L'Arrivo Del Signore

IL GIUDIZIO FINALE..MATTEO (25,31-36 ) LINA LADU GERUSALEMME.


Matteo parla di Gesù riguardante la grandiosa scena del giudizio: l’appartenenza al regno non esige l’esplicita conoscenza di Cristo, ma soltanto la concreta accoglienza del fratello bisognoso. Lo stesso cristiano non gode di alcuna garanzia: anch’egli sarà giudicato unicamente in base alla carità. Ma che significato dare a quei “piccoli miei fratelli?” coi quali Gesù sembra identificarsi? Chi sono? I poveri semplicemente, i discepoli di Gesù o i missionari poveri e perseguitati? Prima di rispondere a queste domande, vogliamo chiarire tre affermazioni che ci sembrano sicure. Prima: il giudice è chiamato “figlio dell’uomo” e “re”, e questo “re” è Gesù di Nazaret, colui che fu perseguitato, rifiutato e crocifisso, e che nella sua vita condivise in tutto la debolezza della condizione umana: la fame, la nudità, la solitudine. Ed è un re che si identifica con i più umili, i più piccoli: anche nella funzione di giudice universale rimane fedele a quella logica di solidarietà che lo guidò in tutta la sua esistenza terrena. E’ dunque un re che vive sotto spoglie sconosciute, sotto le spoglie dei suoi “piccoli fratelli”. Seconda: sbaglieremmo se vedessimo in questa pagina una logica diversa da quella della Croce, diciamo un contrasto fra il Cristo crocifisso e il giudice escatologico, come se alla logica dell’amore (Croce) venisse alla fine sostituita la logica della potenza (giudizio). Nulla di tutto questo: il giudizio svela la vera identità dell’uomo: è solo l’amore verso i fratelli che dona all’uomo consistenza e salvezza. Terza: Matteo altrove ci  ha detto che gli uomini al giudizio dovranno rendere conto di tutti gli atti della loro vita,perfino di ogni parola ,Qui però Gesù ricorda solo l’accoglienza agli esclusi. Un’accoglienza fattiva: tutto il giudizio è costruito attorno alla contrapposizione tra il “fare” e il “non fare”. E’ la solita tesi cara a Matteo: l’essenziale della vita concreta non è  di dire e nemmeno di confessare Cristo a parole, ma praticare l’amore concreto per i poveri, i forestieri e gli oppressi. Questa è la volontà di Dio e questa è la vigilanza. Ritorniamo ora alla domanda iniziale: chi sono i “piccoli” che Gesù chiama “miei fratelli” e nei quali si rende presente al punto da ritenere fatto a se stesso quanto fatto a loro? Il termine “piccolo” (Mt 18,6.10.14) è usato altrove per indicare i cristiani deboli, spesso trascurati dalle élites della comunità. Secondo un altro testo (10,42) i “piccoli” sono i predicatori del vangelo, poveri e bisognosi di accoglienza. Il termine “fratello” invece ha un senso più generale e indica i discepoli. La conclusione è questa: i piccoli fratelli di Gesù sono tutti i membri della comunità, trascurati, deboli, insignificanti, disprezzati. E in particolare sono i predicatori del vangelo,e della parola viva di Gesu' poveri e perseguitati. Pertanto l’avvertimento racchiuso in questa scena di giudizio è duplice: uno rivolto a tutti gli uomini e l’altro alla Chiesa. A tutti: la sorte di ogni uomo dipende dall’accoglienza mostrata ai missionari del vangelo, cioè, ai discepoli di Cristo. E alla Chiesa dice che: nessuna comunità è al riparo dal giudizio, anche la comunità verrà giudicata in base all’accoglienza che essa concretamente avrà mostrata verso i poveri, i trascurati e i piccoli e da tutte le loro opere. L’amore rimane, dunque, la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena e definitiva del Signore.IN FEDE LINA LADU.