Creato da amnerisdgl1 il 11/09/2011

DIVERSA-MENTE

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in quel di Verona 1992

Post n°24 pubblicato il 08 Settembre 2012 da amnerisdgl1

Ma è come se non ci fossi mai stata.

Aprii piano piano gli occhi, e sì, ero ancora lì, in quella stanza fin troppo bianca. Caterina era già in piedi, persa tra vapori di borotalco al profumo di mughetto e tra un pò mi avrebbe scosso per un braccio, dicendomi piano "E' tardi". Sì, meglio alzarsi, inutile indugiare anche se ogni giorno era sempre uguale: lavarsi, vestirsi, pastiglie, colazione. "Bene", pensai, almeno mangio. "Che casinooo". Lucia urlava sempre sentendo arrivare il carrellino dei farmaci e come sempre suor Alba ci discuteva per cinque minuti buoni. E come sempre Adelina, la compagna di stanza di Lucia, correva a difenderla e a giustificarla. "Chiasso chiasso, il carretto fa chiasso chiasso..." Sì, tutti i giorni la mattina iniziava così, anche se non sapevo quanti fossero questi giorni, da quando ero lì non facevo che mangiare e dormire. Anch'io presi, veloce, la mia manciata di pastiglie e il mezzo bicchiere di acqua amara che Suor Alba mi metteva, con forza, in mano e poi via in refettorio a prendere il mio posto tra Paola e Concetta, aggiudicandomi due panini, due vaschette di marmellata e due di nutella che infilai in tasca: l'avrei mangiata più tardi, senza pane e chiusa in bagno. Come sempre, trovavo tutto buono e inzuppavo beata il pane, ben imburrato e dolce di fragola, dentro la tazza del latte e orzo; no, niente caffè, dicevano che ci faceva star peggio, ma figurarsi se potevamo esserlo, era praticamente impossibile. L'unico incoveniente era, che con quella ricca colazione, aggiunta agli altri calorici pasti, il mio viso si arrotondava ancora di più; mi guardavo poco allo specchio, lo evitavo il più possibile, mi piaceva solo che i miei capelli si stessero allungando, ma sfuggivo gli occhi, sempre uguali, senza luce. Eppure ero contenta, anche il dottore diceva che stavo meglio e che presto sarei tornata a casa. Casa, casa, casa...non ricordavo da quanto l'avevo lasciata, e in effetti, spesso, non ricordavo nè di averla, nè dove fosse. Se cercavo di visualizzarla, nella mia testa scendeva la nebbia.

Ormai anche quella mattina era quasi andata, la riunione, in giardino, era finita e potevamo tornarcene in camera. Che noia! e un dottore e poi l'altro e poi la signorina Marcella che faceva domande e domande, lei, la psicologa che doveva sapere, scoprire e capire. E poi, come se non bastasse, ci si metteva pure la suora, che portava cartelle e scartoffie e che parlottava, sottovoce, all'orecchio dell'uno e dell'altro e dell'altra. Non ne potevo più, anche se cercavo di stare attenta e ascoltare, ma c'era un albero che mandava ai miei piedi la sua grande ombra e io ne seguivo i contorni. E mi interrompevano, una domanda e poi un'altra e poi un'altra, non mi lasciavano il tempo di pensare, anche se a me importava poco, anzi niente, pensare. "Ma perchè butti tutto per aria? E perchè ti metti a rompere gli oggetti? E i vestiti? perchè tagli i vestiti? persino quella tunica...quella che ti piaceva così tanto!". Alla psicologa doveva dispiacere molto per la tunica, più che per me, che ricordavo solo che era un regalo di mia suocera. Sì, quello lo ricordavo, perchè mia suocera di regali me ne faceva tanti, peccato che comprasse cose che solo a lei potevano piacere, in effetti la scelta del vestito non era sua. Ma la cosa più antipatica era, che chiunque incontrasse, parenti, amici, conoscenti, vicini di casa, veniva informato di cosa mi aveva dato, caso mai io dimenticassi di sottolinearlo, qualche volta chiedeva pure, al mal capitato di turno, se se lo ricordasse! Ma perchè parlo tanto di mia suocera? L'avevo quasi dimenticata e quì non facevano altro che ricordarmela, insieme a tante altre cose che sarebbe stato meglio seppellire per sempre. Le domande incalzavano. " E dove nascondi il martello? E perchè volevi ucciderti? E perchè volevi morire? ". Anna, Anna, Anna...Insomma! Io stavo solo immaginando a come ci si potesse sentire a mettersi in ginocchio e puntarsi le forbici sullo stomaco, più o meno come fanno in Giappone. Alla fine alzavo le spalle e stavo zitta, se non volevano capire che s'arrangiassero! Io quello che avevo da dire l'avevo detto, anche se non ricordavo bene che cosa avessi detto, ed ero stanca del fatto che mi costringessero ad infilare tante parole in testa, che non facevano altro che riempirmela tutta. E io dentro la testa non ci volevo niente, se non i contorni del mio albero che ogni volta dovevo incominciare a disegnare da capo. (continua)

 
 
 
 
 

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