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campi flegrei

Post n°27 pubblicato il 29 Novembre 2009 da stellina20092


Un'immagine dell'area Campana, con le aree vulcaniche dei Campi Flegrei, Ischia, Procida e il Vesuvio (foto NASA)

 


 

 

1 - LE ERUZIONI PREISTORICHE
L'ampia area dei Campi Flegrei descrive già con il nome, che deriva dal greco e significa campi ardenti, la sua caratteristica principale. Tutta la zona, infatti, è vulcanica, ma con una struttura piuttosto singolare, almeno per chi si aspetta un vulcano con la forma di cono troncato.

Un'immagine settecentesca dei Campi Flegrei con il lago nel cratere di Agnano, prosciugato all'inizio del '900.
Al contrario, qui si trova una superficie ribassata, ampia circa 12x15 km, che forma un semicerchio bordato da numerosi coni e crateri vulcanici, prevalentemente formatisi ognuno nel corso di una sola eruzione.


L'area dei Campi Flegrei con le principali strutture vulcaniche (mod. dal sito www.ov.ingv.it)


 

 

Le aree vulcaniche di questo tipo, di forma più o meno rotonda e sprofondate rispetto al territorio circostante, sono chiamate in vulcanologia caldere. Le caldere si formano dopo violente eruzioni, nel corso delle quali sono emessi rapidamente volumi di magma tali da causare collassi, a profondità di decine di km, che si propagano fino alla superficie.

Panoramica dei Campi Flegrei da Sud-Ovest. In primo piano Capo Miseno
Il fondo di una caldera può avere ulteriori sprofondamenti muovendosi lungo le fratture che lo delimitano e che diventano la via di risalita del magma per le eruzioni successive. Nuovi accumuli di magma in profondità, e di gas che da questo si liberano, possono rigonfiarlo senza dar luogo ad eruzioni, provocando movimenti del suolo che prendono il nome di bradisismo.



Il Castello di Baia.

L'attività vulcanica dei Campi Flegrei iniziò in corrispondenza dell'odierna area di Cuma intorno a 50-45.000 anni fa. Eruzioni molto violente che, fortunatamente, in epoche più vicine al presente non si sono più ripetute con quelle dimensioni, colpirono i primi uomini che, fin dalla più lontana preistoria, già occupavano queste terre.

Il rilievo di Cuma, sul quale sorse l'insediamento greco, è formato dai prodotti delle eruzioni più antiche (circa 50.000 anni fa). In primo piano, prodotti di un'eruzione successiva, il Tufo Giallo Napoletano (12-15.000 anni fa).
La presenza di insediamenti stabili in un territorio così inospitale può sembrare impossibile, ma i ritrovamenti archeologici dimostrano che diversi nuclei umani sfidarono fin da allora la violenza della natura. Gli approdi riparati dai venti, la terra fertile, il clima mite e i numerosi promontori adatti all'avvistamento dei nemici erano vantaggi che a quei tempi probabilmente compensavanole calamità naturali.

La strada dell'insediamento greco sulla rupe di Cuma.
Inoltre, le eruzioni, per quanto improvvise e devastanti, avevano tempi diversi da quelli umani e, tra un evento e l'altro, intere generazioni potevano prosperare, costruendo le basi per lo sviluppo di un'area destinata a diventare il centro vitale del Mediterraneo.

Il promontorio di Capo Miseno, un cono vulcanico sezionato dall'erosione

I prodotti vulcanici creavano alterne condizioni di vita e, pur cancellando ogni cosa al loro passaggio, diventavano poi terreni eccezionalmente fertili che si coprivano di folta vegetazione. Questa era una circostanza determinante quando il sostentamento derivava esclusivamente dalle risorse del territorio e, nonostante le ripetute distruzioni, l'uomo si è sempre reinsediato in tempi relativamente brevi in questi luoghi.

