorale, dando al popolo la possibilità di essere veramente “sovrano” e alle idi di marzo l’eco storica che sancisca la fine del regime mediatico e la nascita della terza Repubblica.