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CHI SIAMO

L’ Avvocato Laura Di Masullo (Iscriz.Ordine Avvocati di Milano N. 9365) ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’Università Statale di Milano nel 1990 discutendo una tesi in diritto costituzionale con il Prof. V. Onida. E' iscritta all'albo dell'Ordine degli avvocati dal gennaio 1996. E' Commissario d'Esame di Avvocato (2008-2009). E' nella lista degli Avvocati addetti al Gratuito Patrocinio. E' nella lista degli Avvocati addetti allo "Sportello del Cittadino- Piacere Avvocato" istituito presso il Consiglio dell'Ordine di Milano.Con la sua particolare filosofia di lavoro, esercita con molta passione l’attività forense garantendo al cliente competenza ed aggiornamento, aspetti imprescindibili nella scelta del professionista e, grazie alla sua personale inclinazione a mediare ed alla sua profonda comprensione delle esigenze dell’assistito, riesce ad arrivare alla soluzione vincente nelle vertenze legali affidatele.

 

Un "AvvocatoxTe" nasce per aiutarTi ad affrontare la Tua separazione o il Tuo divorzio o le situazioni di incompatibilità che si verificano all'interno del rapporto di coppia.
Se ne hai necessità, potrai avere anche l'assistenza legale contenziosa prestata da uno studio legale in Milano gestito da avvocati specializzati e con esperienza ultra decennale nel settore ed aggiornati professionalmente. Puoi anche ricevere privatamente consulenza ed assistenza legale personalizzata su ogni controversia in materia di diritto di famiglia, successioni e tutela dei diritti della personalità.

Se ci contatterai potrai ricevere tutte le informazioni necessarie :

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PER VOI CARI AMICI LA MASSIMA DEL GIORNO...

Sabato, 29/09/2007

"Ad impossibilia nemo tenetur."
All'impossibile non è tenuto nessuno

Domenica, 30/09/2007

"Chiunque si pone come arbitro in materia di conoscenza, è destinato a naufragare nella risata degli dei."

Albert Einstein

Lunedì, 01/10/2007

"Fai in modo che il tuo discorso sia migliore del tuo silenzio"

Dionigi il vecchio

 

Martedì, 02/10/2007

"Dobbiamo imparare bene le regole in modo da infrangerle nel modo giusto."

Dalai Lama

Mercoledì, 03/10/2007

"Non sempre ciò che vien dopo è progresso."

Alessandro Manzoni

Giovedì, 04/10/2007

"Ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat"

La prova è a carico di chi afferma, non già di chi nega.

Venerdì, 05/10/2007

"Gli uomini condannano l'ingiustizia perchè temono di poterne essere vittime, non perchè aborrano di commetterla."

Platone

Weekend, 06-07/10/2007

"Tutti i nostri sogni possono diventare realtà, se abbiamo il coraggio di perseguirli."

Walt Disney

Lunedì, 08/10/2007

"Melius est rem habere, quam verba"

E' meglio avere la cosa che accontentarsi di promesse.

 Martedì, 09/10/2007

"Non dovremmo mai credere a una donna che dica la sua vera età. Colei che la rivela è pronta a raccontare tutto."

Oscar Wilde

 
Mercoledì, 10/10/2007

"Per il momento riguardo alla morale, so soltanto che è morale ciò che mi fa sentir bene, e immorale ciò che mi fa sentir male dopo che l'ho fatto."

Hernest Hemingway

Giovedì, 11/10/2007 

"All'avvocato bisogna contare le cose chiare; a lui poi tocca di imbrogliarle."

Alessandro Manzoni

Venerdì, 12/10/2007 

"Cuis commoda, eius et incommoda."

Di chi sono i vantaggi sono pure gli svantaggi.

Weekend 13-14 ottobre 2007

"Chi apprezza il gusto, non beve più vino, ma assapora segreti."

Salvador Dalì

Lunedì, 15 ottobre 2007

"Dormientibus leges (vei iura) non succurrunt."

Le leggi non soccorrono i dormienti.

 

Martedì, 16 ottobre 2007

"Actore non probante, reus absolvitur."Se l'attore non prova, il convenuto viene assolto.

Mercoledì, 17 ottobre 2007

"Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano."

 Giovanni Giolitti

 Giovedì, 18 ottobre 2007

"Quando gli elefanti combattono è sempre l'erba a rimanere schiacciata." Proverbio africano

Venerdì, 19 ottobre 2007 (Santa Laura)

"Se ami qualcosa lasciala andare via, solo se torna sarà veramente tua." Jim Morrison

Weekend 20-21 ottobre 2007

"La puntualità è il ladro del tempo." Oscar Wilde

Lunedì, 22 ottobre 2007

"Ne quid nimis." Non esagerare in nulla.(Da una sentenza greca)

Martedì, 23 ottobre 2007

"Non est versum si non durat versum." Non c'è arricchimento, se l'arricchimento non perdura.

Mercoledì, 23 ottobre 2007

"L'intelligenza è forse l'unica ricchezza ad essere stata distribuita equamente. Infatti nessuno si lamenta di averne meno degli altri!" Proverbio spagnolo

Giovedì, 24 ottobre 2007

"Ius est ars boni et aequi."  Il diritto è l'arte di quanto è giusto ed equo.

 

 

 

SPESE STRAORDINARIE E SPESE ORDINARIE

Post n°62 pubblicato il 15 Marzo 2008 da avvocatoxTE
 

Carissimi amici,

molte volte i  "papà separati " domandano quali siano le spese straordinarie che sono obbligati a versare alla ex moglie affidataria dei minori.

Nessuna legge, nè sentenza ha mai fornito un elenco dettagliato delle spese da definirsi straordinarie e di quelle che non lo sono, che pertanto vanno effettuate sulla base dell'assegno di mantenimento disposto dal Tribunale.

Tuttavia, ricorrendo al buon senso ed alla logica, si possono individuare come spese ordinarie e, pertanto, non rientranti nel concetto di spese straordinarie, quelle attinenti l'acquisto di materiale di cancelleria scolastico, il vestiario, gli zaini, il buono per la mensa scolastica ( in quanto relative all'alimentazione e comprese nell'assegno mensile).

Sono, invece, rientranti nel novero delle spese straordinarie quelle inerenti le spese mediche per patologie particolari ed imprevedibili, lo scuola-bus, un viaggio effettuato dal figlio nel periodo estivo per un corso di lingua straniera, diversamente dal caso di un viaggio di istruzione organizzato dall'istituto scolastico.

Chiaramente, la suddivisione delle spese segue quanto disposto in sede di separazione/divorzio: qualora ci sia un espresso riferimento all'obbligo di ciascun coniuge di partecipare al 50%  di tutte le spese scolastiche o mediche, queste andranno divise tra i genitori anche se ordinarie, ovviamente in aggiunta all'assegno di mantenimento mensile.

 
 
 

MEDIAZIONE FAMILIARE

Post n°61 pubblicato il 17 Febbraio 2008 da avvocatoxTE
 

Carissimi amici,

nella crisi familiare e nella vicenda separativa coniugale, è di aiuto la mediazione familiare che si pone come strumento integrativo per dirimere la controversia insorgente tra i coniugi.

La mediazione non si pone l'obiettivo di sviluppare una riconciliazione coniugale, ma mira a raggiungere un accordo  più condiviso gestendo le sfere personali, anche di tipo pratico e organizzativo, superando i profili egoistici di ciascun coniuge.

La mediazione nasce negli anni '60 negli Stati Uniti, si diffonde in Europa occidentale sino ad approdare in Italia negli anni '90 come strumento per superare la conflittualità tra i coniugi .

Tale servizio viene generalmente svolto da uno o due mediatori che possono essere avvocati o psicologi  che aiutano i coniugi, in 4-6 sedute,  facilitando e stimolando in essi la ricerca di soluzioni adeguate ai loro conflitti, sviluppando nuovi canali comunicativi.

I risultati che vengono raggiunti sono apprezzabili, in quanto i coniugi, con tale strumento, rinegoziano le reciproche posizioni, competenze e ruoli senza incorrere nelle lungaggini di tempo e di costi propri dei processi giudiziali.

E' possibile avere risultati apprezzabili anche iniziando una terapia di coppia che coinvolge prevalentemente la sfera psichico relazionale dei soggetti.

Il servizio è disponibile. Se siete interessati a ricevere informazioni, scriveteci senza impegno a  avvocato.xte@libero.it .

 
 
 

PREMIO DIECI E LODE A... AVVOCATOXTE!

Post n°60 pubblicato il 11 Febbraio 2008 da avvocatoxTE
 

Grazie a tutti

 

Premio D eci e lode

 

Grazie per aver premiato AVVOCATOXTE con il "Premio dieci e lode"

per l'aiuto che dà agli altri e per la professionalità !

GRAZIE

 
 
 

RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO

Post n°59 pubblicato il 30 Gennaio 2008 da avvocatoxTE
 
Tag: FIGLI

Carissimi amici,

un'interessante sentenza della Suprema Corte di Cassazione, n. 4 datata 03/07/2007 depositata il 03/01/2008, ha affermato il diritto del padre naturale di riconoscere il figlio naturale anche se è trascorso molto tempo dalla nascita.

Tutto ha inizio nell'ottobre del 2005, quando il signor L.G. ottiene dal Tribunale per i Minorenni di Firenze l'autorizzazione al riconoscimento del figlio naturale L.B., già riconosciuto dalla madre F.B. .

La Corte d'Appello di Firenze, su ricorso della madre F.B. che si era opposta al riconoscimento in considerazione dell'interesse prioritario del minore cui il padre aveva negato per anni assistenza e sostentamento morale e materiale, nel maggio 2006 ha confermato la decisione del Tribunale evidenziando che il padre -all'epoca della nascita del figlio- diciottenne, non aveva risvolti negativi di impatto sul minore.

