Ho deciso di aprire le narici e respirare lo smog di Buenos Aires (tradotto: aria buona) fin dove mi portano i polmoni. Ho la fortuna di non vivere nel microcentro, forse non sarà così terribile farsi una passeggiatina con quest'aria delle 10 di mattina di un inverno da venti gradi. Il sabato è una giornata da compere, come in Italia. Io invece voglio andare all'Istituto nazionale di Psicologia in Rivadavia perchè le compere le faccio dal lunedì al venerdì, grazie all'euro in un paese di pesos. Lo so, la calle Rivadavia al 5000 è un posto lontanissimo e il taxi non mi costerebbe niente. Invece, guarda un po' che tonta, ci vado a piedi. Caballito è un rione di Buenos Aires che non conosco e ci so arrivare a spanne, senza la cartina, ma il bello di questa capitale sudamericana è che le strade fatte a quadrati e spicchi ti lasciano sempre orientare. Il mio punto di riferimento è Once e la ferrovia. Devo oltrepassarla e questo non mi piace. Cammino lungo le vie interne, evitando Corrientes e Cordoba e guardo le case, i bar ancora chiusi, i ristoranti che cominciano a pulire i tavoli. Le dieci di mattina e la città ancora sonnecchia per le sbornie della notte precedente che non era una notte qualsiasi, ma la festa folle del giorno dell'amico. Qui si sentono tutti amici, a guardare i resti della festa rimasti per strada. Celebrazioni. Cosa non si celebra in Argentina? Una ragazza italiana che si è trasferita a Buenos Aires a vivere ha detto: qui c'è il giorno della mamma, del papà, dell'amico, del fratello, del nonno. E rideva. Della forchetta, del tavolo, della piastrella. E sarebbe andata avanti all'infinito credo perchè vive qui già da qualche anno. Mi hanno fregato - si è messa a raccontare - hanno fatto la cresta su ogni cosa che ho comprato per la ristrutturazione della casa, ma lasciare l'Italia e venire qui è stata la scelta più straordinaria della mia vita. Camminavo spedita osservando ogni piccola cosa che le altre volte mi era sfuggita perchè con i taxi non si notano i portoni di legno antico nè le case barcollanti, nè si può sbirciare dentro una specie di club-discoteca con la fila fuori. La fila alle dieci di mattina? La notte dell'amico si è protratta a lungo. Il mio amico Jorge dice che Buenos Aires è surreale. Ci sto, questa parola calza a pennello. Sono vicina al ponte di Once e ho paura. Lo sapevo che avrei avuto paura e allora chiedo a un signore. Scusi? posso passare il ponte? Certo, di giorno non c'è pericolo. Facile a dirsi, ma se lo dicono gli argentini è sicuramente vero perchè loro sono i primi ad avere una paura fottuta delle rapine. Un tassista una sera aveva cambiato strada per non passare vicino a quel ponte e un giorno a distanza di cento metri avevo visto un poliziotto con le gambe spalancate e la mano sulla fondina nel bel mezzo del ponte. Quando sono arrivata sotto al muraglione della ferrovia, di cui non si vede nè l'inizio nè la fine, c'era qualche straccione addormentato per terra e i soliti cartoneros che si aggiravano con aria stralunata. Credo però che non siano loro quelli di cui ci si preoccupa tanto al ponte di Once. Non ho alternative: o aggiungo dieci quadre alla camminata, o scavalco la ferrovia. Salgo le scalette di ferro e il lungo ponte con le reti metalliche in pieno sole mi suscita una sensazione di fascino incredibile. Sotto scorrono i binari, ed è come se il ventre della città si aprisse in due. Non c'è nessuno. Non resisto alla tentazione di scattare una foto velocemente sperando che proprio in quel momento non passi un ruba macchine fotografiche. Non passa nessuno, nessuno dietro, nessuno davanti. Scendo dall'altra parte e la città torna ad essere popolata di anime inquiete che si stanno risvegliando da un corto sonno. Buenos Aires è la città che dorme meno di tutto il mondo: nessuno supera le sei ore per notte, ho letto sul Clarin. Per questo la chiamano la città che non dorme mai?Cammino. Vie sconosciute con murales sconosciuti mi circondano. Colori violenti, come la facciata blu cobalto di un supermercato, o sbiaditi come il bianco sporco di una casa che sta andando in frantumi. Percorro l'interminabile via Rivadavia fino all'istituto di Psicolcgia. Sono le 11 e mezza, l'ora del ritrovo dei volontari che vanno nei sobborghi della capitale a portare aiuti alla villa miseria, la baraccopoli degli sfigati. I poveri. Per loro ci sono pronti un gruppetto di ragazzi, studenti universitari, dalla faccia da buoni e donne che arrivano alla spicciolata. Riempiono un'auto di coperte e cartoni con dentro cose da portare. Partono con i taxi oggi, non con il loro camioncino, perchè è fuori uso. Non mi possono portare, si scusano trecento volte. Non c'è nemmeno un posticino. E' un'altra situazione surreale: non mi conoscono neppure e mi danno tutti il bacio affettuosi infilandosi velocemente nei taxi. Torneranno alle sei di stasera, dopo una giornata passata a far studiare i bambini, a controllare che tutto sia a posto, a insegnare come procreare meno alle donne, a cucinare con loro e non farli sentire gli ultimi tra gli ultimi.Torno a casa per la stessa strada. Racconto che ho visitato Caballito, il quartiere residenziale di Buenos Aires e che ci sono andata a piedi. Cosa? mi fa il ragazzo del chiosco allungandomi le sigarette. A piedi? Saranno otto chilometri, più otto al ritorno! Que loca!
