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Oggi moriva un pazzo assassino sanguinario


Oggi è il 9 ottobre e per la prima volta da quando ho crato questo blog, voglio parlare qualcosa al di fuori del calcio e che mi porterà ad avere anche le critiche di chi non la pensa come me, ma chissenefrega.Oggi è l'anniversario della morte di un pazzo assassino sanguinario, che l'idiozia comunista ha eletto a mito: Ernesto Che Guevara.«Vi sono innumerevoli forme di oppressione, alcune più sottili delle altre, talvolta abbellite dal richiamo alla giustizia sociale, talaltra mascherate dalla scusa della sicurezza. Per questo, riconoscere e denunciare il subdolo meccanismo psicologico per mezzo del quale i nemici della libertà cercano di indurci ad accettare una servitù volontaria è uno dei compiti più urgenti del nostro tempo». Così scrive Alvaro Vargas Llosa nell’introduzione de “Il mito Che Guevara e il futuro della libertà” (Lindau, pp. 112, euro 12). Nel resto del libro, l’autore si dedica a questo compito demolendo Ernesto Che Guevara, l’icona alla quale si richiamano movimenti più o meno rivoluzionari e, almeno in America Latina, uomini politici di primo piano come il venezuelano Hugo Chávez. Oltre, naturalmente, a Fidel Castro. Il Che è diventato un simbolo di libertà, uguaglianza, ribellione al dispotismo. Addirittura pacifismo. Vargas Llosa sottolinea il primo paradosso. Le icone vendono bene: «Guevara, che tanto (o poco?) ha fatto per abbattere il capitalismo, è oggi ridotto al più classico marchio capitalista». In effetti, il suo volto adorna «tazze, felpe, accendini, portachiavi, berretti, sciarpe, bandane, camicie, borse, jeans, confezioni di the alle erbe». I seguaci del culto, tra cui si annovera anche Diego Armando Maradona, conoscono la vera storia del loro eroe? Pare di no. Ministro dell’Industria incompetente, è lo stesso Guevara ha sintetizzare il proprio sanguinario ideale di giustizia nel suo “Messaggio alla Tricontinentale” (1967): «L’odio come fattore di lotta - l’odio intransigente contro il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». «Selettiva» fino a un certo punto. Nella prima metà del 1959, a rivoluzione ormai conclusa, Guevara dirige la prigione di La Cabaña, anche nota come “galera de la muerte”. I nemici politici sono sottoposti a processi sommari. Il Che impartisce disposizioni precise ai membri del tribunale: gli accusati sono tutti assassini e devono finire al muro. Stime attendibili parlano di 400 esecuzioni in meno di sei mesi. Forte di questa esperienza, il Che crea, insieme con Fidel, l’apparato di polizia che ridurrà in schiavitù sei milioni e mezzo di cubani. Nel 1961, dopo la fallita invasione della Baia dei Porci, il nuovo Stato di polizia si consolida. Secondo il Che è l’occasione buona per far sì che i contro-rivoluzionari «non rialzino mai più la testa». La categoria “contro-rivoluzionario” è intesa nel modo più estensivo possibile. Le porte dei campi di concentramento progressivamente si spalancano per «dissidenti, omosessuali, cattolici, testimoni di Geova, sacerdoti afro-cubani e altri indesiderabili». C’è un aspetto poco noto che merita di essere descritto: il moralismo del Che. «Nel 1958 - scrive Vargas Llosa - dopo aver preso la città di Sancti Spiritus, Guevara cercò (senza successo) di imporre una sorta di shar’ia regolamentando i rapporti fra i sessi, l’uso dell’alcol e le scommesse informali». Il tutto all’insegna di un puritanesimo che il comandante non si sognava neppure di applicare nella sua vita personale. Anche l’ideale collettivista poggia su massime non esattamente democratiche quali: «Le masse in lotta approvano la rapina delle banche, perché in esse non è depositato uno solo dei loro soldi». Il metro di misura della bontà delle riforme economiche consiste nel numero di individui «che capiscono che nella nuova società non c’è posto per loro». Fra il 1959 e il 1961, Guevara ha in mano le leve dell’economia cubana, prima come direttore della Banca Nazionale, poi come ministro dell’Industria. I risultati sono disastrosi. In quel periodo, scrive Vargas Llosa, «si verificò il crollo pressoché completo della produzione di zucchero, l’industrializzazione fallì del tutto e si dovette ricorrere al razionamento». La riforma agraria fu un affare per i burocrati: le terre sottratte ai ricchi non finirono ai contadini ma agli uomini dell’apparato politico, agli amici del Che. Fra il 1961 e il 1963 il raccolto si ridusse della metà. Perfino l’immagine di genio della guerriglia mostra qualche crepa. Il maggiore successo di Guevara contro Batista, la conquista della città di Santa Clara, è stato messo in discussione di recente. Pare infatti che la resa fu concordata in cambio di una forte somma di denaro. I gruppi di guerriglieri organizzati in Nicaragua, Repubblica Dominicana, Panama e Haiti finirono presto e male. Disastrosa la spedizione in Congo. Guevara si schierò al fianco di due ribelli contro il regime congolese appoggiato dagli Usa. Il primo si chiamava Mulele. Dopo aver preso la città di Stanleille fece vedere di che pasta era fatto: fu assassinato chiunque sapesse leggere e portasse la cravatta. Il secondo era Laurent Kabila, un altro assassino patentato, come risulterà evidente negli anni Novanta. Nel 1965 Guevara capì che la partita era persa e cambiò aria. Salì al potere Mobutu che instaurò una tirannia destinata a durare decenni. La missione in Bolivia fu invece dilettantesca. Il Che non si accorse di non avere l’appoggio né dei contadini né del partito comunista boliviano. Fu catturato nella gola dello Yuro subito dopo aver incontrato l’intellettuale francese Régis Debray. Il giorno dopo, domenica 9 ottobre 1967 viene ucciso, verso le 13,10, il guerrigliero catturato - ha un berretto nero, un'uniforme militare assai sporca, una giacca azzurra con cappuccio, il petto quasi nudo, la camicia senza bottoni - sistemato provvisoriamente su una panca con i polsi legati, è ucciso, mentre ancora gli sanguina una ferita alla gamba destra. È finito da una scarica a bruciapelo di un mitra M-2. Le ultime parole che ha proferito nei confronti del sottufficiale dei Rangers governativi boliviani Mario Teràn sono state di sonante disprezzo: "Spara vigliacco, che stai per uccidere un uomo". Il guerrigliero cadde a terra con le gambe maciullate, contorcendosi e perdendo copiosissimo sangue. Altri due sottufficiali, entrati ubriachi nella stanza, spararono ciascuno un colpo, direttamente sul volto. Nel pomeriggio, il comandante del reparto boliviano , che è il maggiore Ayoroa, dispone che il corpo venga adagiato su una barella e gli sia legata la mandibola con un fazzoletto perché il volto non si scomponga. Un fotografo ambulante ritrasse i soldati e il suo sacerdote intento a lavare le macchie di sangue. L'elicottero volò allora in alto con il corpo sfigurato del guerrigliero. Al sottufficiale Teràn hanno promesso un orologio e un viaggio a West Point per frequentare un corso. Egli ha ucciso il comandante Ernesto Che Guevara Lynch, detto il Che, medico argentino che, con decreto governativo del 9 febbraio 1959, è stato naturalizzato cubano per servizi resi alla Rivoluzione. Un pazzo assassino sanguinario fatto eroe dall'ipocrisia comunista!