La Corte di Cassazione, su ricorso della madre, ha confermato le precedenti pronunce, statuendo:

"Deve, alla stregua di quanto fin qui esposto, affermarsi il seguente principio di diritto: "L'interesse del figlio minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, di cui all'art. 250 cod. civ., è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, ed, in particolare, dal diritto alla identità personale nella sua precisa ed integrale dimensione psicofisica. Pertanto, in caso di opposizione al riconoscimento da parte dell'altro genitore, che lo abbia già effettuato, il mancato riscontro di un interesse del minore non costituisce ostacolo all'esercizio del diritto del genitore richiedente, in quanto il sacrificio totale della genitorialità può essere giustificato solo in presenza di gravi ed irreversibili motivi che inducano a ravvisare la forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore, ed in particolare della sua salute psico-fisica. La relativa verifica va compiuta in termini concreti dal giudice del merito, le cui conclusioni, ove logicamente e compiutamente motivate, si sottraggono ad ogni sindacato di legittimità"

 
 
 

IL LAVORO DELLA CASALINGA

Post n°58 pubblicato il 27 Gennaio 2008 da avvocatoxTE
 

 

Cari amici,

vi sottopongo una interessante sentenza della Corte di Cassazione -n.593/2008- la quale ha affermato l'importanza del contributo prestato dalle madri casalinghe alla conduzione familiare e, conseguentemente, alla costituzione del patrimonio di famiglia. La sentenza è rilevante in quanto è stata rilanciata l'importanza dell'attività svolta dalle casalinghe nell'ambito familiare. La Corte ha, inoltre, sottolineato che il giudice chiamato a determinare l'assegno di mantenimento, dovrà tener conto del lavoro svolto dalla moglie rimasta a casa al pari del lavoro prestato fuori casa dal marito, evidenziando che entrambe le attività permettono la costituzione del patrimonio familiare. In tale ambito andrà anche considerato che la donna, la quale si dedica alle attività domestiche, di fatto consente la realizzazione professionale del marito a proprio scapito, diminuendo le proprie chances di inserimento nel mondo del lavoro ad una certa età.

Corte di Cassazione –Sezione prima civile – sentenza 8 novembre 2007 – 14 gennaio 2008, n. 593

 

 Presidente Luccioli – Relatore Bonomo Pm Caliendo – parzialmente conforme – Ricorrente F.

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 17 giugno 1999 Isangela P. chiedeva al Tribunale di Roma la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con Sergio F. nel 1976, nonché un assegno divorzile di L. 800.000 ed un contributo di L. 500.000 per il mantenimento della figlia Francesca, con lei convivente.

Si costituiva il F. , aderendo alla domanda di divorzio, ma contestando le richieste economiche, perché la moglie sarebbe stata in grado di mantenersi da sola e perché i figli vivevano con lui.

Con sentenza depositata il 12 febbraio 2001 il Tribunale, accertato che la figlia Francesca non viveva più con la madre, respingeva la domanda di contributo al mantenimento della figlia e riconosceva alla P. un assegno divorzile di L. 300.000 mensili. Il Tribunale respingeva altre domande riconvenzionali proposte dal F. . La Corte d'appello di Roma, con sentenza del 20 maggio - 4 luglio 2003, respingeva sia l'appello principale della P. , volto ad ottenere l'aumento dell'assegno divorzile a L. 1.000.000 mensili, sia l'appello incidentale del F. , avente per oggetto l'eliminazione ovvero la riduzione dell'assegno divorzile a suo carico, la riconsegna della casa coniugale nonché altre richieste. Avverso la sentenza d'appello Sergio F. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Isangela P. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, sulla base di due motivi. Il F. ha resistito con controricorso al ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Il ricorso principale e quello incidentale devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni contro la stessa sentenza. E' inammissibile la produzione della documentazione allegata alle memorie, non ricorrendo le ipotesi previste dall'art. 372 c.p.c. per il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo.

2. Con il primo mezzo d'impugnazione il ricorrente principale lamenta contraddittoria e insufficiente motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alla valutazione dei redditi percepiti dal F. (art. 5 legge 898/1970). Si sottolinea che il giudice di appello aveva indicato un reddito di Euro 1.700 mensili, che non corrispondeva nemmeno a quello lordo e che sembrava frutto di un mero errore cagionato dal cambio Lira-Euro, dovendosi intendere 1.700.000 L. mensili. Dalle buste paga del 2001 emergeva un reddito lordo del F. mediamente di L. 3.300.000, che dopo le detrazioni di legge e di diritto si riduceva in media a L. 1.500.000 mensili. Il reddito netto medio mensile, sulla base del reddito annuo, era stato di L. 1.430.250, pari ad Euro 738,66. Ne risultava un evidente squilibrio a favore della P. , che guadagnava 1.000, 00 - 1.200,00 Euro mensili.

3. Il motivo è inammissibile, non potendosi in questa sede di legittimità riesaminare gli elementi di fatto riguardanti il merito della causa né effettuare valutazioni basate su di essi. Eventuali errori del giudice di merito su tali elementi possono essere fatti valere quali vizi revocatori, ove ricorrano le condizioni di legge.

4. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia contraddittoria, erronea ed omessa motivazione in ordine alla comparazione dei redditi delle parti ed alle circostanze di fatto che avevano determinato l'attribuzione dell'assegno divorzile (art. 5 legge 898/1970). Erroneamente la Corte di appello non aveva attribuito alcuna conseguenza di natura economica all'invalidità del 67% del F. , riconosciuta nel 1996, neppure sotto il profilo della diminuita capacità di guadagno da parte del ricorrente, che non può svolgere lavoro straordinario presso l'ente di appartenenza. Inoltre, il giudice di appello, nel giudizio di comparazione dei redditi, non aveva considerato che il F. dopo la separazione era rimasto privo di abitazione ed era stato costretto a prenderne ed arredarne un'altra a prezzo di un forte indebitamento con la Findomestic, risultante dalla busta paga, e che l'abitazione coniugale, di proprietà dell'IACP, era stata assegnata alla P. , che non paga l'affitto, posto a carico del F. in sede di separazione. La P. obietta che il giudice di primo grado aveva stabilito che l'invalidità del 67% del F. non aveva comportato alcuna diminuzione di reddito per lo stesso, che continuava a svolgere regolarmente la propria attività di geometra presso lo IACP, ora ATER.

5. Anche questo motivo è inammissibile. La sentenza impugnata non prende in esame l'elemento dell'invalidità del F. , ma quest'ultimo non ha specificato nel ricorso - come sarebbe stato suo onere, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass. 13 luglio 2004 n. 12912, Cass. 11 giugno 2004 n. 11133, Cass. 15 aprile 2004 n. 7178, tra le altre; da ultimo, vedi Cass. 45 maggio 2006 n. 12362, Cass. 4 aprile 2006 n. 7825) - in quali esatti termini egli avesse fatto valere tale circostanza dinanzi alla Corte d'appello e quali argomenti ed elementi avesse dedotto, al fine di dimostrarne l'effettiva incidenza sulla sua posizione economica, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado. Lo stesso vale per il preteso indebitamento per l'acquisto e l'arredo dell'abitazione, che pure non è menzionato dalla decisione impugnata, mentre la questione del pagamento dell'affitto dell'abitazione occupata dalla P. , che forma oggetto del terzo motivo del ricorso principale, viene esaminata in riferimento ad esso.

6. Il terzo motivo esprime una doglianza di omessa decisione in merito all'assegnazione dell'abitazione coniugale di via Cerignola 3 (art. 6 legge 898/1970), per non essersi la Corte d'appello pronunciata sulla richiesta del F. in appello volta ad ottenere che fosse annullato l'onere a suo carico del pagamento dell'affitto della suddetta abitazione, che si traduce in un utile per la P. .

7. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse. La Corte d'appello ha affermato che per la domanda di "riconsegna" della casa familiare valevano le ragioni esposte a proposito della restituzione delle somme corrisposte alla P. per i figli, e cioè che si trattava di somme non previste nell'ambito del procedimento di divorzio e che, se il F. si riferiva ad assegni determinati in sede di separazione, egli avrebbe dovuto attivarsi ex art. 156, ultimo comma, c.c.. In tal modo la sentenza impugnata ha chiarito che il giudice del divorzio non poteva pronunciarsi in ordine a previsioni riguardanti il regime di separazione dei coniugi, che non fossero state confermate nel procedimento di divorzio. L'affermazione è corretta e vale sia per l'assegnazione della casa coniugale che per l'eventuale onere di pagamento del relativo canone di locazione che fosse stato assunto da uno dei coniugi, trattandosi di condizioni della separazione destinate a venir meno a seguito della cessazione del relativo regime, rispetto alle quali non è configurabile un interesse ad ottenere una pronuncia in questa sede.

8. Con il quarto motivo - privo di intestazione e di riferimenti alla natura del preteso vizio - il ricorrente principale lamenta che il principio del carattere assistenziale dell'assegno divorzile, la cui funzione è quella di conservare al coniuge lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio, fosse stato stravolto nel caso in esame, essendosi verificati, a carico del F. , uno stato di grave indebitamento (cui era seguita la malattia e l'invalidità) ed una situazione di unilaterale depauperamento di beni e di risorse a favore dell'ex moglie, la quale aveva addirittura migliorato la precedente condizione economica (aveva acquistato una nuova autovettura, aveva ceduto o locato la casa assegnata, si era liberata dei figli, aveva cambiato sovente attività lavorativa, aveva pignorato parte dello stipendio del F. ).

9. Il motivo non è ammissibile perché generico e non diretto a censurare punti specifici della decisione del giudice di merito.

10. Con il primo motivo di ricorso incidentale la P. denuncia contraddittoria ed insufficiente motivazione in relazione al mancato adeguamento dell'assegno divorzile, nonché omessa considerazione dei parametri indicati dalla legge n. 898 del 1970. La Corte di appello aveva ingiustificatamente dedotto dalle dimissioni della P. che ella avesse trovato una sistemazione lavorativa meglio retribuita, mentre le dimissioni erano state determinate dallo stato di salute della medesima, in cura presso il Centro di igiene mentale per una forma di depressione monopolare a causa dei fatti che avevano accompagnato la separazione. Inoltre, era notoria la seria difficoltà di trovare una stabile occupazione lavorativa per una donna di 45 anni che non aveva mai lavorato e le cui energie erano state assorbite da una ventennale attività di casalinga, madre e moglie. Il Giudice di appello non aveva nemmeno preso in considerazione ì parametri indicati dall'art. 5 della legge 898 del 1970, ai fini della quantificazione dell'assegno di divorzio (condizione patrimoniale dei coniugi, contributo dato da ciascuno alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno con il reddito di entrambi), né aveva provveduto ad ammettere i mezzi di prova richiesti dalla P. in ordine all'ulteriore quantificazione dei redditi del F. . I mezzi reperiti dalla P. con lo svolgimento di attività non continuative erano così esigui (pari, in base alla certificazione IRPEF del 2000, a 8.024.000 L. annue, di cui L. 6.497.000 per compensi lavorativi e L. 1.442.000 per contributo disoccupazione elargito dall'INPS) che non le garantivano nemmeno un sicuro sostentamento ed una vita dignitosa, sicché si rendeva necessario determinare l'assegno divorzile nella misura richiesta di Euro 515,00 e, comunque, non inferiore a 412,00 Euro mensili.

