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Eduardo Palumbo gli “Aviogrammi e la musica”


 di Aurelio De Rose     Della sua città natale Eduardo Palumbo. ha ereditato la passione per la luce, le cromie solari e la musica. Abbandonando Napoli, per le contraddizioni e le difficoltà d’inserimento soprattutto nel campo dell’insegnamento e, trasferitosi negli anni ’60 nella Capitale, non poteva che alimentare sempre più quel sentimento sopra citato per il viscerale amore rappresentato dal vissuto e dai luoghi. Di questi ultimi, particolarmente faceva propri, quelli delle tonalità sempre radiose e vibranti. Radiosità e vibrazioni che si ricollegano poi a quella musicalità acquisita nell’animo e nella mente. Tali da scaturire, in un identico amore per le armonie correlate tra elementi della natura e note del pentagramma. Note, ascoltate sin dalla tenera età: perché al pianoforte si dilettavano sia il nonno che la madre, come era d’uso in molte case della media borghesia napoletana ancora in quel tempo, nutrendo e plasmando, soprattutto le giovani età. Consuetudine che acuivano, in quanti serbavano non solo amore verso la pittura ma, particolarmente in questi, la necessità di materializzare le espressioni cromatiche attraverso l’ascolto di quelle musicalità che più si addicevano alla propria sensibilità. E Palumbo, infatti, nel corso della sua più che cinquantennale vita d’artista, non ha mai tralasciato di porsi, nel susseguirsi delle narrazioni e, mediante la strutturazione del suo indiscindibile “segmento cromatico”, alla attenta modulazione delle sonorità che l’accompagnavano nell’impegno gestuale che, appunto, lo ha caratterizzato. Infatti i vari “cicli” che man mano ha elaborato hanno tutti,- anche se alcuni specificatamente indicati,- un legame, direi visibile, con le sonorità ascoltate. Non vi è un’opera che Eduardo, maestro ma, in particolare amico che spesso ricalca con me nei ricordi una Accademia ormai lontana per vitalità e personaggi, che non sia stata realizzata ascoltando o semplicemente “cullato dal sottofondo” di brani dei massimi esponenti di quell’arte. Antonìn Dvoràk e lo cito in particolare, perché personalmente compongo ed ultimo i miei testi con il sottofondo delle note dei più significativi autori della “classica” e tra questi quello straordinario composto dall’autore ceco: quel Requiem che nei suoi maestosi picchi di straziante umanità e dolore mi fa ricollegare, nel visionarle, a molte delle opere di Palumbo. Ma le connessioni, tra queste ad esempio: ( foto 1: “Danza del fuoco”, tecnica mista su tela, 24x30) e, tant’altri maestri della musica  intramontabile sono ampie, ed i legami s’intravvedono anche ad occhi ignari,  in tutte le tele realizzate. Segni grafici che nell’alternarsi delle modulazioni cromatiche e nei loro slanci riconducono, appunto, a quei pentagrammi pieni di crome e biscrome, di diesis e bemolli che si alternano nelle sette note vitali. Qui, nei suoi quadri, bozzetti o fogli sparsi messi alla base dell’idea, non sfugge l’identica stesura che pone un musicista al pentagramma e se a questi manca ma, si intuisce il tono cromatico, non altrettanto al Nostro accade. Quegli elementi, basilari alla composizione si mescolano e producono il particolare segmento che poi lo contraddistingue. Segmento che in analogia a quello delle opere capogrossiane rivelano invece. non solo l’assenza di quelle staticità ma altresì una infinita gamma di “sonorità pittoriche” che, come si diceva all’inizio provengono dalla molteplicità d’innesto tra luce e colore acquisita nei luoghi di nascita e di status giovanile vissuto.  E’ come se Palumbo  avesse dentro, nel profondo del suo soffio vitale, la musicalità prodotta dal vento, dalla luce, dall’aria e, padrone del proprio “gesto”, non fa altro che aprirsi a quelle armonie per tramutarle e visibilmente ascoltarsi: vibrando con esse, con il risultato che  i “tratti delle sue geometrie” si tramutano in proprie “sinfonie”. Tra l’altro proprio per questo viscerale connubio con le musicalità di Bach, Stravinsky, Mahler Debussy, Haydn, Ciaikovskij, Berlioz, Ravel, ai quali aggiungerei la struggente nudità della musica di Satie ed i più recenti Frisina, De Pirro, ha trovato quel rapporto di rispondenze che tramuta in “visioni astratte” ma, sensibilmente conformi a quello spazio infinito, che si crea nell’ascolto. Quello che sale su nell’aria e coinvolge la passionale sensibilità umana. Eduardo Palumbo si è appunto nutrito e si nutre di quelle emotività e, le ha poste e le pone all’ascolto nella visione. E, quel suo cammino di dinamicità pittorica, composta nelle tessiture dai personali arabeschi cromatici, ripercorre tratti di vita e di sensazioni; tali da divenire anche allo sguardo profano: raggi di musicalità. Lo spunto per le riflessioni succitate, vien dato dalla mostra inaugurata il 18 febbraio e visibile fino al 24 marzo 2012, presso la galleria “Il Tempo Ritrovato” in Roma. Mostra per il ciclo “Il Vento e la Libertà” dal titolo: “Il linguaggio specchio della società” curata da Daniela Vaccher nella quale, oltre alle opere di Palumbo sono esposte opere di Ariela Bӧhm, Patrizia Molinari.  
"Danza del fuoco"questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano ROMA del 24/02/2012