Chiaraviola

Un'ora sola ti vorrei


Domani al Cinema Capitol di Bergamo lo fanno vedere... omaggio a un bellissimo film.
Liseli (madre di Alina)Mi sembra che tutti gli altri amori siano niente in confronto al nostro, tu hai creato il nostro amore ed io cosa posso darti? non ti darò nulla perchè tutto quello che potrei darti l'avrai subito.Un'ora sola ti vorrei, è il magnifico esordio da regista di Alina Marazzi (anche produttrice insieme a Gianfilppo Pedote, Giuseppe Piccioni, Francesco Virga) che nel frattempo ha girato un'altro film, Per sempre, nel quale «esplora» l'universo della clausura. Sarà anche questo un film potente , lo sappiamo, nonostante la materia maneggiata sia difficile e rischiosa, perché Alina Marazzi è cineasta di sguardo profondo, sensibilità, passione discreta. Che sa commuovere senza usare la commozione in derive «vistose», che sa guardare, mettersi in gioco, toccare corde privatissime senza compiacimenti (perché l'uscita estiva per Mikado semiclandestina solo a Roma e Milano?). Un'ora sola ti vorrei è un film molto bello. E unico. Cattura, emoziona, coinvolge come un thriller e incanta come un melò dei più fiammeggianti, raccontandoci una donna e il Novecento italiano nella lente di una famiglia alto-borghese del nord Italia, ai cui riti fa da contrappunto il sogno ribelle di una figlia cresciuta troppo presto per trasformarlo in utopia. Liseli, la protagonista di questa storia, è una ragazza bella e irrequieta, nata nel 1938 e morta nel 1972 volando giù da una finestra. Liseli, la mamma della regista, che allora aveva sette anni, rimasta dunque per lei percezione remota, sepolta nella distanza infantile e in un silenzio familiare imposto. Il desiderio di cercarla si avverte con forza in ognuno dei fotogrammi anche se poi questa ricerca personale diventa qualcosa di più, compone una suite di emozioni che sono gesto e invenzione di cinema, che rovesciano regole, fiction e documento, in una messinscena di verità. Le immagini che infatti «fanno» il film - impossibile senza la delicatezza complice del montaggio di Ilaria Fraioli - vengono dagli armadi della famiglia di Alina Marazzi, dalla casa dei nonni dove sono restate chiuse per decenni. Una sessantina di bobine su cui il nonno della regista, padre di Liseli, l'editore Ulrico Hoepli, ha «fissato» la vita della famiglia tra il 1926 e la metà degli anni Settanta. Filmini in 16 e in 8 millimetri, quasi un'alterità nell'ambientazione al progressivo mondo underground di Jonas Mekas, che hanno precisione e senso del dettaglio molto più di un «home movie» girato per diletto o gioco. Racconta la regista che le scatole con su una «L» erano quelle di sua madre divenuta un tabù dopo la morte e invece «documentata» sin dalla nascita. Ma qual era il segreto di Liseli che l'aveva seppellita in quel cassetto? «Mangia Alina, mangia» sussurra la voce della madre da un vecchio disco nella scena che apre il film. Liseli la vediamo addirittura prima nascesse in quel set ricco e sempre sorridente, fatto di splendidi giardini e una distanza dal mondo inconsapevole. Ci sono i balli, i primi incontri dei suoi genitori... Poi eccola appena nata, e dopo bimba col sorriso circondata di bellezza, governanti, giochi, Liseli che impara a camminare e a correre prima incerta, poi sicura nel parco di una vacanza. La sua è generazione cresciuta con la guerra ma intorno a Liseli non ci sono bombe, rovine, disperazione. La famiglia vola in Svizzera e i bimbi continuano a vivere la loro infanzia dorata dove tutto luccica e è perfetto. Eppure quella ragazzina luminosa, che sarà adolescente e ragazza sensuale ha un mistero nel sorriso a volte oscurato. Porta già in sé la «malattia» che diventerà immaginario - a seguirne la vita vengono in mente le figure femminili di Antonioni - un disagio profondo e rumoroso nell'assenza di parole verso il suo destino deciso. La vediamo donna sposarsi, festeggiare il matrimonio, con la carrozzina vagare nella Milano dove si respira il Sessantotto. Liseli ne ha provato prima e in solitudine le pulsioni, il rifiuto per il futuro di donna-moglie-madre modello, per le ipocrisie silenziose del suo universo borghese. E quella curiosità per altre vite, altri universi, troppo tardi per lei che è madre e moglie suo malgrado. L'angoscia però cresce. E insieme quel disagio. Il marito viene trasferito in America, moglie e figli lo seguono. Lei è sempre più disorientata, sempre più sola. I confini delle fantasie e delle tristezze divengono opachi. Liseli finisce in clinica, dentro e fuori dalle case di cura superlusso che come i manicomi dei poveri non ancora sconfitti da Basaglia, i pazienti li legano al letto, gli spappolano il cervello e il cuore con pasticche e scariche elettriche. La famiglia la odia quella figlia che ha tradito, le rinfaccia le cure, i soldi, il dolore. Sotto le immagini scorre una voce ( della stessa regista), un altro montaggio ma stavolta «interno», la vita di Liseli non osservata da fuori ma come lei stessa la racconta: diari, lettere a amici, appunti d'amore al marito, ai figli, conversazioni con se stessa raccolti in una lunga lettera. Sarà alla fine Liseli la madre ritrovata? Forse sì, anzi senz'altro, ma non è la prima cosa. Che in lei si concentra e si racconta una condizione di donna, un bisogno confuso di rivoluzione contro la famiglia come macchina sadica senza obliquità. E la dolcezza impalpabile di una nostalgia che a tutti appartiene.Da Cristina Piccino, Il Manifesto, 8 Luglio 2005