11. Il motivo merita accoglimento nei limiti appresso precisati.

L'argomentazione della Corte d'appello, che ha dedotto dalle avvenute dimissioni della P. il reperimento di altro lavoro meglio retribuito, non è censurabile in questa sede, non essendo inficiata da vizi logici, anche se si tratta di una circostanza di fatto suscettibile di diverse interpretazioni alla luce del contesto in cui si verifica. La P. sostiene con il ricorso per cassazione che le dimissioni sarebbero state causate dallo stato di salute della medesima, che ne limiterebbe la capacità lavorativa, ma non precisa - come avrebbe dovuto in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sopra menzionato - quando ed in quali esatti termini tali fatti sarebbero stati dedotti dinanzi al giudice di merito e su quali prove essi si fonderebbero. Ella si è limitata ad affermare nel ricorso per cassazione di essere in cura presso il Centro di igiene mentale per una forma di depressione monopolare ed a richiamare un certificato prodotto nel fascicolo di appello, del quale però non ha specificato il contenuto. Quanto ai criteri da seguire per la determinazione in concreto dell'assegno divorzile, osserva il Collegio che l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso dal matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell'assegno; e che, nella seconda fase, il giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell'assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5 comma 6 (nel testo modificato dalla legge n. 74 del 1987) - e cioè delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio - i quali criteri, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurata dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (Cass. 16 maggio 2005 n. 10210, 19 marzo 2003 n. 4040). Con riguardo alla quantificazione dell'assegno di divorzio, se è vero che deve escludersi la necessità di una puntuale considerazione, da parte del giudice che dia adeguata giustificazione della propria decisione, di tutti, contemporaneamente, i parametri di riferimento indicati dall'art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per la determinazione dell'importo spettante all'ex coniuge, anche in relazione alle deduzioni e alle richieste delle parti, resta salva però la valutazione della loro influenza sulla misura dell'assegno (Cass. 16 maggio 2005 n. 10210, 16 luglio 2004 n. 13169). Nella specie, nella determinazione dell'assegno divorzile la Corte d'appello ha esaminato le rispettive posizioni economiche delle parti, ma non ha fatto alcun riferimento al dedotto contributo della P. , casalinga e madre, alla conduzione familiare durante la ventennale convivenza, né ha manifestato l'intenzione di considerare comunque prevalente il criterio basato sulle condizioni economiche delle parti (Cass. 28 aprile 2006 n. 9876}.

Ne consegue che l'influenza del criterio basato sul contributo della P. alla conduzione familiare non risulta oggetto di alcuna valutazione da parte della Corte territoriale, che avrebbe dovuto invece effettuarla in base ai principi sopra menzionati.

12. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale lamenta omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione in ordine alla mancata ammissione di mezzi istruttori volti all'accertamento del reddito del signor F. , senza che la Corte di appello avesse fornito alcuna giustificazione al riguardo e nonostante che la P. avesse richiesto di disporre altre indagini, ai sensi dell'art. 10 della legge 87/1984 sull'ulteriore attività lavorativa di musicista del F. .

13. Il motivo è inammissibile.

La mancata dettagliata indicazione nel ricorso - in violazione del già menzionato principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dei mezzi istruttori richiesti e non ammessi non consente di valutare la decisività delle circostanze. Inoltre, l'esercizio del potere officioso di disporre, tramite la polizia tributaria, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella discrezionalità del giudice del merito e non può essere considerato come un dovere imposto sulla base della semplice contestazione delle parti in ordine alle loro rispettive condizioni economiche (Cass. 28 aprile 2006 n. 9861, 17 maggio 2005 n. 10344).

14. In accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo del ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa va rinviata alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, la quale la riesaminerà valutando l'influenza sulla misura dell'assegno del dedotto contributo della P. alla conduzione familiare.

Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale; accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, nei limiti dell'accoglimento, e rinvia la causa alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

 
 
 

PAGAMENTO ICI SULLA CASA CONIUGALE ASSEGNATA?

Post n°55 pubblicato il 19 Gennaio 2008 da avvocatoxTE
 

Cari amici, vi segnalo un'interessante questione che per anni è stata dibattuta sia dalle Commissioni Tributarie, sia dal Ministero delle Finanze, sia dalle Corti di merito e di legittimità:

il pagamento dell'ICI sull'immobile-casa coniugale assegnata in sede di separazione o di divorzio al coniuge.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 6192/2007 ha definitivamente chiarito che il coniuge assegnatario della casa coniugale NON è soggetto passivo dell'imposta comunale sugli immobili per la quota dell'immobile stesso di cui non vanti diritto di proprietà o un qualche altro diritto reale di godimento. E' stato ribadito che l'assegnazione della casa coniugale al coniuge cui sono affidati i figli risponde all'esigenza e finalità di assicurare una esclusiva tutela dei figli, a prescindere dalla titolarità della proprietà sull'immobile medesimo.

Cassazione – Sezione quinta civile – sentenza 1 dicembre 2006 – 16 marzo 2007, n. 6192 Presidente Saccucci – Relatore D’Alonzo Pm Leccisi – conforme – Ricorrente comune di Firenze – Controricorrente N.

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 9 luglio 2004 a N. Rossella (depositato il 23 luglio 2004), il Comune di Firenze - premesso che la N. aveva impugnato gli avvisi di accertamento emessi da esso ente, aventi ad oggetto il «parziale» pagamento dell’ ICI relativa agli «anni d’ imposta 1993 -1996», sostenendo che l’ «ulteriore quota del 50%» di detta imposta era a carico del coniuge «quale comproprietario» ancorché «in sede di separazione personale» («avvenuta nel 1988») le fosse stato riconosciuto «il diritto di fruire dell’immobile» in quanto «adibito a casa familiare» -, in forza di due motivi, chiedeva di cassare («con ogni conseguente pronuncia» e «con vittoria di spese ed onorario del grado di giudizio») la sentenza n. 34/11/03 depositata il 28 maggio 2003 dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana la quale aveva accolto gli appelli (riuniti) proposti dalla N. avverso le decisioni (nn. 6/20/01 e 160/17/01) con le quali la Commissione Tributaria Provinciale di Firenze aveva disattesi i ricorsi della contribuente contro detti avvisi. Nel controricorso notificato il 22 settembre 2004 (depositato l’ 8 ottobre 2004) la N. instava per il rigetto dell’ avversa impugnazione «con vittoria di spese ed onorarlo di giudizio».

Motivi della decisione

Con la sentenza impugnata la Commissione Tributaria Regionale, ricordato che il giudice di primo grado aveva ritenuto «inapplicabile al caso di specie la modifica legislativa dell’ articolo 3 D.Lgs 504/92 apportata dall’articolo 58 del D.Lgs 446/97 (con la quale è stato aggiunto l’ aggettivo “reale” al diritto di abitazione, il cui titolare sarebbe soggetto passivo dell’ imposta), in quanto successiva agli anni di cui è causa» ha accolto gli appelli della N. avverso le decisioni «n. 6 del 19 febbraio 2001 e n. 154 del 14 dicembre 2001» (recte: n. 6/20/01 e n. 160/17/01) affermando che «l’assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario di figli minori disposta dal giudice della separazione non attribuisce un diritto reale di abitazione» e, di conseguenza, che «tale coniuge non è soggetto passivo di imposta».

Il giudice a quo ha, in primo luogo, osservato che «tale principio era valido sia in vigenza del vecchio articolo 3, sia a norma dell’attuale articolo 3 (come modificato con l’ articolo 58 D.Lgs 446/97)» in quanto «la modifica apportata al precitato articolo 3, con l’ aggiunta dell’ aggettivo “reale” non deve considerarsi innovativa, ma semplicemente interpretativa e chiarificatrice (resasi necessaria dalle incertezze giurisprudenziali e dottrinali in materia)» («con la conseguenza che tale norma cosi modificata è applicabile anche alle fattispecie anteriori alla modifica legislativa e tuttora pendenti») perché «già con il vecchio articolo 3, il diritto di abitazione (seppur privo dell’ aggettivo “reale”) doveva intendersi (e di fatto si intendeva) diritto reale di abitazione» tanto che «anche il locatario, l’ affittuario o il comodatario, pur avendo un diritto di abitazione o di uso, non erano considerati soggetti passivi di imposta».

La Commissione Tributaria Regionale, poi, ha affermato che «l’ assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario di figli minori non rappresenta un diritto reale, di abitazione» (e «tale coniuge» pertanto «non rientra tra i soggetti passivi di imposta ex articolo 3 D.Lgs 504/92») perché: «detta assegnazione rappresenta solo un diritto personale di credito o di godimento (assimilabile al comodato), e cioè un semplice diritto di servirsi dell’ immobile per effetto della sentenza giudiziale» e non  «può assolutamente rientrare, né direttamente né per assimilazione, tra i diritti reali di godimento previsti dal citato articolo 3» in quanto «né il giudice della separazione può costituire diritti reali, al di fuori delle situazioni espressamente previste dalla legge; né è pertinente al caso di specie l’invocato articolo 540 Cc, riferendosi esso al solo diritto successorio»; per «giurisprudenza ormai consolidata» “il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi all’esito deI procedimento di separazione personale non è idoneo a costituire un diritto reale di uso o di abitazione a favore dell’ assegnatario, ma solo un diritto di natura personale” «(Cassazione 7680/97; Cassazione 4529/99; Cassazione 11508/93; Cassazione 4016/92; ecc... ) » anche perché «l’assegnazione della casa familiare rappresenta la conservazione della destinazione della casa coniugale, unitamente all’arredo, nella una funzione di residenza familiare, e non crea un titolo di legittimazione all’abitazione” (Corte Costituzionale 454/89), e quindi un diritto reale sulla stessa».

Per il giudice tributario di appello, quindi, la N. non è «soggetto passivo di imposta per la quota di appartamento di proprietà del marito, assegnato alla stessa con sentenza».

