Chiaraviola

Peter Cameron e la scrittura


“(…) Dopo un po’ ho chiesto: “Perché l’hai sposato?”. Non ha risposto. Guardava fuori dalla finestra, o forse guardava il suo riflesso nel vetro, non so. Per un attimo ho pensato di aver parlato fra me e me. Poi però lei ha scosso piano la testa come per schiarirsi le idee. Guardava ancora il vetro buio. “Perché mi sentivo sola”, ha detto.Non sapevo come rispondere e non ho risposto nulla.“Sì,” ha continuato parlando alla sua immagine come in trance “anche se ci siete tu e Gillian- quando ci si degna della sua presenza -, e Mirò e gli amici e la galleria e i pranzi e le cene e i brunch. Era bello dormire con lui, era bello avere qualcuno che di notte mi teneva abbracciata”. Si è interrotta. “Oh,” ha ripreso “non sono cose che dovrei dire a te”.“Perché?”.Ha smesso di guardare il vetro. “Non voglio trasmetterti tutta la mia amarezza, il mio scetticismo; finirai per non credere nell’amore”.“Ma io non ci credo già adesso”.“Per forza non ti sei mai innamorato. Oppure sì? C’è qualcosa che non so?”.“No”.“Capiterà anche a te”.“A me no”.Mi ha poggiato le mani sulle spalle e mi ha baciato sulla guancia. “Sei troppo dolce per non innamorarti. Io lo so. Forse più di tutti”.“Io non sono dolce”, ho detto.“Sst. Non contraddirmi, sono sfinita. Vado a letto. Dammi solo la buonanotte”.Era in piedi sulla porta. Mi sono girato con tutta la sedia e le ho detto buonanotte.E’ andata giù per il corridoio e poi ha spento la luce. L’ho sentita aprire la porta della sua camera e poi rinchiuderla. Alle spalle ho sentito un suono, un secco tic del computer. Mi sono voltato: il monitor si era spento perché erano cinque minuti che non toccavo la tastiera. La casa nel Kansas era scomparsa, sostituita dal riflesso scuro del mio viso. (…) (…) “No,” le ho risposto “hai ragione. E’ vero”.“E’ vero cosa?” ha chiesto.“Che sono disturbato”. Pensavo al significato di questa parola, a che cosa volesse dire veramente, come quando si disturba la quiete o la televisione è disturbata. O come quando ci si sente disturbati  da un libro o da un film o dalla foresta vergine che brucia o dalle calotte polari che si ritirano. O dalla guerra in Iraq. Era uno di quei momenti in cui ti sembra di non avere mai sentito una certa parola e non riesci a credere che abbia proprio quel significato, e cominci a riflettere su come ci si è arrivati. E’ come il rintocco di una campana, cristallino e puro, disturbato, disturbato, disturbato, sentivo il suono vero della parola, così ho detto, come se me ne fossi appena accorto: “Sono disturbato”. Lo studio di Rowena Adler mi ha deluso. Avevo immaginato una graziosa casetta al Greenwich Village, magari con vista sul giardino, mobili danesi moderni, kilim sul parquet, eleganti quadri astratti alle pareti; e lei seduta su una grande sedia girevole e io di fronte , o anche sdraiato su un lettino al suo fianco, e un cane o un gatto, vecchio, silenzioso e stanco, che sonnecchiava ai suoi piedi. Invece la prima volta sono andato in un casermone del Policlinico  in un tratto desolato della First Avenue. Ho dovuto aspettare in una stanza senza finestre, seduto in sedile di plastica di quelli attaccati insieme come nelle stazioni degli autobus. C’era anche un boccione dell’acqua, ma era vuoto, e un boccione vuoto ha un qualcosa di molto deprimente: non puoi neanche raccontarti la storia del mezzo pieno e del mezzo vuoto, è vuoto e basta. Allora ho pensato che se fossi uno strizzacervelli con un boccione nella sala d’attesa, starei attento che fosse sempre pieno. La stanza evidentemente serviva a diversi medici, e mi metteva un po’ in ansia il fatto che la Adler non potesse permettersi un proprio studio con un ingresso e una sala d’attesa privati. Era come andare dal dentista in un ambulatorio pubblico dentro la stazione degli autobus.Davanti a me sedeva una grassona che mangiava un tramezzino traboccante di tonno e maionese. C’era tanto ripieno che lo raccoglieva a ditate dalla carta oleata che si era distesa in grembo. Vedevo che cercava di farlo con grazia, ma la manovra era troppo schifosa per consentirlo.Sulla porta è apparsa una donna. C’eravamo solo io e la grassona, ma lei si è guardata intorno come se la stanza fosse affollata e ha chiamato: “James? James Sveck?”.“Sì”, ho risposto. Mi sono alzato. (…) (…)”A me non interessa viaggiare. Non mi sembra naturale. Penso che oggi sia diventato troppo semplice. Non voglio andare in un posto dove non posso andare a piedi”.