ASR FILA80

INTERVISTA A MATTEO ''CANNONE'' FERRARI ( da Goal.com )


Matteo Ferrari è nato in Algeria, è vissuto sempre in Italia e per un periodo in Inghilterra, ha viaggiato per mezzo mondo e di mezzo mondo ha cercato di capire le culture, ha giocato nell'Inter, nel Genoa, nel Lecce, nel Bari, nel Parma, nella Roma e nell'Everton, eppure scene come quelle di Catania non le aveva mai viste.Hai sperimentato direttamente il famoso modello inglese... «E in effetti ci sono dei fattori che rendono quel calcio totalmente diverso rispetto al nostro. Per dirtene una, quando giocavo all'Everton io andavo allo stadio con la mia macchina e se si perdeva - e in quel periodo è capitato parecchio - i tifosi ci applaudivano lo stesso perché ogni calciatore che indossa la loro maglia merita rispetto. Allora anche dopo una sconfitta si fermano a chiederti l'autografo, ti danno una pacca sulla spalla, ti incoraggiano, ti consolano: "Vedrai, la prossima volta andrà meglio". La differenza è già in questo».Hai visto mai incidenti nei dintorni dello stadio? «Sì, ma senza mai vedere scene come quelle a cui ho assistito l'altra sera a Catania. Lì il servizio d'ordine è imponente, vedi molta polizia a cavallo, il primo che si permette di buttare una bottiglia di vetro per terra lo portano via, ti fanno passare la voglia di creare disordini. E per me in Italia si deve intervenire nella stessa maniera. Non possono pagare tutti per l'errore di pochi, di gente che forse neanche sa quello che fa».Quell'esercito di teppisti in guerra la domenica va negli stadi a creare disordini, ma per il resto della settimana evidentemente vive nelle nostre città. «Ma si sfogano allo stadio perché lì è terra franca, è consentito tutto. Per questo dico che fermarsi una o due domeniche non serve a niente se poi non si prenderanno decisioni adeguate. La riflessione se la concedono le persone per bene. Agli altri serve a poco».Ti è mai capitato di aver paura andando in trasferta? «Paura no, siamo iperscortati, sempre sotto sorveglianza. Ma poi quando scendi in campo possono capitare situazioni spiacevoli. Il pensiero che non mi abbandona è Dida colpito sulla spalla da un fumogeno, a pochi centimetri dalla testa. Ci penso spesso: "e se un giorno dovesse toccare a me?". In campo in fondo siamo indifesi. Per questo mi chiedo perché non si sia intervenuti prima. Nessuno ha voluto aprire gli occhi».Intanto puoi raccontare com'è andare in trasferta in Inghilterra? «Fuori dallo stadio quando arrivi non ci sono mai i tifosi avversari. Gli stadi si riempiono venti minuti prima dell'inizio. Semmai li incroci nei pub nelle strade adiacenti. E se anche capitano questi incontri non succede mai nulla di più di un semplice sfottò, al massimo ti fanno segno con la mano che ne beccherai tre. Ripeto: sanno che se sbagliano pagano».E in campo? Non hai mai avuto paura di qualche reazione sconsiderata intervenendo magari in scivolata sull'attaccante avversario vicino alla linea laterale? «Nel 90% degli stadi inglesi ci sono al massimo tre metri tra la linea laterale e i tifosi delle prime file. Ma non succede niente. Se anche qualcuno si alza per urlarmi dietro qualcosa si limita a quello. Sa che altrimenti lo portano subito fuori».Non c'è il rischio che in questo modo lo stadio somigli più a un teatro che a un luogo dove si fa sport? «Il rischio c'è e infatti non so se è davvero un modello esportabile. La passione il giocatore in Inghilterra la sente anche se i tifosi stanno seduti, ma non riesco a immaginare i nostri tifosi della Curva Sud seduti tutta la partita. L'esempio inglese è il più facile da seguire, ma, ripeto, faccio fatica a immaginarmelo in Italia».