2. Con il primo motivo di ricorso il Comune, richiamato l’ «insegnamento» di questa Corte («da ultimo Cassazione, Sezione prima, 11630/01») secondo il quale «l’assegnazione, in sede di divorzio come di separazione personale dei coniugi, della casa familiare al coniuge, affidatario dei figli minori integra un diritto personale atipico di godimento, il quale non costituisce un peso sull’ immobile destinato ad abitazione, come avviene per un diritto reale», denunzia «violazione o falsa applicazione degli articoli 1, secondo comma, e 3, primo comma, D. Lgs. 504/92» nonché «degli articoli 1803 e ss. Cc» adducendo che: - «la situazione giuridica di vantaggio conferita al coniuge affidatario rappresenta un diritto “avente contenuto analogo a quello di un diritto reale” (Cassazione, Sezione prima, 4420/88), tanto più che tale diritto è suscettibile di trascrizione nei pubblici registri immobiliari ai fini dell’ opponibilità a terzi (Corte Costituzionale, 454/89)»; - «per l’ ampiezza dell’ ingerenza che entrambi devono tollerare; per l’ assenza della percezione di un reddito proveniente dall’ immobile; per l’ indeterminabilità del momento del ritorno del bene stesso nella loro fruibilità» vi è «analogia di contenuto tra la figura del coniuge non assegnatario ed il nudo proprietario», non esistendo «diritti personali che assicurano al titolare una facoltà di godimento cosi ampia, e senza corrispettivo di sorta, qual’ è, quella riservata all’ assegnatario della casa familiare»; - il suo «operato» è rimasto «perfettamente in sintonia con le istruzioni ministeriali approvate, anno per anno, dai vari decreti ministeriali pubblicati in G.U.». Secondo il Comune la sentenza impugnata è «restata a livello di dogmatica astrattezza, utilizzando le tradizionali categorie civilistiche in una materia, quella dell’imposizione tributaria, autonoma dagli schemi del diritto privato e precipuamente basata, non solo e non tanto sulla proprietà immobiliare, quanto piuttosto nell’ idoneità, anche solo potenziale, di questa alla produzione di un reddito» (per cui «Il diritto di godimento, pieno ed incondizionato, di cui è titolare l’ assegnatario della casa coniugale in ambito ICI implica senza dubbio il riconoscimento della soggettività tributaria»). L’ente ricorrente, inoltre, ritiene «del tutto erronea l’ assimilazione di tale diritto dell’ assegnatario con quello del comodatario» atteso che «mentre quest’ultimo è essenzialmente gratuito, il diritto del coniuge affidatario dei figli di abitare nella casa familiare “trae origine dal dovere di assistenza materiale dell’ altro coniuge, (articolo 143 comma 2 Cc) anche nei confronti dei figli (articolo 147 Cc) e non può dirsi, pertanto, conferito a titolo gratuito, risultando, al contrario, la sua onerosità proprio dalla legge che ne è fonte e disciplina” (Cassazione 4420/88) ».

In definitiva, secondo il Comune, la Commissione Tributaria Regionale ha «Irragionevolmente posto a carico dell’altro coniuge l’onere tributario in questione, ancorché tale soggetto si trovi deprivato di ogni potenzialità economica del bene sicché tutti i figli nati da quel matrimonio abbiano raggiunto la maggiore età e la propria indipendenza economica, e quindi, in concreto, finanche per alcuni decenni» mentre, «soprattutto in ragione del fatto che il provvedimento di assegnazione dell’ alloggio al coniuge affidatario dei figli minori è opponibile, ove trascritto, oltre che all’ altro coniuge, proprietario o comproprietario della casa familiare, anche al terzo acquirente di questa, è di tutta evidenza che il diritto dell’ assegnatario, ancorché privo dei carattere della realtà, accompagna comunque l’ immobile in snodo non dissimile dei diritti reali canonizzati».

Il motivo deve essere respinto perché infondato.

A. La Corte Costituzionale (sentenza 113/96) ha giudicato inammissibili le eccezioni di illegittimità costituzionale degli articoli 1, 6 e 7 del D.Lgs 504/92 (istitutivo dell’ Imposta Comunale sugli Immobili) specificamente osservando che tale imposta “è conformata quale imposta patrimoniale”, “dovuta in misura predeterminata” e non basata “su indici di produttività”.

La patrimonialità detta, invero, si desume dal primo comma dell’ articolo 3 di detto D. Lgs laddove lo stesso disponeva (prima dell’ entrata in vigore delle modifiche apportate con l’ articolo 58 D. Lgs 15 dicembre 1997 n. 446) che “soggetti passivi dell’ imposta sono il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell’ articolo 1, ovvero il titolare del diritto di usufrutto, uso o abitazione sugli stessi, anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività “ e, dopo l’ entrata in vigore della modifica detta, dispone che “soggetti passivi dell’ imposta sono il proprietario di immobili di cui al comma 2 dell’ articolo 1, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, sugli stessi, anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività.

La norma, quindi, considera soggetti passivi dell’ imposta sempre e solo il proprietario ovvero il titolare di un diritto reale di godimento sull’ immobile gravato: i diritti reali di godimento, come noto (Cassazione, terza, 12765/00), costituiscono un numerus clausus per cui non è configurabile un rapporto per cosi dire di dominio utile, corrispondente ad uno ius in re aliena, cioè al diritto di godere di un fondo altrui, al di fuori di una specifica previsione legislativa (cfr. Cassazione, prima, 11508/93).

B. L’ assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario dei figli (minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti), come noto (Cassazione, prima, 1545/06; id., prima, 12309/04; id., prima, 22500/04; id., prima, 12705/03; id., prima, 13065/02), è finalizzata all’ esclusiva tutela della prole e dell’ interesse di questa a permanere nell’ ambiente domestico in cui è cresciuta (tanto che [Cassazione, prima, 9253/05] il giudice della separazione non può disporre l’ assegnazione della casa familiare in assenza di figli, in quanto il titolo ad abitare per il coniuge è strumentale alla conservazione della comunità, domestica ed è giustificato esclusivamente dall’ interesse morale e materiale della prole affidatagli): la stessa, quindi, costituisce una misura di tutela esclusiva della prole, diretta ad evitare a questa l’ ulteriore trauma di un allontanamento dall’ abituale ambiente di vita e di aggregazione di sentimenti.

L’ assegnazione in questione, poi, non suppone affatto la titolarità del diritto di proprietà dell’ immobile (ovvero di un diverso idoneo diritto reale) in capo al coniuge non affidatario in quanto essa interessa anche la casa familiare posta in un immobile condotto semplicemente in locazione ovvero goduto in forza di un qualsiasi adeguato titolo giuridico attributivo di un diritto meramente personale di godimento di quell’immobile.

Dagli esposti caratteri discende (Cassazione, 4719/06; id., prima, 5455/03; id., prima, 11630/01; id., prima, 7680/97) che il diritto riconosciuto al coniuge, non titolare di un diritto di proprietà o di godimento, sulla casa coniugale, con il provvedimento giudiziale di assegnazione di detta casa in sede di separazione o divorzio, ha natura di atipico diritto personale di godimento e non già di diritto reale.

Di conseguenza difetta in capo al coniuge semplicemente assegnatario dell’ immobile adibito a casa coniugale la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento specificamente previsti dalla norma, i quali costituiscono l’ unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell’ imposta comunale sull’ immobile stesso.

3. Con il secondo (ed ultimo) motivo il Comune denunzia «violazione e mancata applicazione dell’ articolo 218 Cc» (per il quale «Il coniuge che gode dei beni dell’ altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’ usufruttuario») adducendo che «la Commissione Tributarla Regionale ha mancato di applicare alla fattispecie» detta norma la quale «all’ evidenza ricomprende tutti quei casi in cui il godimento di beni dell’ altro coniuge non discenda dalla titolarità di diritti reali su di essi, ma da titoli diversi, tra i quali non vi è ragione di escludere quello derivante da una sentenza di assegnazione (del diritto personale atipico di godimento) della casa coniugale».

Secondo l’ ente ricorrente, quindi, «in ossequio al combinato disposto dell’ articolo 1008 Cc, che impone all’ usufruttuario l’ obbligo di pagare le imposte gravanti sull’ immobile, e dell’ articolo 3 del D. Lgs. 504/92, che include tra i soggetti passivi dell’ imposta l’ usufruttuario, invece del proprietario, il coniuge assegnatario della casa coniugale, a seguito di sentenza che abbia pronunciato la separazione giudiziale dei coniugi, è senz’ altro da ritenersi tenuto al pagamento dell’ ICI gravante sulla casa assegnata».

Anche tale motivo va disatteso perché privo di pregio.

A. In primo luogo si deve evidenziare che la soggettività passiva di qualsiasi imposta va determinata in base alle specifiche disposizioni che la regolano: a tal fine l’ utilizzazione delle comuni disposizioni civilistiche è corretto soltanto nei limiti del rinvio, quand’ anche necessariamente implicito, a quelle da parte delle norme fiscali.

B. In secondo luogo va considerato che il principio per cui “l’usufruttuario è tenuto, per la durata del suo diritto, ai carichi annuali, come le imposte, i canoni, le rendite fondiarie e gli altri pesi che gravano sul reddito” (articolo 1008, primo comma, Cc) ‑ già chiaramente espresso nelle fonti romane ‑, come sottolineato dalla dottrina, ha “carattere suppletívo” del titolo di costituzione dell’ usufrutto perché tale titolo “può regolare in modo diverso la ripartizione dei carichi”.

La dottrina, inoltre, ha convincentemente osservato che tale norma opera solo “nel confronti del proprietario e dell’ usufruttuarío”, quindi unicamente nei rapporti interni tra queste parti e non pure “nei confronti dei titolari dei crediti relativi ai pesi che gravano sul fondo” in quanto “l’ esistenza di un rapporto diretto tra creditore ed usufruttuario” dipende soltanto “dal titolo dell’ obbligazione o dalla legge”: “se quindi il titolo disponga una ripartizione dei carichi in modo diverso” da quello previsto dagli articoli 1008 e 1009 Cc, “l’usufruttuarío sarà tenuto o non sarà tenuto secondo che egli sia considerato o meno debitore del carico dalla legge, che lo impone, o dal titolo, che lo costituisce, indipendentemente da quello che dispone il titolo dell’ usufrutto”. Tali corrette osservazioni confermano che la identificazione del soggetto passivo di qualsivoglia imposta non va operata in base alle norme che regolano i rapporti interni tra nudo proprietario ed usufruttuario ma esclusivamente in base alla fonte legislativa che indica (descrivendola) tale soggettività.

C. L’ esatta ed effettiva portata della norma (articolo 218 Cc, per il quale “il coniuge che gode dei beni dell’ altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’ usufruttuario”) che si assume violata, poi, non può essere intesa appieno se non si considera la sua posizione nell’ ambito dello specifico tessuto normativo nella quale la stessa è inserita (c.d. sedes materiae).

