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Post n°59 pubblicato il 17 Dicembre 2006 da miller63
Testardo come un muloLa storia di Nafez Assaily, un pacifista palestinese
dal nostro inviato
Christian Elia
Christian Elia
Punti di vista. “Mi dica cosa rappresenta per lei questo disegno”, chiede un agente della sicurezza israeliana a un palestinese dopo avergli porto un foglio di carta dove è disegnata una brocca, “un papero, per me è un papero”, risponde placido il palestinese. “E allora secondo lei cosa sarebbe questa?”, replica l’agente israeliano senza perdere la testa indicando uno dei due manici. “Il becco signore”, risponde il palestinese. “E questo per lei cosa rappresenta?”, dice il militare innervosendosi e indicando il secondo manico. “Il secondo becco del papero signore!”. Quella che potrebbe sembrare una storiella è solo un esempio della fantasia di un non-violento che resiste a modo suo a uno degli innumerevoli interrogatori che un palestinese subisce quasi ogni giorno, con tanto di test psicologici. Nafez Assaily racconta un episodio di una vita in un Paese difficile, un Paese in guerra, ma lo fa con un sorriso disarmante.
Nafez Assaily ha dedicato la sua vita alla scelta della non-violenza ed è rigenerante trovarsi di fronte a una persona che dà voce alla ragione, in una zona in cui da troppo tempo parlano solo le armi.
Una scelta coraggiosa. “La mia storia comincia nel 1986”, racconta Nafez, “quando ho fondato il LOWNP (Library on Wheels for Nonviolence & Peace). Tutto è partito da una scelta non-violenta. Giravo per i villaggi arabi più sperduti, con il mio furgoncino. Alle famiglie mi avvicinavo chiedendo di poter lasciare dei libri per bambini da leggere ai loro piccoli, così senza avere nulla in cambio. Non era un regalo, ma un prestito. Dopo una settimana tornavo e chiedevo i libri indietro, lasciandone dei nuovi. Così ottenevo due risultati: da una parte i bambini leggevano e aumentavano le loro conoscenze, dall’altra parte riuscivo a entrare in confidenza con le famiglie, conoscevo i loro problemi. Loro si fidavano e si confidavano, a quel punto mi davo da fare per dare loro una mano. Non mi sono mai fermato davanti a niente, neanche quando dovevo raggiungere i posti più impervi. Arrivavo in macchina fino a dove era possibile, poi caricavo i libri su un mulo e cominciavo ad arrampicarmi su per le stradine”. Nafez racconta la sua storia con un entusiasmo travolgente e un’autoironia che non diventa mai retorica. Dietro i suoi occhiali che gli conferiscono un’aria da maestro elementare, fumando una sigaretta dietro l’altra, ride di gusto delle sue trovate sul cammino della non-violenza. “Una volta i militari israeliani hanno abbattuto tutti gli alberi di ulivo di una comunità”, continua l’educatore di strada, come ama definirsi Nafez, “allora ho radunato le famiglie coinvolte e ho detto loro che la risposta non era la violenza, ma la perseveranza. Bisognava ripiantare gli alberi. La prima volta tutte le piante sono state sradicate nuovamente, ma la seconda volta abbiamo agito diversamente. Per piantarle abbiamo aspettato la Festa della Terra in Israele, giorno in cui tutti piantano alberi. Ho invitato le persone a piantare alberi e nessuno poteva dirci nulla, perché c’era la festa. I soldati alla fine hanno accettato di lasciare gli alberi al loro posto in cambio dell’impegno a non piantarne di nuovi. Un buon risultato, ottenuto senza bisogno di lanciare pietre che avrebbero dato la scusa per attaccare la popolazione”.
Resistenza non-violenta. “Il conflitto di questa terra segue uno schema triangolare che andrebbe rovesciato”, spiega Nafez afferrando con le sue grandi mani un blocco di appunti e cominciando a disegnare figure geometriche, “il vertice alto è sempre l’occupazione. I due vertici bassi possono cambiare e lo hanno fatto durante questi anni. Possono esserci i movimenti armati da una parte e la popolazione civile dall’altra. Questo triangolo è velenoso, perché l’occupazione schiaccia i militanti e i civili ne pagano le conseguenze. Io propongo un triangolo differente: ai vertici bassi devono esserci la non-violenza e la popolazione civile. Questo garantisce l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale e israeliana. Così si vince!” L’entusiasmo di Nafez è tale che quello che dice, nella sua semplicità, in una terra contesa dove tutto sembra difficoltoso, riesce a sembrare possibile. “La situazione è durissima”, dice il palestinese facendosi serio, “la disoccupazione è terribile, io per primo avevo due biblioteche stabili, ma ho dovuto chiuderle perché non coprivo le spese. L’esercito israeliano adotta una strategia dura che mira a disgregare il nucleo familiare palestinese umiliando il padre davanti a sua moglie e ai suoi figli. Nella cultura araba è gravissimo. Inoltre il padre è spesso un uomo in difficoltà, senza lavoro e questo finisce per renderlo frustrato e magari violento con la moglie i figli. Ma non riusciranno a farlo, perché le famiglie palestinesi sono molto unite. Allora provano a diffondere la sfiducia reciproca tra i palestinesi, per dividere la comunità, portandoli a sospettare l’uno dell’altro. Questo purtroppo riesce meglio, perché il tam tam tra la nostra gente è fortissimo e questo fa circolare in fretta le voci su uno di noi. Ma io ho fiducia nel futuro. La società israeliana, così militarizzata, rischia di sgretolarsi. I divorzi per violenze domestiche sono sempre di più. Questo perché i militari, provati da un servizio così duro, tornano a casa cambiati. Tutto questo non può durare”.
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