Morte Di Gambini

QUID FACIAM?


Limes - rivista italiana di geopoliticaA Washington va in scena una tragedia grecadi Fabrizio MarontaRUBRICA AMERICA E DINTORNI. Perchè la prima economia del mondo rischia la bancarotta.
(Carta di Laura Canali tratta da Limes 1/10 "C'era una volta Obama" - clicca sulla carta per ingrandirla)egli ultimi dieci anni, il Tesoro americano ha preso in prestito migliaia di miliardi di dollari da investitori nazionali e stranieri per finanziare spese straordinarie, quali le guerre in Afghanistan e Iraq, il salvataggio del sistema finanziario nel 2008 e le misure di stimolo all’economia dell’ultimo biennio. Ad oggi, il deficit tra entrate e spese federali viaggia sulla ragguardevole cifra di 125 miliardi di dollari. Al mese.Il risultato è che, come ufficialmente certificato dal segretario al Tesoro Timothy Geithner il 6 maggio scorso, il debito federale si appresta a raggiungere la fatidica soglia dei 14.290 miliardi di dollari. Questo numero esoterico non è frutto del caso, ma di una scelta legislativa. Risale infatti al 1917 il Second Liberty Bond Act, con il quale il Congresso americano impose al governo un tetto massimo alla quantità di debito pubblico che il Tesoro è autorizzato ad emettere.Ratio della legge era (ed è) sottoporre a occhiuta vigilanza la dinamica del debito, obbligando la Casa Bianca a passare dalle forche caudine di Capitol Hill ogni qualvolta ritenesse necessario aumentare il volume complessivo del debito pubblico. Il che, dal 1962, è successo ben 74 volte, grazie ad appositi voti del Congresso che hanno innalzato la soglia originaria.A rigor di logica (finanziaria), dovremmo essere alla vigilia del 75° ritocco, ma qui le ragioni della politica e quelle della finanza divergono. Storicamente, l’opposizione ha sempre cercato di usare l’innalzamento del debito per ottenere concessioni dall’amministrazione. Tuttavia, raramente la contrapposizione tra la prima (i repubblicani) e il partito del presidente (democratici) ha raggiunto i toni attuali, complice il controllo repubblicano della Camera bassa.In ballo c’è niente meno che la solvibilità dell’America. A differenza della mancata approvazione del bilancio annuale, infatti, un eventuale mancato accordo in seno al Congresso sull’innalzamento del debito comprometterebbe la possibilità del paese di raccogliere fondi sui mercati: il che vuol dire impossibilità di rifinanziare guerre e stampelle fiscali, ma anche di pagare gli interessi sul debito. Tecnicamente, un default: lo stesso che incombe sulla Grecia, per intendersi.I potenziali effetti sull’economia e sul dollaro sono facilmente intuibili. Quanto ai primi, il governo dovrebbe adottare misure d’emergenza, tra cui l’innalzamento delle tasse, il congelamento di rilevanti capitoli di spesa e, ovviamente, il blocco dell’emissione di nuovo debito (in parte già attuata, sebbene per ora solo per alcune emissioni destinate al mercato interno). Misure dolorose, che peraltro - valuta il Tesoro - consentirebbero un’autonomia di appena tre mesi.Quanto ai secondi, una scuola di pensiero pronostica vendite massicce di titoli americani con conseguente svalutazione del dollaro (che nell’immediato avvantaggerebbe gli esportatori, ma minerebbe la posizione del biglietto verde come bene rifugio, dando un ulteriore colpo a ciò che resta della primazia americana); altri sostengono che dimensioni e importanza dell’economia Usa rendono il suo debito insostituibile e che, pertanto, gli investitori esteri (Cina e Giappone in primis) non lo svenderebbero.In ogni caso, c’è sostanziale consenso tra gli osservatori (a partire dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke) sul fatto che una “tragedia del debito” potrebbe precipitare il paese in una nuova crisi, dai devastanti effetti recessivi sia sugli Stati Uniti sia sul resto del mondo, a cominciare dall’Europa.Di fronte a questo temibile scenario, l’amministrazione ha chiesto per il 2012 un innalzamento del tetto di 2.200 miliardi di dollari, sufficienti appena a coprire il fabbisogno dell’anno prossimo. I repubblicani sono invece determinati a non concedere più di 1.900 miliardi. Sembra questione da poco (di fatto lo è), ma su questa esigua distanza si misura il divario “filosofico” tra un partito democratico deciso a trarre l’America dalle secche della crisi con ogni mezzo, “costi quel che costi” e un partito repubblicano che vede nel colossale debito pubblico la vera minaccia di medio termine alla stabilità sociale ed economica del paese e alla sua posizione nel mondo.Su tutto pesa il clima già pre-elettorale, reso ancor più incandescente dal dilemma “burro o cannoni” (alias rilancio interno vs onerosi vincoli esterni) cui l’America è stata brutalmente richiamata da una crisi i cui effetti, purtroppo, sono tutt’altro che esauriti.