Detta norma, infatti, è collocata nel Titolo sesto (“del matrimonio”), del primo libro del codice civile, precisamente nella Sezione quinta (“del regime di separazione dei beni”) del Capo sesto (“regime patrimoniale della famiglia”): la stessa. poi, segue, per numero, l’ articolo 217 (che regolamenta l’ “amministrazione e il godimento dei beni”) il quale dispone, per quanto interessa, che: - “ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo”; - “se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l’ altro coniuge secondo le regole del mandato”; - “se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’ obbligo di rendere conto dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati” ; - “se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti” .

L’ articolo 218, quindi, “per la sua collocazione”, come peraltro evidenziato anche dalla dottrina, va inteso come “previsione integrativa” dell’ articolo 217 e solo di questa: da tanto va correttamente tratta la conseguenza, segnalata anche dalla dottrina, che la complessiva regolamentazione delle due norme diviene inapplicabile in tutte le ipotesi in cui il godimento, totale o parziale, del bene del coniuge da parte dell’ altro coniuge sia fondato su di un rapporto diverso da quello disciplinato da dette norme.

Siffatta diversità va riscontrata proprio nell’ ipotesi di assegnazione (volontaria o giudiziale) al coniuge affidatario dei figli minori della casa di abitazione di proprietà dei due coniugi atteso che il potere del coniuge affidatario non deriva né da un mandato (con o senza obbligo di rendimento dei conti) conferito dall’ altro coniuge né dal godimento di fatto del bene (ipotizzante il necessario consenso dell’ altro coniuge) di cui si occupa l’articolo 218 Cc. Per la propria sede, quindi, l’ “amministrazione e il godimento dei beni” regolati dalla complessiva disposizione riguardano esclusivamente i beni che costituiscono oggetto del “regime di separazione dei beni” stessi e presuppongono, di logica necessità, la persistenza di tale regime, il quale, a sua volta, richiede la persistenza del vincolo matrimoniale tra i coniugi.

4. In definitiva si deve ribadire il principio (presupposto nella sentenza 18476/05, depositata il 19 settembre 2005 da questa Corte) secondo cui il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’ immobile di proprietà (anche in parte) dell’ altro coniuge non è soggetto passivo dell’ imposta comunale sugli immobili per la quota del medesimo immobile sulla quale lo stesso non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento.

5. La novità della questione consiglia la totale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità ai sensi del secondo comma dell’ articolo 92 Cpc

PQM

La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

 
 
 

DIVORZIO BREVE, UNA PROSSIMA REALTA' ?

Post n°54 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da avvocatoxTE
 

Miei cari amici,

concludo l'anno 2007 con una bella notizia !

Mercoledì scorso -19.12.2007- la commissione giustizia del senato ha approvato il testo base  in materia di nuove norme di scioglimento del matrimonio e di separazione tra coniugi, ove è previsto che è sufficiente 1 anno (e non 3 anni di separazione) per ottenere il divorzio e, addirittura, 6 mesi se la coppia non ha figli, ovviamente col consenso di entrambi.  Il termine per gli emendamenti è fissato per il 22 gennaio 2008, quindi già in febbraio potrebbe essere discusso in aula. Speriamo che tale provvedimento trovi una rapida approvazione in un clima che, comunque, non nasconde ottimismo.

Tantissimi  A U G U R I  !  

 
 
 

I GENITORI HANNO L'OBBLIGO DI ACCOMPAGNARE I FIGLI MINORI A SCUOLA

Post n°53 pubblicato il 13 Dicembre 2007 da avvocatoxTE
 
Tag: FIGLI

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la pronuncia del  4 settembre 2007 n.33847, ha annullato la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di pace di Staiti Brancaleone (Calabria) nei confronti dei genitori accusati ai sensi dell'art. 731 codice penale di aver omesso di impartire l'istruzione obbligatoria ai tre figli minori.

La Corte di Cassazione ha precisato che "effettivamente l’obbligo imposto a chiunque sia rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore di impartirgli o fargli impartire l’istruzione obbligatoria, implica anche l’obbligo di vigilare e controllare il minore per assicurarsi che questi si rechi realmente a scuola per ricevere l’istruzione. Specialmente di fronte a lunghe ingiustificate assenze da scuola – come è provato essere accaduto nel caso di specie – la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato non può essere esclusa dalla mancata prova della conoscenza delle comunicazioni inviate dalla autorità scolastica, atteso che la colpa, sufficiente per la configurabilità della contravvenzione in esame, è riscontrabile già nell’avere, senza giusto motivo, omesso di adempiere al proprio dovere di sorveglianza e di vigilanza sul minore e di assicurarsi che questo si rechi a scuola per ricevere l’istruzione."

 
 
 

MODIFICA CONDIZIONI DI SEPARAZIONE

Post n°52 pubblicato il 10 Dicembre 2007 da avvocatoxTE
 

Un caso salito alla ribalta recentemente riguarda la modificabilità o meno della pattuizione che i coniugi, in sede di separazione consensuale, hanno fatto in merito alla futura vendita dell’immobile adibito a casa familiare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24321 datata 22 novembre 2007, ha affrontato il tema molto attuale della natura degli accordi raggiunti dai coniugi in sede di separazione e della possibilità di proporre ricorso per la modifica degli stessi.

Il caso è questo.

La moglie affidataria della prole ha proposto ricorso contro il marito chiedendo la modifica dell'accordo concluso col marito in separazione, avente ad oggetto la futura vendita dell'immobile adibito a casa coniugale, in quanto incidente sul diritto indisponibile della  figlia in tenera età a continuare ad abitare nel luogo scelto come centro della propria vita affettiva e familiare. Tra l'altro la moglie chiedeva anche la revisione del contributo al mantenimento sulla base delle migliorate condizioni economiche del marito.

La Corte suprema di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione dalla signora (che aveva visto respinte le proprie richieste sia in primo che in secondo grado), ha statuito che la pattuizione relativa alla vendita della casa coniugale risultava frutto di autonoma e concorde manifestazione di volontà delle parti.

Pertanto, nessun giustificato motivo sopravvenuto risultava addotto dalla signora nella sua richiesta se non l'esigenza manifestata nell'interesse della minore di vedere confermata l'assegnazione in suo favore della casa coniugale.

La Corte ha ribadito che i giustificati motivi che autorizzano il mutamento delle relative condizioni consistono in fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della primaria situazione in relazione alla quale gli accordi tra i coniugi erano stati stipulati.

Tuttavia la signora aveva sostenuto che la pattuizione avrebbe dovuto essere modificata in quanto incidente sui diritti indisponibili, quale quello della minore a mantenere l'abitazione nella casa in cui è nata ed ha vissuto.

La Cassazione  ha respinto   il ricorso della madre, confermando la correttezza della sentenza di appello, in quanto, qualora si deducesse che l'accordo sopra citato fosse scaturito da una manifestazione di volontà viziata da circostanze atte ad incidere sulla formazione del consenso prestato da una delle parti, lo strumento idoneo sarebbe stato quello dell'annullamento dell'accordo (negozio giuridico) e non già di certo della modifica delle condizioni della separazione coniugale.

 

 
 
 

SEPARAZIONE, RICONCILIAZIONE E...SEPARAZIONE!

Post n°51 pubblicato il 07 Dicembre 2007 da avvocatoxTE
 

Cari amici, vi sottopongo un caso interessante...

Una coppia, separatasi consensualmente, a distanza di tempo si riconcilia.

Tuttavia l'idillio non dura e si separa nuovamente, ma nel frattempo ha dato alla luce un bimbo.

Che succede in questo caso ?? Visto che la prima separazione è già stata omologata, la coppia può divorziare direttamente o no?

Preliminarmente, vi evidenzio che la legge italiana non prescrive particolari adempimenti nel caso in cui avvenga la riconciliazione tra due coniugi separati legalmente. Infatti, tale decisione non viene quasi mai pubblicizzata dalle parti.

L'art. 157 codice civile recita: "I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l'intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione. La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione."

Pertanto, qualora questa circostanza si realizzi, ma la coppia in un successivo momento decida di dividersi nuovamente, la procedura sarà quella di dar corso al divorzio in presenza, ovviamente, dei presupposti di legge e senza citare il periodo di riconciliazione.

Tuttavia, la questione che qui ci occupa è diversa, in quanto vi è la presenza di un minore nato durante la breve riconciliazione coniugale, traccia indelebile e circostanza determinante per la ripetizione della intera procedura di separazione ove dovranno essere disposti (alla presenza del pubblico ministero art. 70 cod. proc.civ.) tutti i provvedimenti per l'affidamento del minore avanti il tribunale di residenza di quest'ultimo (art.45 cod.civ.).

 
 
 

2^ mese di vita del blog

Post n°50 pubblicato il 02 Dicembre 2007 da avvocatoxTE
 

2° MESE DI VITA DEL BLOG

Cari amici,

siete stati, nei due mesi di vita di questo blog, ben   TREMILA  a visitare e leggere gli articoli, a chiedere consigli, a dare anche solo uno sguardo...

GRAZIE per la vostra fedelta' e la stima che ci dimostrate quotidianamente !!!

Ci auspichiamo di esservi sempre utili  e di darvi una mano ed un consiglio adeguato .....

Ricordate che c'è sempre un avvocatoXTE !!

G R A Z I E

Lo Staff di avvocatoXTE

 
 
 

ASCOLTO DEL MINORE NEI PROCESSI DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO

Post n°49 pubblicato il 30 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 
Tag: FIGLI

Più volte i clienti mi domandano se i propri figli minori possano essere ascoltati in giudizio per testimoniare le vessazioni ed i conflitti interni alla famiglia.

Quindi affronto oggi con piacere questo tema.

L’audizione dei figli minorenni da parte del giudice non era prevista dalla normativa sulla separazione, ma dalla legge sul divorzio, in cui era  previsto che il Presidente  li sentisse,  ove lo ritenesse “strettamente necessario, anche in considerazione della loro età” . 

La legge sull'affido condiviso (Legge n.54/2006) ha introdotto il nuovo art. 155 sexies, il quale prevede invece l’ascolto del minore come uno degli adempimenti del giudice che “dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento”.

L'ascolto dei minori non è pertanto un mezzo di prova processuale e l'audizione viene esperita dal giudice personalmente o chiedendo l'ausilio di esperti in psicologia dell'età evolutiva, o addirittura omessa quando, a causa di particolari circostanze, il giudice la ritenesse pregiudizievole per il minore.

