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Il ricordo di Dino Viola


Il 19 gennaio è un giorno tristissimo per la storia della Roma, poiché in questa data, nel 1991, morì il grande presidente del secondo scudetto, 1982-83, Dino Viola. Oggi quindi, è doveroso per chiunque ami la Roma, ricordare colui che ha riportato la Roma tra le grandi squadre del calcio italiano.
Dino Viola è morto il 19 gennaio del 1991, sedici anni fà e ci sembra ancora strano che non ci sia più. Freddo, lontano, nobilmente distaccato, convinto di essere più intelligente, più bravo, più bello, più simpatico. Fosse stato un altro, gli avresti dato del presuntuoso, ma Dino Viola non era un altro, era il presidente della Roma e dello scudetto e piaceva un po’ a tutti che fosse com’era, perché in fin dei conti quel carattere l’aveva trasmesso pure alla squadra e ai suoi tifosi. Poteva capitare che la stima si tramutasse in affetto. E capita che l’affetto ci sia ancora. La sua tomba è al Verano e non è mai sola. Una cappella fatta costruire dalla signora Flora dopo la sua morte, perché Dino Viola non ne aveva mai voluto sapere, voleva una tomba a Cretarossa e basta. L’acqua di una fontana scorre notte e giorno. La foto è di quelle che amava e spediva pure ai giornali. Passano e si siedono tifosi o vecchi amici e lasciano fiori, biglietti, ritagli di giornale. Lo informano. Gli raccontano di questa Roma, che ricorda la sua, anche se i tempi sono cambiati e contano i soldi più che le idee. Dino Viola è nato ad Aulla, terra dura, di montagna. A Roma è venuto per studiare. Un giorno ha visto un tram pieno di gente e l’ha preso al volo. Si è trovato a Testaccio, dove giocava la Roma. Un colpo di fulmine, raccontò poi. Tornava a casa per le vacanze. Conobbe così la signora Flora, giovane e bellissima. La snobbò pubblicamente e così tutti capirono che si era innamorato. Lo ammise per iscritto. Una lettera dietro l’altra e una più tenera dell’altra e sembra impossibile che ad averle scritte sia stato l’uomo che ha inventato il violese, modo di dire e non dire. Con la signora, Viola era chiaro, romantico e convincente. Si è sposato in alta uniforme, magro, elegante, sicuro di sè. Avrebbe conquistato il mondo, potevi leggerglielo in faccia. La coppia abitò in via  Asmara, quartiere africano, dove è nato il primo dei tre figli, Riccardo. Poi si è trasferita ai Parioli, ma Viola voleva una grande casa in cima a una collina e la costruì sull’Aurelia all’inizio degli anni settanta. Vi rimase poche ore. I ladri, entrati durante la sua prima e unica notte lo convinsero a tornare ai Parioli. Più tardi, quando aveva problemi, si nascondeva in quella villa isolata, chiedeva gli attrezzi al giardiniere, potava gli alberi e pensava. Prese la Roma nel maggio del 1979. Il discorso della corona a Trigoria, accanto alla piscina. Anzalone pianse. Viola chiamò Liedholm, cui aveva strappato una promessa qualche anno prima: nacque la coppia scudetto. Insieme hanno disegnato pagine indimenticabili. Uno con il violese, l’altro con l’italiano più assurdo che si ricordi, ma si capivano. Roma seconda il primo anno, terza e infine prima. Viola aveva fatto il presidente a Palestrina, altro mondo, ma non per lui, che disse di aver capito tutto del calcio proprio in quegli anni. Aveva capito qualcosa degli arbitri. E raccontò poi di aver pagato regolarmente per un anno un signore del nord, ma solo per evitare ritorsioni. Non vinse, però fece cacciare i fischietti corrotti. Lo scudetto nell’83, la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool l’anno successivo. Dopo Liedholm, Eriksson, di nuovo Liedholm e poi Radice e Ottavio Bianchi. Quattro volte vinse la Coppa Italia.Caso Vautrot e caso Lipopil, due spine, ma ci si può stare. Ha vinto tante di quelle battaglie, del resto. Fece allenare Eriksson e non era possibile, acquistò Cerezo e neppure questo era possibile. La sconfitta vera per il Lipopil, ma sotto c’era altro. Lo volevano far fuori e un giorno si saprà e si dirà perché. Il 21 dicembre del 1990, prima di salire a Cortina, si sottopose alla consueta visita medica. Se gli dissero qualcosa non lo sapremo mai. Di sicuro il presidente si guardò bene dall’informare la famiglia. Andò in montagna, come al solito. Si sentì male, l’operarono d’urgenza. Riportato a Roma e messo in clinica, dopo quattro giorni si arrese, mentre Roma tratteneva il respiro. A letto, da attore protagonista, come sopra un palcoscenico: si lamentava del fatto che i giornali si occupassero più della guerra del Golfo che delle sue condizioni. Ciao grande Dino!