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Post N° 176

Post n°176 pubblicato il 03 Settembre 2008 da aurelioderose

L’astratta musicalità delle opere

di Eduardo Palumbo

di Aurelio De Rose

Ancora una volta mi imbatto in personaggi che, lontani da Napoli hanno riscosso e, riscuotono, un interesse molto più lusinghiero di quello ricevuto quando vivevano nella città d’origine. Ancora una volta si dimostra quindi, che al di là di una accertata linea “gotica”: così come continuo a definire il circuito campano, l’affermarsi, nel mondo culturale, chiaramente nelle capacità, è molto più facilmente riconosciuto. E’ indubbio che a tutto ciò contribuiscono alcuni fattori essenziali e quindi, non dipende esclusivamente dalle singole qualità e capacità, che pur devono esistere e che, certamente, non subiscono mutamenti nell’abbandono dei luoghi natii ma restano eguali e intatte. Allora, cos’è che trasforma in “positivo” tutta una serie di personaggi della cultura che altrimenti resterebbero avvinti in una morsa “provinciale” e “locale” ?Come accennato i fattori sono vari ma essenzialmente quelli di una assenza sia da parte di quanti gestiscono il “potere culturale”ma anche di gallerie legate a circuiti di un certo tipo - esempio quello gay - per i quali non ho nessunissima preclusione ma ne evidenzio la capacità di incidere nel circuito globale. A tutto ciò poi, va incluso anche una certa “apatia” da parte degli artisti e, particolarmente da parte di quanti avendo ottenuto cattedre all’Accademia, per questa loro “carica”, hanno creduto che al pari dei loro Maestri che a Napoli sono stati: Notte, Brancaccio, Greco, De Stefano, Perez e pochissimi altri, fosse un loro diritto acquisire collocazioni che avessero risonanze extra locali; pur restando chiusi negli studi che spesso la struttura accademica concedeva loro. E quindi, vivendo in questo loro ristretto “circuito” e, nell’assoluto distacco dal resto del mondo artistico nazionale, ne hanno subito le conseguenze . Come prima accennato, alcuni casi sono stati diversi perché diversa è stata l’impostazione che gli stessi si sono dati sin dall’inizio della loro carriera. Ad artisti come Guido Blasi, Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello, Sergio Fergola si può aggiungere Eduardo Palumbo che abbandonando Napoli, soprattutto per contraddizioni e difficoltà d’inserimento nel campo dell’insegnamento, si trasferì nella Capitale nel lontano 1961. Eppure Palumbo era stato non solo alunno molto legato al Maestro Emilio Notte ma, aveva riscosso anche dei successi alle prime mostre e premi ai quali partecipava: così come quello del Premio Strega del 1959 vinto ex equo con Sergio Mascaro. 



