mi querido

Il ritorno


Antonio mi ospita nella sua casa di San Telmo. La chiama casona, io la definirei una casa chorizo, quelle della  borghesia dei primi '900 nel barrio più antico di Buenos Aires che ha ancora tante strade lastricate e un'impronta coloniale. Antonio è nato qui e qui è rimasto. Era avvocato penalista, ora fa il fotografo ma non si fa pagare. Se ne sta quasi sempre in casa, seduto davanti al Mac o in poltrona a leggere. A volte sbircio questa immagine immobile e mi pare di averla già vista in un film o più di uno. Adoro il patio di questa casa, dove mangiamo di giorno e di sera anche se ora fa freschino, improvvisando, un po' come tante cose qui che non ti viene neppure in mente di programmare. Il patio è piccolo, quadrato, con un pezzetto di cielo sopra la testa che sembra voler oltrepassare l'alto muro. In Italia mi sento chiusa. In effetti lo sono. In Italia è chiusa la finestra, chiusa la gente, chiusi sono i quartieri, chiusi anche i paesi, meravigliosi, che abbiamo. Qui è tutto aperto, anche se si danno triple mandate a triple porte, se ci sono le reti ai balconi e ai piani bassi nemmeno si aprono le persiane per la paura che ti entrino dentro. Qui si cmmina guardando per terra per non inciampare nelle radici degli alberi che ronpono le strade o nelle mattonelle che sono rotte da quando le ho viste la prima volta, nel 2004. Qui si aprono gli occhi per schivare la ruota di un collettivo disposto a salirti sul piede pur di non spostarsi di un centimetro. Qui, più che gli scippi, mi terrorizzano le auto che non accennano nemmeno a rallentare se attraversi sulle strisce pedonali, i ferri rotti che sporgono dai muri, i buchi nelle mattonelle, nell'asfalto, nel cemento, i sanpietrini disconnessi e sporgenti, i lavori perenni ogni dove senza protezioni per i passanti, i passanti che camminano come lumache su marciapiedi di un metro e ti costringono a scendere dal marciapiedi sperando che passi solo un collettivo e non due o tre di fila. Non ti vedono, e se ti vedono, devi correre. Forse è per questo che non ho dimenticato niente. Nè una strada, nè un negozio, nè una sedia sulla quale mi sono seduta. E' la dodicesima volta che vengo a Buenos Aires e ho visto cambiamenti politici ed economici, povertà estrema e tristezza estrema, da far rabbrividire. Ho visto cose che non ho visto in nessuna parte del mondo, forse perchè qui è tutto estremo. Qualcosa sì, è cambiato. Non le case nuove o i grattacieli che prima non c'erano, non le corsie privilegiate dei collettivi nella 9 de Julio, che prima non c'erano, non i cartoneros, che continuano ad esserci: sono cambiati i volti. Sono diventati un poco più americani, un poco più europei, un poco meno spontanei. Certa rabbia non la noto più, certe espressioni intense e drammatiche non le noto più. Guardo le scarpe della gente che mi parlano sempre dei cambiamenti economici. Guardo i prezzi e compro cibo senza capire come si possa pagare così tanto. Tutto è carissimo, ti ripetono cantalenando gli argentini. E noi europei restiamo di stucco perché il tanto è davvero tanto e il peso vale 1 a 16. Non riesco nemmeno a fare la divisione mentale, e quando la faccio mi viene un colpo. Ho cammnato molto per rivedere i luoghi e le vetrine, i negozi e la merce esposta, i ristoranti e i bodegòn, le case e il cielo. Il cielo di Buenos Aires che cambia colore, che cambia vento, che cambia feddo, che cambia caldo, che cambia umido, che ti intristisce e ti rende felice, che ti costringe sempre a vestirti improvvisando. Come sarà alle 9? e alle 12? e alle 16? e all'oscurità? Chi incontrerò oggi a Buenos Aires? Con chi parlerò? Chi mi parlerà? Essere italiani è una grande fortuna, anzi, lo è ancora più di prima con la classe media che ora viaggia in Europa e gli occhi brillano perchè hanno visto e non più solo immaginato quanto è bella l'Italia. Come sono gli italiani, mi chiede chi non c'è stato ancora. Come sono? Freddi, chiusi, non sanno improvvisare, non sanno vivere. Hanno paura del niente. Qui i miei ragazzi hanno avuto amici morti ammazzati, a loro stessi hanno sparato o hanno figli violentati. I miei amici hanno subito rapine con la pistola, aggressioni fisiche, perdite dolorissime di familiari. Soffrono in un un modo diverso: condividono e convivono con quello che succede. E allora, di fronte a tutto questo, ti chiedi di che cavolo soffriamo noi, perchè siamo tanto rabbiosi, tanto razzisti, tanto incapaci, sempre più incapaci di dare un senso logico, concreto, realistico, alla vita che viviamo. La politica ha diviso gli argentini in nostalgici illogici e aperti al futuro. La politica qui è una torta divisa in due, dove tutti sanno che l'hanno mangiata gli uni e gli altri però erano meglio gli altri perché davano cose gratis. Populismo non significa stato assistenziale. Nell'era di internet, dei social, del mondo che entra in casa, l'Argentina ha sempre un occhio rivolto al passato e non perchè era meglio di oggi: ancorandosi al passato si ottiene di più. Fantasie e menzogne che raccontano a se stessi come grandi verità indiscutibili.  Ecco, questo popolo resta bambino anche se protesta con forza per i diritti civili che non ha, per il lavoro che perde, per la violenza quotidiana che subisce, la droga che uccide, per vivere in culo al mondo e sentirsi sempre un po' destinati ad esserlo ma aspirare a qualcos'altro che non si sa mai bene che cosa sia. Se c'è una coda di 10 auto in fila ai caselli ancora si suona tutti insieme il clacson e di colpo le sbarre si alzano, non si paga e si torna a casa contenti dello stato populista. Ma quando devi prendere due collettivi per forza e paghi due volte il biglietto, non si arrabbia nessuno.