Presso il Tribunale per i Minorenni,invece, l'ascolto dei minori viene quasi sempre osservato proprio per vedere rispettato il diritto del minore stesso nelle circostanze particolari di cui si tratta. Tuttavia, questa rappresenta una esperienza emotiva abbastanza difficile per il minore ed il Giudice dovrà essere bravo a decodificare i messaggi non verbali del minore, nonchè ad avere quella rigidità, ma anche quell'empatia tale da mettere a proprio agio il minore senza indebolirlo o rendendogli difficile l'esposizione dei fatti, quindi, con quella competenza emotiva e relazionale molto delicata.

E' bene sottolineare che l'ascolto del minore non è una prova, ed il minore non è un testimone nel processo e pertanto il giudice non può interrogarlo su fatti specifici della sua vita familiare ed alla sua audizione non assistono le parti e gli avvocati in modo da non rendere difficoltosa l'esposizione e mantenere la spontaneità delle dichiarazioni del minore.

L'audizione del minore nei processi di separazione e di divorzio ha il solo scopo di permettere al giudice di conoscere meglio il minore e valutare l'adeguatezza della sua decisione ai bisogni affettivi e relazionali del minore.

 
 
 

MOLESTIE DELL'EX FIDANZATO

Post n°48 pubblicato il 27 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Condannato per trattamento illecito di dati personali: pubblica su un sito web un video della ex fidanzata con il suo numero di telefono

Un uomo tempo fa ha diffuso su Internet, senza il consenso dell’interessata, immagini della ex fidanzata tratte da una videocassetta contenente un suo spogliarello,  pubblicando anche del suo numero di cellulare. La donna aveva scoperto il fatto dopo la ricezione di un SMS che le proponeva un incontro galante, cui era seguito l’invio di un plico postale contenente la scannerizzazione di un’immagine dello spogliarello tratta dal sito web di carattere pornografico nel quale era stato pubblicato il video

Così la Cassazione (sentenza n. 26680/2004) ha confermato la condanna che era stata inflitta in primo grado e in appello all'uomo, in quanto era stato riconosciuto colpevole,  dei reati di molestia e disturbo alle persone (art. 660 cod. pen.) nonché di trattamento illecito di dati personali ai sensi dell’allora vigente art. 35 della legge sulla privacy (L.675/1996).

La Cassazione, nell'esaminare il caso, ha rilevato l’entrata in vigore, dal gennaio 2004, del nuovo Codice della privacy, il quale ha riformulato il reato di trattamento illecito di dati, oggi disciplinato dall’art. 167 del provvedimento.

Il caso in esame riguarda la violazione della normativa posta a tutela dei dati sensibili, vale a dire quei dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

L’art. 167 del Codice della privacy prevede in proposito che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione delle norme poste a protezione dei dati sensibili, è punito con la reclusione da uno a tre anni, sempreché dal fatto derivi un nocumento per l’interessato (condizione obiettiva di punibilità).

E' risultato processualmente che l’imputato non avesse accettato la decisione della fidanzata di interrompere il legame sentimentale che li univa da circa due anni. Da tale momento egli aveva iniziato a inondare la donna di lettere quasi farneticanti, a tempestarla di messaggi telefonici sul cellulare, al punto di costringerla a cambiare per ben due volte la scheda telefonica, sebbene inutilmente, considerato che l’uomo era sempre poi riuscito a venire a conoscenza del nuovo numero. Inoltre l’imputato aveva conservato la videocassetta che ritraeva la donna mentre si esibiva in uno spogliarello nella sua camera da letto e pertanto solo lui aveva la possibilità e l’interesse a divulgare tali immagini nel sito web.

La Corte ha confermato la sussistenza del reato di illecita diffusione dei dati personali, essendo incontestabile che la donna ha ricevuto un nocumento dalla condotta dell’imputato, sotto forma di lesione della sua tranquillità e della sua immagine sociale, così come indubbia è, secondo la Corte, l’imputabilità dei fatti all’ex fidanzato.

Questa sentenza si rivela interessante anche sotto altro profilo, in quanto riconosce che la contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen. può essere posta in essere anche attraverso l’invio di SMS molesti, oltre che attraverso le usuali comunicazioni telefoniche vocali.

La Corte ha osservato, infatti, che anche gli SMS vengono trasmessi attraverso sistemi telefonici, che collegano tra loro apparecchi telefonici.Quanto poi alla capacità offensiva del messaggio, è notorio che, a differenza di quel che accade con lo strumento epistolare, il destinatario è costretto a leggerne il contenuto prima di poter identificare il mittente. Sicché quest’ultimo raggiunge lo scopo di turbare la quiete e la tranquillità psichica del destinatario, né più né meno di come lo raggiunge tramite la tradizionale comunicazione telefonica.

In altri termini, quel che la disposizione penale in parola ha voluto incriminare non è tanto il messaggio molesto che il destinatario è costretto ad ascoltare (per telefono), quanto ogni messaggio che il destinatario è costretto a percepire prima di poterne individuare il mittente, perché entrambi i tipi di messaggi mettono a repentaglio la libertà e tranquillità psichica del ricevente.

 

 
 
 

ALIMENTI O MANTENIMENTO?

Post n°47 pubblicato il 23 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Quante volte è successo anche a voi, direttamente o indirettamente ?

Capita spesso di confondersi parlando indifferentemente di ALIMENTI o MANTENIMENTO quando ci si riferisce all'assegno da versare mensilmente all'altro coniuge, anche in mancanza di prole, in caso di separazione o di divorzio.

Ebbene, questo assegno può avere una duplice natura, una parte si riferisce agli ALIMENTI ed un'altra al MANTENIMENTO.

Ma cosa significa in realtà?

Si parla di ALIMENTI   dovuti al coniuge ogni qual volta il coniuge separato non disponga di redditi propri e non sia in grado, per motivi a lui non imputabili, di procurarseli.Tale diritto agli alimenti spetta anche se al coniuge meno abbiente è stata addebitata la separazione per colpa; l’assegno alimentare, infatti, ha lo scopo non già di permettere uno stile di vita come quello goduto prima della crisi coniugale, bensì di assicurare anche alla parte economicamente molto debole i mezzi adeguati a condurre una vita dignitosa ( art. 156, comma 3 c.c.).
Il MANTENIMENTO  viene riconosciuto al coniuge a cui non sia imputabile la separazione ed ha lo scopo sostanziale di mantenere, per quanto possibile, immutato il tenore di vita antecedente la separazione (art. 156, 1°co. c.c.). Non riguarda, pertanto, i soli bisogni elementari, ma più in generale tutte quelle necessità di cui il coniuge poteva disporre o su cui poteva fare ragionevole affidamento. Anche in questo caso, in concreto, la determinazione viene fatta avuto riguardo comparativamente alle disponibilità dei redditi dei coniugi e dei loro tenori di vita e soprattutto della condizione economica in cui si trova il coniuge obbligato.

 
 
 

RICONOSCIMENTO TARDIVO FIGLIO NATURALE E ATTRIBUZIONE COGNOME

Post n°45 pubblicato il 20 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 
Tag: FIGLI

Cari amici, eccomi a voi per segnalarvi un altro interessante caso.

In molti mi domandano cosa succede  se il genitore decide di riconoscere tardivamente il proprio figlio naturale e se è possibile sostituire il proprio cognome paterno a quello della madre che per prima l’ha riconosciuto.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza 26 maggio 2006, n. 12641) si è pronunciata sull'argomento in questi termini, evidenziando e chiarendo l’esatta portata delle norme applicabili. Tutto parte dalla sentenza di rigetto del  Tribunale per i minorenni di Napoli in merito alla richiesta di un padre di attribuire al figlio naturale,nato da una relazione con una donna e da lui riconosciuto successivamente, il cognome paterno in sostituzione di quello della madre. Contro tale sentenza del Tribunale di Napoli ha proposto appello il padre. Tuttavia anche la Corte d'Appello sezione minorenni di Napoli  ha respinto la richiesta del padre in base alle seguenti considerazioni. Vi era stato un notevole intervallo temporale tra il riconoscimento materno, effettuato alla nascita del minore, e il successivo riconoscimento paterno, intervenuto con sentenza . Nelle more, il minore aveva maturato una propria identità personale essendo conosciuto nell'ambito scolastico e sociale con tale appellativo. Raggiunta una età che gli consentiva una certa capacità di discernimento, il minore aveva acquisito nelle relazioni interne ed esterne la consapevolezza dell'appartenenza al gruppo familiare della madre, per cui sarebbe stata sicuramente fonte di turbamento e disagio l'assunzione del cognome paterno sostituito o aggiunto a quello materno. Ulteriore elemento ostativo alla predetta attribuzione era la pessima reputazione posseduta nel ristretto ambiente di vita del minore e comuni limitrofi dall'avo paterno, noto esponente della criminalità organizzata locale. Nessuna utilità poteva derivare al minore dall’essere contrassegnato in società col cognome paterno e individuato, quindi, come il nipote di un camorrista. Tale discendenza non poteva non avere una ricaduta negativa nella stima in pubblico della figura paterna, pur immune da precedenti penali e pendenze giudiziarie.

Avendo il cognome la funzione di strumento identificativo della persona, di rilievo costituzionale, non era conforme all'interesse del minore l'attribuzione del cognome paterno. Contro tale decisione della Corte d'Appello, il padre ha proposto ricorso in Cassazione, evidenziando che la Corte d’Appello non aveva considerato gli svantaggi collegati al mantenimento del cognome materno e, in particolare, il disagio cui il minore sarebbe andato incontro, specie in età adolescenziale, per il fatto di portare il cognome della madre e di sapersi qualificato nel ristretto ambiente frequentato come figlio illegittimo; che il minore era ben consapevole di appartenere anche alla famiglia del padre e rammaricato di non portarne il cognome ancor più dopo la nascita di un fratellino,figlio anch’esso del papà e della di lui attuale compagna; che il minore ha diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, avendo il cognome la funzione, di rilievo costituzionale, di strumento identificativo della persona, obiettando, al riguardo, che, se esistesse il nesso di consequenzialità ipotizzato tra cognome assunto per primo e diritto del minore a mantenerlo, le opzioni di cui all’articolo 262 Cc (cognome del figlio) non avrebbero senso e la norma sarebbe inoperante, laddove è destinata a ricevere attuazione proprio in contesti in cui è già stato attribuito un cognome. Altra contraddizione della sentenza di appello consisterebbe nell’avere individuato, quale elemento ostativo all’attribuzione del cognome del padre, la cattiva reputazione dell’avo paterno. Tuttavia, proprio grazie all’intervento del Tribunale per i minorenni il minore si era ormai inserito nel nucleo del padre frequentandolo assiduamente, tanto da esserne ovunque e da chiunque ritenuto membro e pieno titolo. Peraltro, il cognome del padre risulta assai diffuso nell’ ambito territoriale di appartenenza del minore, sicché appare incoerente sostenere che il portarlo possa arrecargli pregiudizio.