“In Kansas ci andrai a piedi?”.“Mi piacerebbe. E’ l’unico modo per capire veramente dove sei. O almeno via terra – macchina, pullman, treno. Ma penso che a piedi sia meglio. Ti dà il vero senso delle distanze”.“James, io non ti capisco. Fai di tutto per renderti la vita impossibile. Non è un buon segno. La vita è già abbastanza difficile, lo sai”.“Lo so,” ho detto “ma io non mi… soltanto perché non voglio andare all’università o non voglio andare in Messico, non vuol dire che mi renda la vita impossibile”.“Be’, certo non te la stai semplificando”. Mia nonna si è alzata per portare la tazza sul lavello. L’ha sciacquata insieme al piattino e l’ha asciugata con lo strofinaccio appeso alla maniglia del frigorifero. Poi l’ha riposta al suo posto nella credenza. “Vuoi ancora un po’ di caffè?”, ha chiesto.“No, grazie”.Ha versato il caffè rimasto sul lavello, che ha lavato con la spugnetta e il Vim.“Pensi che dovrei lasciar perdere e andare all’università?” ho chiesto.Ha poggiato la spugnetta e si è asciugata le mani, poi si è voltata a guardarmi. Era uno sguardo duro. Mi sembrava di averla delusa, di aver tradito le sue aspettative. O di avere violato una regola del vivere civile che ignoravo.Ha riappeso lo strofinaccio e ha detto: “Una volta tanto non pensiamo al futuro… è deprimente. E’ quasi ora di pranzo, invece. Ti va una bella insalata russa?”.Mi è sempre piaciuta l’insalata russa di mia nonna. Ci mette anche i cetriolini. Tutti la trovano rivoltante, ma a noi due piace così. “La mangerei proprio volentieri”, ho risposto. “Bene”, ha detto. “Anch’io”. (…) Il mio silenzio, lo ammetto, spesso era una ripicca: non capisco perché spettava sempre a me l’onere della parola. Spesso stavo zitto anche se mi veniva in mente qualcosa da dire, perché esprimere i miei pensieri mi sembrava un atto dovuto e non mi andava di essere troppo collaborativo . Ci sono persone che si sentono a disagio se stanno in silenzio e si affrettano a riempirlo pensando che qualsiasi cosa sia meglio di niente, ma io non sono così. In silenzio mi sento a mio agio, e quanto pare anche la Adler.Un giorno la seduta è cominciata così (in silenzio), ma non soltanto a causa della mia reticenza: non mi veniva in mente proprio niente.  La Adler mi aveva detto di dire sempre qualunque cosa mi passasse per la testa, ma per me era difficile, perché per me l’atto di pensare e quello di esprimere i pensieri non sono simultanei, e neppure necessariamente consecutivi. So di pensare e di parlare nella stessa lingua, e so che in teoria non c’è ragione per cui io non possa comunicare i miei pensieri non appena si formano o immediatamente dopo; eppure la lingua in cui penso e quella in cui parlo sembrano spesso talmente lontane che mi pare impossibile colmare il vuoto sul momento, o anche retroattivamente.Mi ha sempre affascinato l’idea della traduzione simultanea, come alle Nazioni Unite, dove nel pubblico tutti hanno gli auricolari e si sa che nelle retrovie gli interpreti ascoltano quello che viene detto e lo trasformano in un’altra lingua. Capisco come questo sia possibile, ma per me ha del miracoloso – che le parole siano lanciate in aria in una lingua e ricadano a terra in un’altra come una palla. Credo che nel mio cervello ci sia una specie di setaccio che impedisce un rapido (e tanto meno simultaneo) travaso dei pensieri in parole. Un po’ come il filtro nello scarico della vasca da bagno, c’è qualcosa che trattiene i miei pensieri nel cervello, e così bisogna cavarli a forza, come quegli schifosi grovigli di capelli bagnati. Riflettevo sui concetti di pensiero e linguaggio, a quanto sarebbe stato difficile esprimerli – o quanto meno spossante , come se pensarli fosse già abbastanza e dirli fosse pleonastico o riduttivo, perché lo sanno tutti che la traduzione svilisce un testo, è sempre meglio leggere un libro nella lingua originale (A’ la recerche du temps perdu).Le traduzioni sono solo delle approssimazioni soggettive e questo è esattamente quello che provo quando parlo: quello che dico non è quello che penso ma solo quello che più gli si avvicina, con tutti i limiti e le imperfezioni del linguaggio. Quindi penso spesso che sia meglio stare zitto anziché esprimermi in modo inesatto. Stavo pensando a questo quando mi sono accorto che la dottoressa stava parlando. “Come?”, ho chiesto. “Sembri assorto, a che pensi?”.“A niente”.(…) Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi edizioni, 2007.