I resti di un cono vulcanico formano l'isola di Nisida

Così deve essere successo nel Paleolitico, dopo che una serie di eruzioni di straordinaria violenza, il cui evento principale è datato intorno a 37-40.000 anni fa, ricoprì tutta la Piana Campana di prodotti vulcanici.

Una cava d
i Ignimbrite Campana vicino Caserta
L'eruzione ebbe fasi esplosive nel corso delle quali si formarono enormi flussi di pomici e ceneri che, spinti dai gas, scivolarono sul terreno e si allargarono fino agli Appennini. Questi prodotti col tempo si compattarono fino a diventare una roccia leggera e resistente, chiamata Tufo Grigio o, più propriamente, Ignimbrite Campana.

L'Ignimbrite Campana nei pressi di Lauro, in provincia di Avellino.
I flussi furono preceduti da una colonna eruttiva, alta almeno 35-40 km, a giudicare dall'esteso manto di pomici che si trova alla base dell'Ignimbrite Campana e sul fondo di tutto il Mediterraneo orientale. In base alla quantità di prodotti, il cui spessore varia fra i 20 e i 60 metri, il volume di magma emesso nel corso dell'eruzione è stimato in circa 100 km3. Ancora non c'era il Vesuvio e forse nemmeno l'ampio vulcano del Monte Somma, i cui resti ora circondano il suo cono.

Le due linee tratteggiate indicano lo strato di pomici alla base dell'Ignimbrite Campana.


 

L'evoluzione da colonna eruttiva sostenuta a flussi piroclastici è frequente nelle eruzioni esplosive quando cresce il tasso di emissione (cioè la quantità di materiale che esce dal cratere in un'unità di tempo) e la miscela eruttiva diventa così densa da non riuscire a salire verso l'alto. In queste condizioni, le pomici, i pezzi di roccia, la cenere e il gas che escono dalla bocca del vulcano formano un'impetuosa e torrida fiumana che scorre rasentando il terreno.

Schema del meccanissimo di collasso di una colonna eruttiva sostenuta e formazione dei flussi piroclastici.

I flussi dell'Ignimbrite Campana devono essere stati immani e la loro energia di propagazione tanto elevata da poter superare rilievi alti 800 m, arrivando al di là della penisola Sorrentina e nella piana di Salerno. In alcuni casi, dopo essersi depositati sui pendii, i prodotti rifluirono verso il basso, riempiendo intere vallate e spianando un vasto territorio.

L'Ignimbrite Campana lungo nella valle del fiume Garigliano, circa 50 km a Nord dei Campi Flegrei.
Nel paesaggio lunare lasciato dall'eruzione, i fiumi che scendevano dall'Appennino furono costretti a scavarsi un nuovo corso, iniziando con la loro opera di erosione a rimodellare il paesaggio. Per raggiungere il livello del mare, i fiumi incisero la costa con profondi valloni, ancora riconoscibili nella zona di mare davanti al golfo.

Il porto di Miseno, nei Campi Flegrei e, sullo sfondo, Procida e Ischia.
Dopo l'eruzione dell'Ignimbrite Campana, l'attività vulcanica si distribuì su una zona che comprendeva, oltre ai Campi Flegrei, anche le aree di Procida e di Napoli. Tra Procida e Monte di Procida, dove ora vi sono due chilometri di mare, le eruzioni iniziarono circa 40.000 anni fa, in corrispondenza dell'isolotto di Vivara.

L'isola di Vivara.
Del vulcano di Vivara non rimane che parte del cratere a formare la piccola isola a mezzaluna, in cui si vede una successione di prodotti tipici delle esplosioni causate dal contatto fra magma e acqua.

L'isola di Procida e, in alto al centro, l'isolotto di Vivara.
Successive a quelle di Vivara furono due eruzioni di lava viscosa che formarono Punta Ottimo (a Procida) e S. Martino (a Monte di Procida).

L'isolotto di S. Martino.
Nello stesso periodo avvennero le deboli esplosioni che costruirono il cono di scorie di Monte Grillo (a Monte di Procida) e le eruzioni del vulcano di Punta Serra (a Procida).