Ma ripercorriamo un poco anche se brevi linee il percorso di questo Artista napoletano perché in particolare i lettori intendano quale valore di “qualità culturale” si sia allontanata dal proprio habitat d’origine. Le prime esperienze pittoriche anche brevemente citate di Eduardo Palumbo seguite dal maestro Emilio Notte, risalgono quindi alla seconda metà degli anni Cinquanta. Quando le arti figurative napoletane annoveravano tutta una serie di giovani che Palumbo frequenta ed i cui nomi è bene ricordare e sono: Carlo Alfano, Carmine Di Ruggiero, Giuseppe Pirozzi, Mario Persico, Gianni Pisani che non lasceranno Napoli e altri come i già citati Biasi, Di Bello, Del Pezzo e Fergola che invece emigreranno nel nord d’Italia ed in particolare a Milano e Venezia dove avranno modo e spazi per affermarsi. Tra questi va inserito Eduardo Palumbo che: terminati gli studi nel 1959 si trasferisce come accennato a Roma nel 1961 dove continuerà a dipingere ed inizierà ad insegnare; da prima nella provincia laziale (Priverno) per giungere poi nella Capitale nel 1976, quando avrà la cattedra di discipline pittoriche presso il Liceo Artistico di via Ripetta. E’ chiaro che in tutti questi anni (dal 61 al 76) l’attività pittorica di Palumbo subisce tutta una serie di modificazioni dovute all’attenta analisi di ricerche effettuate, ed alle quali non rinuncerà neppure nelle fasi successive e che tutt’oggi persegue. Ma come accennato, esaminiamolo questo percorso anche per grandi linee per avere un quadro più esatto delle continue indagini che effettuerà sin dai lontani esordi. Significativo è quindi il suo esordio (1958) che rappresenta, appunto, un primo rappresentativo indice di quel distacco dalla iniziale calligrafica figurazione, che va maturandosi, per un sempre più specifico approdo verso una maggiore ed ampia definizione cromatica che, in uno alle forme, avranno tendenzialmente come riferimento il “contesto sociale” e la ricerca di “luce”. 
Infatti: partendo da un impressionismo pregno di quelle atmosfere locali che sono soprattutto la luce ed il colore, inizierà ad indagare e ricercare quelle forme e cromatismi atte ad esprimere, in forme sempre più personalizzate, non solo le proprie sensazioni ma, anche gli stati d'animo che sente la necessità d’esternare. Sintomatico è quindi nel 1966, il ciclo sul “Sole” come luce di una personale “intimistica fede” a cui si contrappone quella del “Guerriero” come forza di difesa a quei valori che documentano appunto, la sostanziale chiusura nei confronti di quelle fasi iniziali rappresentate da più specifiche “figurazioni”. E’ il periodo questo, della individuazione, anche se come fase iniziale, d’una astrazione dominata da visioni policrome che assumono un carattere di narrazione dell’essere e del suo contesto. Sono questi anche gli anni di contestazione a cui assiste vivendone il dramma che esprimerà nella “rottura” ed esplosione di quel “sole” che moltiplicherà i suoi raggi dominando la tela in cerca di uno stabile riferimento. E’ questo, il 1968, l’anno delle “conferme” all’attento lavoro che si concretizza anche con la partecipazione, per invito, alla VI Biennale Romana così come nella partecipazione a rassegne internazionali in vari punti del globo tra i quali: Austria, Iran, Romania, Svizzera e Germania. Situazioni che lo metteranno in contatto con personalità del mondo culturale così come: il poeta Ezra Pound e lo storico dell'arte Walter Zettl. Con questo ultimo che oltre a ospitarlo a Vienna scriverà: « Palumbo è un artista mediterraneo, il mare e le sue coste inondate di luce esercitano la loro azione sulla pittura. Ma egli ci restituisce questo mondo non sotto forma di romanticismo avulso dal tempo, bensì rendendo visivo il suo legame elementare con quest' atmosfera. Rifiuta qualsiasi imitazione della natura e dà vita a formazioni e colori nuovi, nati direttamente dagli elementi e visualizzati, come un caleidoscopio, secondo la loro più intima struttura ».  Caleidoscopio che si materializzerà nella nascita degli “aviogrammi” che Giuseppe Capogrossi sosterrà d’essere, a differenza dei suoi di natura letteraria, generati dalla natura che, per Palumbo, rappresenta la sintesi costruttiva delle molteplici fasi di ricerca effettuati e nelle quali non è estranea l’acquisita solarità dei suoi luoghi d’origine: Napoli.
Fasi queste degli aviogrammi, che man mano assumeranno sempre più valore nel segno così come nei colori legati alla natura a cui è ombelicamente congiunto e tali da raggiungere una spazialità ricercata concettualmente, che man mano viene ad assumere anche un carattere di musicalità. E’ in questa fase che Palumbo, instancabile nelle continue elaborazioni, è alla ricerca di un equilibrio che, nel segno assunto renda la superficie alla quale è offerto una specifica sintassi enunciativa, sempre limpida negli schemi rappresentativi ed espressione di una energia sempre più evidente: tipica negli andamenti pentagrammatici. Fase quindi che lo porterà ad abbandonare gli aviogrammi per strutture d’elementi materici rigorosamente rapportati al colore e pregne di fluttuanti e sinuose modulazioni. Ed è quindi alla materia, soprattutto in un giuoco di bianchi, a cui affida la priorità d’espressione a fare da costruzione all’intera concretizzazione dell’opera. Segno e colore quindi in fasi sempre più specifiche di una voluta e ricercata “perfezione”. Significativo e non da sottovalutare è l’incontro nel 1994 con il giornalista napoletano Gino Agnese che lo condurrà alla officina di Alberto Burri in quel di Città di Castello. Incontro che Agnese sottolinea come fase di grande impatto emotivo da parte del Nostro che intensificherà ancor più nei successivi anni, la propria attività espositiva. Tra le tante, è sintomatica quella del 1997 alla Galleria Lazzari dove Piero Dorazio noterà del come: « Palumbo resta fedele alla concezione dinamica dello spazio propria dei Futuristi, però trasforma il loro furore epico in uno squisito lirismo »; nel mentre Gabriele Simongini identificherà come essenza nella ricerca di Palumbo una « metafisica della luce ». Si potrebbe riempire un intero volume per indicare più specificatamente tutto quanto è stato il cammino di Eduardo Palumbo sino alle più recenti partecipazioni a rassegne nazionali ed internazionali. Sarebbe indicare una didascalica sequenza di date, luoghi e nomi che lo hanno visto e lo vedono, certamente tra i maggiori e significativi protagonisti dell’arte in Italia ma, crediamo non sia il caso di effettuare una specifica lunga elencazione. Citiamo, per tutte, solo quella che coagula un ulteriore riconoscimento dovutogli e che a gennaio di quest’anno ha visto inserire una Sua opera nella collezione d’Arte contemporanea alla Farnesina ( Ministero degli Esteri ): un trittico dal titolo “Là dove il cielo è più sereno e lieto” che misura cm. 150x300. Doveroso questo riconoscimento ricevuto da Eduardo Palumbo, a testimonianza d’un percorso artistico lineare ed individuabile, nella personale “astratta musicalità”.

Pubblicato su il  cartaceo luglio-agosto 2008, e sul web agosto del il Brigante

 

 
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