La Suprema Corte di Cassazione esamina la questione e ritiene infondati i motivi di ricorso proposti dal padre ed osserva quanto segue. La interpretazione della norma di cui all’art. 262 Cc implica la necessità di considerare la funzione del cognome nel nostro ordinamento e di individuare la ratio dell’enunciato normativo.La Cassazione specifica che è dato ormai incontrovertibile che il cognome nel nostro ordinamento giuridico non svolge solo una funzione pubblicistica, tesa a offrire una tutela della famiglia consentendo ai suoi membri di essere identificati come appartenenti a un determinato nucleo familiare, ma assolve anche a una  fondamentale funzione di natura privatistica, quale strumento identificativo della persona. La protezione dell’identità personale, immancabilmente contraddistinta da peculiari connotati morali,culturali, ideologici, trova, infatti, il suo nucleo centrale nella tutela del nome, che viene considerato non tanto come mezzo necessario di individuazione del singolo nell’ambito dei soggetti di un ordinamento giuridico secondo principi normativi di interesse generale, quanto piuttosto nella sua corrente qualità di simbolo emblematico della identità personale di un individuo e quindi come aspetto, meritevole di protezione, della personalità umana.  Come è stato rilevato in dottrina, la tutela costituzionale del diritto al mantenimento del nome attribuito alla persona al momento della nascita in accordo con le norme di legge deve ritenersi assoluta.Continua la Cassazione sottolineando che, nel caso di filiazione naturale, non essendovi una famiglia legittima da tutelare, il cognome del figlio assolve quanto meno in prevalenza  alla funzione privatistica, in virtù della quale il cognome è una componente dell’inviolabile diritto di ciascun uomo ad avere una propria identità personale (articoli 2 e 22 Costituzione).Dalla stretta connessione tra cognome e status familiare discende che ogni mutamento del secondo sia destinato, di regola, a riflettersi sul primo. Tuttavia, il passaggio da una concezione del cognome quale mero segno di identificazione della discendenza familiare a una visione che lo inquadra tra gli elementi costituivi del diritto soggettivo all’identità personale, intesa come un bene a sé,

indipendente dallo status familiare, ha progressivamente sganciato le sorti del cognome dalla titolarità di una determinata posizione all’interno della famiglia.Questa evoluzione è sfociata in alcune significative decisioni della Corte costituzionale, la quale, da  ultimo, con sentenza 120/01 ha giudicato costituzionalmente illegittimo l’art. 299 comma 2 Cc,per contrasto con l’art. 2 Costituzione, nella parte in cui non prevede che, qualora sia figlio

naturale non riconosciuto dai propri genitori, l’adottato (maggiorenne) possa aggiungere al

cognome dell’adottante anche quello originariamente attribuitogli dall’ufficiale di stato civile,sottolineando che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo. Già in precedenza, però, con la sentenza 13/1994, la Corte aveva sancito la illegittimità costituzionale dell’art. 165 del Rd 1238/39, per violazione dell’art. 2 costituzione, nella parte in cui non prevede che, quando la rettifica degli atti dello stato civile, intervenuta per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto cui si riferisce, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo sia da ritenersi acquistato come autonomo segno distintivo della sua identità personale. Essa ha, cioè, riconosciuto che il cognome gode di una distinta tutela anche nella sua funzione di strumento identificativo della persona e che, in quanto tale, costituisce

parte essenziale e irrinunciabile della personalità. Si tratta poi, di tutela di rilievo costituzionale perché il nome, che costituisce il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale, è riconosciuto come bene oggetto di autonomo diritto, riconducibile nell’ambito dell’articolo 2 Costituzione. Riprendendo tali concetti, la stessa Corte, con sentenza 297/96, intervenendo proprio sull’articolo 262 Cc, h a dichiarato incostituzionale tale norma laddove non prevede che il soggetto dichiarato alla nascita figlio di ignoti e successivamente riconosciuto da uno dei genitori possa conservare, anteponendolo o aggiungendolo al nuovo cognome, quello originariamente attribuitogli

dall’ufficiale dello stato civile ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale. Questa decisione ha portato a completamento il disegno del legislatore del 1975, che aveva già modificato l’articolo 262, comma 2 Cc, stabilendo evidentemente nell’intento di garantire, nella conservazione del cognome, il profilo identificativo della persona e non quello identificativo della discendenza familiare che il figlio naturale maggiore d’età, riconosciuto dal padre solo successivamente al riconoscimento da parte della madre, non assumesse più automaticamente il cognome paterno, ma potesse scegliere se aggiungerlo o sostituirlo a quello materno.Secondo il giudice delle leggi, quindi, per i figli nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre immediatamente o comunque contemporaneamente alla madre, non solo è esclusa per legge l’automatica imposizione del cognome paterno (articolo 262 Cc) ma deve essere riconosciuta al cognome già acquisito dal figlio, anche se non conforme al rapporto di filiazione, una propria autonoma tutela quale segno distintivo dell’identità personale fino ad allora da lui posseduta nell’ambiente in cui vive.Sulla scia di tale principi, incentrati sull’interesse anche del minore di mantenere il proprio cognome, qualora sia divenuto segno distintivo della personalità, la Cassazione (sentenza 6098/01), in una fattispecie in cui il padre, dopo avere legittimato per provvedimento del giudice il figlio naturale successivamente alla madre, aveva chiesto di attribuirgli il proprio cognome, ha statuito che, ai fini della deliberazione di una simile domanda ai sensi dell’articolo 262 Cc (applicato analogicamente alla controversia), deve valutarsi l.interesse esclusivo del minore, avuto riguardo al di lui diritto alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell’ambiente in cui è  vissuto, nonché a ogni altro elemento di valutazione suggerito dal caso concreto, esclusa qualsivoglia utomaticità.

Già da queste prime notazioni è evidente come diversamente da quanto opina il ricorrente, la ratio dell’articolo 262 Cc non va rintracciata nell’esigenza di rendere la posizione del figlio naturale quanto più simile possibile a quella del figlio legittimo ovvero sia di parificare la filiazione naturale a quella legittima privilegiando per tale via l’assunzione del cognome paterno quale quello che, da un punto di vista sociale, non rende riconoscibile lo stato di figlio naturale, ancora ritenuto in molti ambienti svantaggiato: ratio della norma è invece garantire l’interesse del figlio a conservare o a non cambiare il cognome con cui è ormai conosciuto nell’ambito delle proprie relazioni sociali. La corte di Cassazione ribadisce che in sede di applicazione dell’articolo 262, comma 2 Cc, si deve partire dal presupposto, innucleato nella ratio della norma, che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo, avente copertura costituzionale assoluta. Nell’operare la valutazione richiestagli dall’enunciato normativo, il giudice deve prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome, ma deve avere riguardo all’identità personale posseduta dal minore nell’ambiente in cui è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre. A tutela dell’eguaglianza fra i genitori, il giudice non dovrà autorizzare l’assunzione del patrimonio (non soltanto ove ne possa derivare danno per il minore, ma anche) allorquando il cognome materno si sia radicato nel contesto sociale in cui il minore si trova a vivere, giacché precludergli il diritto di mantenerlo si risolverebbe in un’ingiusta privazione di un elemento della sua personalità, tradizionalmente definito come il diritto .a essere se stessi.Il provvedimento deve, quindi, tutelare l’interesse del minore . non necessariamente coincidente con quello del’uno o dell’altro genitore alla propria identità. Il giudice può e deve ricercare di ufficio i dati

informativi per conoscere l’interesse del minore; la relativa valutazione ha connotati di ampia discrezionalità, non trovando limitazione neppure nella volontà favorevole o contraria del minore medesimo. Nessuna violazione dell’articolo 262 Cc è quindi ascrivibile alla Corte d’Appello.La Cassazione sottolinea che il giudice di appello coerentemente e congruamente ha argomentato che: prima di essere tardivamente riconosciuto dal padre il piccolo, di vivace intelligenza e assai socievole, aveva preso consapevolezza della sua identificazione cognominale, frequentando le organizzazioni educative scolari, egli aveva maturato una precisa identità personale per il fatto di essere conosciuto nella cerchia sociale dove è vissuto con il cognome materno; in questo contesto, una mutazione del cognome sarebbe stata di nocumento alla serena ed equilibrata crescita psicofisica del minore e alla sua vita di relazione; ulteriore elemento ostativo alla chiesta attribuzione del patronimico era la cattiva fama goduta nel ristretto ambito territoriale di appartenenza del minore dell’avo paterno per via delle sue imprese criminali, quale noto esponente della criminalità organizzata locale, che gli avevano comportato condanne per complessivi dieci anni di reclusione e otto di soggiorno obbligato; era contrario all’interesse del minore il potere essere additato come nipote di un camorrista. Osserva la Cassazione che del tutto inconferente, per le ragioni in precedenza svolte su ratio e portata esegetica dell’articolo 262 Cc, si rivela la deduzione del presunto disagio psicologico in cui il minore sarebbe venuto a trovarsi per avere una connotazione cognominiale non corrispondente a quella della discendenza patri-lineare propria dell’assetto familiare e rivelatrice dello stato di figlio illegittimo. L’interesse del figlio nato fuori dal matrimonio che la norma intende salvaguardare non è quello di avere un’apparenza di filiazione regolare, ma di conservare (o di non mutare) il cognome originario se questo sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale in una determinata comunità. Pertanto, la Cassazione, in definitiva, rigetta il ricorso .

* * * * * *

Quindi, dopo la lunga narrazione di questa sentenza della Suprema Corte, qualora il padre –che tardivamente riconosce un figlio naturale- voglia mutare il cognome del figlio attribuendogli il proprio al posto di quello materno, il Giudice dovrà avere riguardo a CONSERVARE IL COGNOME ORIGINARIO DEL FIGLIO SE QUESTO E’ SEGNO DISTINTIVO DELLA IDENTITA’ PERSONALE NELLA COMUNITA’.