La falesia di Monte di Procida verso Miliscola.
Un evento esplosivo più violento (eruzione di Fiumicello) avvenne a Procida circa 31.000 anni fa. Ceneri e piccole scorie scure, trasportate da flussi turbolenti e ricchi in gas, coprirono l'isola e arrivarono fino a Monte di Procida.

La freccia indica i prodotti dell'eruzione di Fiumicello visibili sulla falesia di Acquamorta a Monte di Procida.
Intorno a 27.000 anni fa, una fase di deboli eruzioni esplosive è testimoniata da strati di scorie, visibili sull'isolotto di S. Martino e lungo la falesia di Monte di Procida. Nell'area di Procida, l'attività terminò circa 17.000 anni fa con esplosioni che coprirono di cenere giallastra buona parte dell'isola, la vicina Vivara e arrivarono fino alla costa di Monte di Procida (eruzione di Solchiaro). Sulla terraferma, le eruzioni successive avvennero circa 14.000 anni fa nei pressi di Torregaveta

La sovrapposizione dei prodotti vulcanici lungo la costa orientale dell'isola di Procida.
Il territorio subiva continui e rapidi cambiamenti ad ogni eruzione. A questo si aggiungevano le lente variazioni del livello del mare, causate soprattutto dall'alternarsi di periodi interglaciali, climaticamente simili a quello odierno, a epoche glaciali in cui le calotte polari si espandevano fino a latitudini ora temperate.

Panoramica del Golfo di Pozzuoli verso Capo Miseno.
Durante l'ultima fase di espansione dei ghiacciai, circa 18.000 anni fa, il mare raggiuse picchi di 85 metri al di sotto dell'attuale e i prodotti vulcanici coprirono terre, con probabili forme di vita, più ampie di quelle odiere, poi tornate nuovamente sott'acqua.

Ricostruzione della possibile linea di costa nell'area campana nel corso dell'ultima glaciazione.

La linea di costa poteva essere spostata al largo di 2-3 km nella parte meridionale del golfo di Napoli e forse tra i 5-10 km in corrispondenza dei Campi Flegrei, in modo che la penisola Sorrentina risultava riunita a Capri, e si estendeva a Nord in maniera continua fino all'isola d'Ischia.

Le isole di Ischia e Procida e i Campi Flegrei sullo sfondo.
Il ritorno a condizioni climatiche più miti e il progressivo sciogliersi dei ghiacciai, ripristinarono l'afflusso al Mediterraneo di grossi corsi d'acqua. Favorito anche dai movimenti della crosta terrestre, il livello del mare tornò lentamente intorno alla posizione odierna.

La zona occidentale del Golfo di Napoli, in località Marechiaro, formata dai prodotti dell'eruzione del Tufo Giallo.
Intorno a 12.000-15.000 anni fa, un evento di dimensioni catastrofiche sconvolse nuovamente la regione. Seppure di volume inferiore (tra 20 e 50 km3 di prodotti, distribuiti su un'area di circa 350 km2) rispetto all'Ignimbrite Campana, l'eruzione deve aver modificato profondamente la morfologia e l'ambiente di tutta l'area, modellando il Golfo di Napoli più o meno nella forma che conserva tutt'ora.

Il Tufo Giallo Napoletano (sopra la linea tratteggiata) sul bordo orientale della caldera flegrea. In alto a sinistra, gli edifici della città di Napoli.

Anche in questo caso, forse non si trattò di un solo evento, ma di una successione di diverse esplosioni che provocarono ondate di flussi di cenere. I prodotti coprirono tutta l'area dove ora sorge Napoli, formando i rilievi della collina di Posillipo e del Vomero e, con il tempo, diventarono una roccia compatta, chiamata Tufo Giallo Napoletano.

