GIRA CHE TI RIGIRA

SE QUESTO E' UN UOMO.... TON, MIO NONNO


Antonio aveva tre figli da sfamare e il lavoro nei campi non riusciva a migliorare gli inverni freddi ed affamati. Nel 1940 trovò un lavoro alla Zona, la nuova area industriale a cavallo tra Massa e Carrara. Si costruivano armi e munizioni, si assemblavano parti di cannoni. La guerra era già cominciata e, nessuno sapeva, ma presto sarebbe arrivata anche lì: lunga, sanguinosa e straziante. Un giorno lo mandarono a Spezia per scortare un carico e con quel carico si ritrovò arruolato ed imbarcato. Destinazione: Albania. Senza poter avvisare la Giannina, sua moglie, ed i tre figli in tenera età salpò con la prima nave verso un destino ignoto. In Albania, sulle montagne, si stava in trincea, a contatto con la fredda e nuda terra, assopiti dalla fame e dal gelo, riscaldati dal respiro sommesso dei compagni. A primavera il fronte si spostò verso la Grecia, vicino al mare. Antonio imbracciava il fucile ed aveva gli stivali tenuti insieme da cenci e funi. Forse la guerra era finita? No, erano solo arrivati i soldati tedeschi e con loro un treno. Antonio ed i compagni furono fatti prigionieri e buttati sul vagone-merci, già carico di altra merce umana ancora fresca e forte. Era l’ultima fermata di un viaggio durato 18 giorni. Diciotto giorni senza mai uscire dal carro-bestiame con cibo ed acqua quando capitava. La merce umana cominciava a deteriorarsi, nello spirito e nel corpo: stipati nel vagone gli uomini avevano perduto ogni dignità, ma non era nulla in confronto a quello che li aspettava in Germania.Alla fine il treno si fermò. Il vagone puzzava di merda e di piscio, i pidocchi avevano conquistato le ferite dei soldati che febbricitanti e maleodoranti venivano scaraventati giù dal vagone. Antonio stava bene e si strinse a Sandro, ferito ad una gamba. “Staremo vicini, come in trincea, e non ci succederà nulla. Vedrai, torneremo a casa”, Antonio incoraggiava l’amico, mentre le porte del lager si richiudevano alle loro spalle. Un tuffo nel buio, una morte in vita se vita ci può essere. Antonio e Sandro erano nella stessa baracca. Dopo qualche mese di prigionia, furono destinati alla Fabbrica di munizioni. Ogni giorno uscivano scortati per andare a lavorare là. Fu una fortuna ed una speranza di vita. Alla fabbrica si mangiava e i due riuscirono a recuperare qualche energia. Nella testa di Antonio un solo pensiero: la fuga. Riuscì a mandare una lettera alla moglie Giannina che così dopo due anni seppe che il marito non l’aveva abbandonata.Antonio era deciso: meglio morire fuggendo che rischiare di morire nel lager. Studiò il piano per un anno intero, mandando a mente orari, personaggi, spostamenti, percorsi… per un anno lavorò sodo e conquistò la fiducia del kapò.A Gennaio del 1945 la neve era alta in Germania, ma era arrivato il momento. Dopo la giornata in fabbrica, un camion riportava i prigionieri al lager, Antonio si buttò giù dal mezzo proprio mentre imboccava una curva, prima di un ponte.Senza esitare saltò giù, nel fiume. Era nera la sera e ghiaccia quell’acqua. Il camion si fermò col motore acceso, puntava i fari cercando nel vuoto; un soldato si affacciò dal parapetto percorrendo con una torcia le due sponde del fiume e l’arcata del ponte. Passò un tempo troppo lungo, Antonio avrebbe voluto zittire il suo cuore per paura di esser scoperto, rannicchiato tra i cespugli e le canne, mezzo assiderato dall’acqua ghiaccia. L’autista staccò il freno a mano, accelerò e partì scivolando sulla neve ghiaccia. Il cuore si fermò.Antonio si tirò fuori dall’acqua e strisciando arrivò al bosco. Non sapeva bene dove andare, né come muoversi. Come un animale, era l’istinto di sopravvivenza che lo faceva avanzare verso la strada giusta. A piccoli passi. Da quella sera, passarono tre mesi. Un viaggio lungo e difficile, a piedi dalla Germania a Massa, in Toscana. Lui ci sarebbe riuscito, avrebbe rivisto la sua famiglia, non sarebbe diventato fumo nel vento come quella bimba dalle scarpette rosse a Buchenwald.La febbre era alta e il cibo scarso. Di notte vagava nei campi, mangiando quel che trovava: cipolle, soprattutto cipolle.A Massa era già arrivata la Primavera ed anche la fine della guerra. La Giannina ed i figli erano ritornati alla loro casa, ma poco prima della Liberazione una bomba aveva ferito il più piccolo, che era stato portato al lazzaretto approntato al Duomo. Era un pomeriggio tiepido, la Giannina preparava le bende da portare al suo piccolo Roberto; arrivò sulla porta Piè de Capelon con un mezzo sorriso sulle labbra secche: “oh Giannina, quant’è che un ne vedete vostro marito?”. Silenzio, silenzio. “Andate per la via, che a l’arrive el vostro Ton”.Antonio ce l’aveva fatta a scappare, a non lasciarsi abbattere dagli orrori e dalla violenza della guerra, dalla follia degli uomini. Non conosceva Primo Levi, mio nonno, e neppure tutti gli altri che han dato voce ai milioni di morti innocenti, ma a lui avevo letto Se questo è un uomo. Da lì aveva cominciato a raccontare la sua vita che io assorbivo, affacciata alla finestra dei miei freschi 12 anni.Ton era mio nonno, mia madre è una dei tre figli e questa è parte di una storia vera che lui mi ha sempre raccontato col vuoto negli occhi.Perché NON SI DIMENTICA.Per questo non capisco tutte le svastiche e l’inneggiamento all’odio che ho visto in questi giorni trascritto sui muri delle chiese e dei palazzi di molte città italiane. Non capisco come sia possibile rinnegare quella sanguinosa follia che sono stati i lager. A questi giovani che tracciano segni così oscuri sui muri cosa è stato invece raccontato?