 
 
 

DISCONOSCIMENTO DI PATERNITA'...prova dell'adulterio

Post n°44 pubblicato il 14 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 
Tag: FIGLI

La disciplina concernente il DISCONOSCIMENTO DI PATERNITA' è contenuta nell'art. 235 codice civile, il quale stabilisce che l'azione per il disconoscimento di paternità del figlio concepito durante il matrimonio è consentita solo nei casi seguenti:
-se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso fra il 300ntesimo ed il 180ntesimo giorno prima della nascita;
-se durante il tempo predetto il marito era affetto da impotenza, anche se soltanto di generare;
-se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito la propria gravidanza e la nascita del figlio.

In tali casi il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibile con quello del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità.
L'azione di disconoscimento può essere esercitata anche dalla madre o dal figlio che ha raggiunto la maggiore età in tutti i casi in cui può essere esercitata dal padre

Nel corso degli anni si è dibattuto molto su un punto cruciale e cioè se nel giudizio di disconoscimento per adulterio della moglie, è necessario produrre la sola prova legale - esame DNA- oppure occorre dimostrare  l’avvenuto atto di adulterio?

Quest'anno, la Cassazione -con la sentenza n. 1610 del 24/01/2007- discostandosi dai precedenti orientamenti giurisprudenziali in materia, ha statuito per la rilevanza della prova tecnica esame del DNA idonea all’accertamento che il figlio presenti caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre.

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte.

Tizio, con atto di citazione, proponeva azione di disconoscimento ex art. 235, c.c. nei confronti di Caia, deducendo che la stessa fosse nata dalla relazione adulterina della moglie Sempronia con un altro uomo. Il Tribunale di Roma respingeva la domanda di Tizio, in quanto la prova ematologica e genetica dallo stesso offerta nell’atto introduttivo e provata, non era stata preceduta dalla prova dell’adulterio di Sempronia. A seguito di ciò, Tizio proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale che, tuttavia, veniva rigettato. Successivamente, Tizio adiva la Corte di cassazione, la quale nel richiamare la pronuncia della Consulta Corte costituzionale n. 266/2006, ribadivano che oramai le prove genetiche ed ematologiche consentono di rilevare l’avvenuto adulterio e, pertanto, essendo difficile la prova fattuale dell’adulterio, non è più necessario, la previa escussione di quest’ultima prova . Così statuito, i giudici di legittimità cassavano la sentenza impugnata e rinviavano la questione ad altra sezione della Corte d’appello, affinché riesaminasse la questione.

(Corte Costituzionale sentenza n. 266 del 2006 : "La Corte costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 235, comma 1, numero 3, del Cc, nella parte in cui, ai fini dell’azione di disconoscimento della paternità, subordina l’esame delle prove tecniche, da cui risulta «che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre», alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie" )

 
 
 

VENDITA IMMOBILE COMUNE però...

Post n°43 pubblicato il 11 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Con piacere vi sottopongo questo problema, molto contrastato ed ora recentemente risolto dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite 24 agosto 2007 n. 17952

Cosa succede se soltanto 1 dei coniugi decide di vendere un immobile di proprietà di entrambi (quindi che ricade in comunione) e poi ci ripensa, dando luogo ad un inadempimento contrattuale?

Innanzitutto, visto che manca il consenso o la partecipazione dell'altro coniuge, l'acquirente dell'immobile che vuole fare  causa dovrà citare avanti il Tribunale anche il coniuge rimasto estraneo al contratto, in qualità di litisconsorte necessario.
Al contrario, il giudizio celebrato in assenza del coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare deve ritenersi nullo e pertanto l'azione va riproposta in primo grado ed a contraddittorio integro.

Pertanto il coniuge rimasto estraneo al negozio giuridico (il preliminare di vendita dell'immobile) ha interesse a partecipare al giudizio in quanto, pur se non è rimasto personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, tuttavia l'impegno assunto da quest'ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia.

 
 
 

ASSEGNAZIONE CASA CONIUGALE  E FIGLI...

Post n°42 pubblicato il 07 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Cari amici, vi sottopongo una questione già affrontata l'11/10/07 concernente la casa familiare ed i figli su cui la Cassazione si è pronunciata con questa sentenza appena pubblicata.....

Con questa sentenza ( sentenza n.20688 del 2007) la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che la disciplina dell'assegnazione della casa familiare prevede che i soggetti alla cui tutela è preordinata l'assegnazione siano figli di entrambi i coniugi ai quali sia riferibile la disponibilità, in via esclusiva o in comproprietà, della casa coniugale.

Questi i fatti.

Con sentenza di divorzio pronunciata tra i coniugi I. C. e T. L., il Tribunale di Bergamo disponeva l'affidamento del figlio M., di sedici anni, alla madre e l'assegnazione alla stessa della casa familiare (di proprietà comune), nonché l'obbligo del padre di corrispondere per il ragazzo un assegno mensile di lire 500.000. A causa dei contrasti esistenti tra il figlio M. e il nuovo compagno della madre, dalla cui unione era nato un altro figlio, il primo lasciava la casa materna, trasferendosi a casa del padre. A seguito della mutata situazione, il padre chiedeva al Tribunale di Bergamo l'affidamento del figlio e conseguentemente l'assegnazione della casa coniugale, nonché la corresponsione da parte della madre di un assegno mensile di euro 500,00 per il mantenimento del figlio.

Il Tribunale di Bergamo disponeva l'affidamento del figlio M. al padre, assegnandogli la casa familiare e disponendo a carico della madre un assegno di mantenimento di euro 200,00 mensili.

Avverso tale provvedimento proponevano reclamo sia il padre che la madre., chiedendo, il primo, l'aumento dell'assegno e la seconda la riduzione dell'assegno stesso, nonché la modifica del provvedimento concernente l'assegnazione della casa familiare.

La Corte d'appello di Brescia rigettava entrambi i reclami.

Quanto alla questione dell'assegnazione della casa familiare, la Corte rilevava che l'art. 6, comma 6, della legge n. 898 del 1970 consente l'assegnazione dell'ex casa coniugale al genitore affidatario, dovendosi escludere che la norma possa trovare applicazione nel caso in cui il minore sia figlio di uno solo dei coniugi divorziati. La madre, pertanto, non poteva invocare detta norma per pretendere l'assegnazione della casa coniugale adducendo la propria convivenza con il figlio minore nato da persona diversa dall'ex coniuge. Ed anzi, la norma doveva trovare applicazione in favore del padre, in quanto coniuge affidatario del figlio comune M..

Quanto all'entità dell'assegno, la Corte rilevava che la somma posta a carico della madre dal Tribunale per il mantenimento del figlio M. era congrua e proporzionata alle attuali capacità economiche della madre stessa. 

Dunque, la legge italiana consente l'assegnazione dell'abitazione coniugale in sede di divorzio all'altro coniuge, solo alla condizione dell'affidamento a quest'ultimo di figli minori o della convivenza con esso di figli maggiorenni ma non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri. In assenza di tali condizioni, coerenti con la finalizzazione dell'istituto alla esclusiva tutela della prole e del relativo interesse alla permanenza nell'ambiente domestico in cui essa è cresciuta, l'assegnazione medesima non può essere disposta in funzione integrativa o sostitutiva dell'assegno divorzile, ovvero allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge ritenuto economicamente più debole, a garanzia delle quali è destinato unicamente l'assegno anzidetto.

La  situazione non muta quando, come in questo caso, con il coniuge divorziato che richieda detta assegnazione conviva un figlio minore che non sia anche figlio dell'altro coniuge, ma di una persona diversa. La disciplina dell'assegnazione della casa coniugale prevede che i soggetti alla cui tutela è preordinata l'assegnazione siano figli di entrambi i coniugi ai quali sia riferibile la disponibilità della casa coniugale.

Sul piano del rapporto di filiazione e delle norme ad esso relative:

- l'art. 261 cod. civ. enuncia il fondamentale principio in forza del quale il riconoscimento del figlio naturale comporta, da parte del genitore, l'assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi;

-con la riforma del diritto di famiglia del 1975, il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti tra genitori e figli (legittimi e naturali riconosciuti), identico essendo il contenuto dei doveri, oltreché dei diritti, degli uni nei confronti degli altri, e la condizione giuridica dei genitori tra di loro, in relazione al vincolo coniugale, non può determinare una condizione deteriore per i figli, poiché quell'insieme di regole, che costituiscono l'essenza del rapporto di filiazione e che si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, derivante dalla qualità di genitore, trova fondamento nell'art. 30 Cost., il quale richiama i genitori all'obbligo di responsabilità;

-il valore costituzionale di tutela della filiazione trova fondamento nelle disposizioni previste dagli artt. 147 e 148 cod. civ., che, in quanto complessivamente richiamate dal successivo art. 261 c.c., devono essere riguardate nel loro contenuto effettivo, indipendentemente dalla menzione legislativa della qualità di coniuge, trattandosi dei medesimi doveri imposti ai genitori che abbiano compiuto il riconoscimento dei figli naturali;

-l'obbligo di mantenimento della prole, sancito dall'art. 147 cod. civ., comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e segnatamente, tra queste, la predisposizione e la conservazione dell'ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio.

- l'interpretazione dell'art. 30 Cost. in correlazione agli artt. 261, 146 e 148 cod. civ.,  impone che l'assegnazione della casa famiglia nell'ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio (=convivenza), allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve regolarsi mediante l'applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale prevede che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status. 

Quindi la Corte condanna la madre al pagamento, in favore del padre, dell'assegno per il mantenimento del figlio M., nella misura stabilita, dalla data della domanda proposta dal padre. 

 
 
 

1° MESE DI VITA DEL BLOG

Post n°41 pubblicato il 05 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Cari amici,

siete stati nel primo mese di vita di questo blog ben   DUEMILA  a visitare e leggere gli articoli, a chiedere consigli, a dare anche solo uno sguardo...

GRAZIE per la vostra fedelta'davvero...spero di aiutarvi sempre nel migliore dei modi e di darvi un consiglio adeguato ed utile.

Ricordate che comunque avete sempre un avvocato x amico!!

 
 
 

CHI PAGA GLI ALIMENTI ...

Post n°39 pubblicato il 03 Novembre 2007 da avvocatoxTE
 

Carissimi amici,

eccomi per sottoporvi qualcosa di interessante...

Se un fratello che non ha possibilità di mantenersi, essendo inabile, rimane senza mezzi di sostentamento chi è tenuto a mantenerlo??

Nell'ordine ecco gli obbligati dalla legge:

     1) il Coniuge
     2) i Figli
     3) i Genitori
     4) i Generi
     5) i Suoceri
     6) i Fratelli.

 
 
 
 
 

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