Il Tufo Giallo Napoletano contro il rilievo della collina di Cuma.
La grande quantità di Tufo Giallo presente oltre il bordo orientale della caldera, indicherebbe che i flussi provenivano da una zona dei Campi Flegrei spostata in quella direzione.

Il Tufo Giallo Napoletano tra Napoli e Nisida. La freccia indica la villa imperiale Pausylipon del I sec. a.C.
Verso Ovest, si accumularono sopra i prodotti delle eruzioni di Torregaveta e a Nord finirono contro e sulla collina di cuma.

 
Nella falesia di Torregaveta il Tufo Giallo si appoggia sopra la Breccia Museo e i tufi di Torre Gaveta.

E' probabile che proprio la rapida emissione della grande quantità di magma avvenuta nel corso dell'eruzione del Tufo Giallo abbia causato, o accentuato, lo sprofondamento della parte centrale dei Campi Flegrei. Le rocce che racchiudevano il serbatoio magmatico, in parte lasciato vuoto dall'eruzione, si fratturarono e collassarono, innescando ribassamenti in profondità che si propagarono fino alla superficie.

Il Tufo Giallo Napoletano (frecce) a Torregaveta.
L'eruzione fece tabula rasa di ogni forma di vita, ma nello stesso tempo creò i presupposti per la straordinaria avventura di una regione che l'attività vulcanica rendeva invivibile e che poi, in tempi relativamente brevi, restituiva più generosa di prima. Le terre devastate dalle eruzioni furono occupate in successione da vari popoli che si contesero un territorio tanto fragile quanto ricco di risorse.

Una parete di Tufo Giallo tra le case di Posillipo

Non sorprende, però, che l'uomo sia tornato nel cuore dei Campi Flegrei molto tempo dopo l'eruzione del Tufo Giallo, essendo l'area compresa tra Monte di Procida, da un lato, e le colline di Posillipo dall'altro, rimasta dopo la formazione della caldera al di sotto del livello del mare. Il golfo di Pozzuoli, i promontori e le insenature che vediamo ora, si delineeranno solo in seguito ad una successiva serie di eruzioni avvenute lungo i bordi della depressione.

Da Capo Miseno, un cono sezionato dall'erosione, si dominano i golfi di Pozzuoli e di Napoli.
I numerosi coni, più recenti del Tufo Giallo, che punteggiano il bordo della caldera, seguono l'andamento delle fratture lungo le quali avvenne il collasso dell'area e che sono diventate, negli ultimi 10.000 anni, le vie seguite dal magma per arrivare in superficie.

Il cratere di Monte Spina, in primo piano, e quello di Agnano, con l'ippodromo all'interno. Sullo sfondo il bordo della caldera e gli abitati di Pianura, a sinistra, e Soccavo, a destra.
Quindi, nel periodo che rappresenta l'inizio e lo sviluppo del Neolitico, fino all'Eneolitico, il territorio dei Campi Flegrei era soggetto a profonde trasformazioni e poco adatto agli insediamenti umani. Solo intorno a 5000 anni fa il golfo assumerà una conformazione tale da consentire il tranquillo sviluppo di agglomerati, i quali rimasero tuttavia soggetti a sporadici eventi vulcanici di portata minore.

Il canale di Procida e Capo Miseno in primo piano. In alto a destra si vede Monte di Procida e, di fronte, Procida e Ischia in lontananza.


 

La morfologia dei Campi Flegrei presenta due depressioni quasi concentriche, considerate la conseguenza delle eruzioni esplosive dell'Ignimbrite Campana, la più ampia, e del Tufo Giallo quella più interna. L'esistenza o meno di un doppia caldera è un problema discusso da decenni tra i vulcanologi
La morfologia dei Campi Flegrei presenta due depressioni quasi concentriche, considerate la conseguenza delle eruzioni esplosive dell'Ignimbrite Campana, la più ampia, e del Tufo Giallo quella più interna. L'esistenza o meno di un doppia caldera è un problema discusso da decenni tra i vulcanologi

 

 

 

 
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