Riflessi dell'anima

In memoria


  Entro nella stanza e sei seduto sulla tua poltroncina, lo sguardo nel vuoto e la mente chissà dove. Ti chiamo: “papà”. E tu mi cerchi smarrito nella stanza con i tuoi occhi chiari, un po’ sorpresi, un po’ sorridenti. Ti accarezzo il viso e tu mi prendi la mano. “Come stai?”. Tu vorresti rispondermi, ma la tua bocca articola flebilmente solo sconnessi fonemi dolorosamente incomprensibili; allora mi guardi e nel tuo sguardo leggo impotenza e rassegnazione, affetto e rimpianto, un grido di aiuto, che entrambi sappiamo che non riuscirò a darti.Ora comunichiamo così, il tuo sguardo triste e le mie inutili parole forse per te quasi incomprensibili, mentre restiamo seduti, l’uno a fianco all’altro, la tua mano fredda che stringe la mia, come se si aggrappasse ad una speranza, e sul tuo volto una smorfia, che io so essere un malinconico sorriso.Ti aiuto ad alzarti per camminare un po’ per casa. Ti sostengo, perché le tue gambe non ti reggono più, i tuoi passi sono stentati. Fai tanta fatica e dopo pochi metri, devo aiutarti a sedere. Mi giunge in un filo di voce un “grazie”, tenero ed immotivato. Talvolta, la rabbia si legge nei tuoi occhi. Oggi, in un attimo di lucidità verbale, mi hai detto “Non doveva succedermi questo!”. E hai ragione, papà, non doveva, non è giusto, non a te Ti prendo la mano, papà, sii tranquillo: per tutto il tuo cammino verso quella fine che tu, sempre più spesso, invochi come una preghiera e che, sola, può porre termine alla tua sofferenza immane, io sarò vicino a te. vda Giacomo Puccini - Gianni Schicchi: "O mio babbino caro", soprano Angela Gheorghiu