CAMMINA CAMMINA
Ho deciso di aprire le narici e respirare lo smog di Buenos Aires (tradotto: aria buona) fin dove mi portano i polmoni. Ho la fortuna di non vivere nel microcentro, forse non sarà così terribile farsi una passeggiatina con quest'aria delle 10 di mattina di un inverno da venti gradi. Il sabato è una giornata da compere, come in Italia. Io invece voglio andare all'Istituto nazionale di Psicologia in Rivadavia perchè le compere le faccio dal lunedì al venerdì, grazie all'euro in un paese di pesos. Lo so, la calle Rivadavia al 5000 è un posto lontanissimo e il taxi non mi costerebbe niente. Invece, guarda un po' che tonta, ci vado a piedi. Caballito è un rione di Buenos Aires che non conosco e ci so arrivare a spanne, senza la cartina, ma il bello di questa capitale sudamericana è che le strade fatte a quadrati e spicchi ti lasciano sempre orientare. Il mio punto di riferimento è Once e la ferrovia. Devo oltrepassarla e questo non mi piace. Cammino lungo le vie interne, evitando Corrientes e Cordoba e guardo le case, i bar ancora chiusi, i ristoranti che cominciano a pulire i tavoli. Le dieci di mattina e la città ancora sonnecchia per le sbornie della notte precedente che non era una notte qualsiasi, ma la festa folle del giorno dell'amico. Qui si sentono tutti amici, a guardare i resti della festa rimasti per strada. Celebrazioni. Cosa non si celebra in Argentina? Una ragazza italiana che si è trasferita a Buenos Aires a vivere ha detto: qui c'è il giorno della mamma, del papà, dell'amico, del fratello, del nonno. E rideva. Della forchetta, del tavolo, della piastrella. E sarebbe andata avanti all'infinito credo perchè vive qui già da qualche anno. Mi hanno fregato - si è messa a raccontare - hanno fatto la cresta su ogni cosa che ho comprato per la ristrutturazione della casa, ma lasciare l'Italia e venire qui è stata la scelta più straordinaria della mia vita. Camminavo spedita osservando ogni piccola cosa che le altre volte mi era sfuggita perchè con i taxi non si notano i portoni di legno antico nè le case barcollanti, nè si può sbirciare dentro una specie di club-discoteca con la fila fuori. La fila alle dieci di mattina? La notte dell'amico si è protratta a lungo. Il mio amico Jorge dice che Buenos Aires è surreale. Ci sto, questa parola calza a pennello. Sono vicina al ponte di Once e ho paura. Lo sapevo che avrei avuto paura e allora chiedo a un signore. Scusi? posso passare il ponte? Certo, di giorno non c'è pericolo. Facile a dirsi, ma se lo dicono gli argentini è sicuramente vero perchè loro sono i primi ad avere una paura fottuta delle rapine. Un tassista una sera aveva cambiato strada per non passare vicino a quel ponte e un giorno a distanza di cento metri avevo visto un poliziotto con le gambe spalancate e la mano sulla fondina nel bel mezzo del ponte. Quando sono arrivata sotto al muraglione della ferrovia, di cui non si vede nè l'inizio nè la fine, c'era qualche straccione addormentato per terra e i soliti cartoneros che si aggiravano con aria stralunata. Credo però che non siano loro quelli di cui ci si preoccupa tanto al ponte di Once. Non ho alternative: o aggiungo dieci quadre alla camminata, o scavalco la ferrovia. Salgo le scalette di ferro e il lungo ponte con le reti metalliche in pieno sole mi suscita una sensazione di fascino incredibile. Sotto scorrono i binari, ed è come se il ventre della città si aprisse in due. Non c'è nessuno. Non resisto alla tentazione di scattare una foto velocemente sperando che proprio in quel momento non passi un ruba macchine fotografiche. Non passa nessuno, nessuno dietro, nessuno davanti. Scendo dall'altra parte e la città torna ad essere popolata di anime inquiete che si stanno risvegliando da un corto sonno. Buenos Aires è la città che dorme meno di tutto il mondo: nessuno supera le sei ore per notte, ho letto sul Clarin. Per questo la chiamano la città che non dorme mai?Cammino. Vie sconosciute con murales sconosciuti mi circondano. Colori violenti, come la facciata blu cobalto di un supermercato, o sbiaditi come il bianco sporco di una casa che sta andando in frantumi. Percorro l'interminabile via Rivadavia fino all'istituto di Psicolcgia. Sono le 11 e mezza, l'ora del ritrovo dei volontari che vanno nei sobborghi della capitale a portare aiuti alla villa miseria, la baraccopoli degli sfigati. I poveri. Per loro ci sono pronti un gruppetto di ragazzi, studenti universitari, dalla faccia da buoni e donne che arrivano alla spicciolata. Riempiono un'auto di coperte e cartoni con dentro cose da portare. Partono con i taxi oggi, non con il loro camioncino, perchè è fuori uso. Non mi possono portare, si scusano trecento volte. Non c'è nemmeno un posticino. E' un'altra situazione surreale: non mi conoscono neppure e mi danno tutti il bacio affettuosi infilandosi velocemente nei taxi. Torneranno alle sei di stasera, dopo una giornata passata a far studiare i bambini, a controllare che tutto sia a posto, a insegnare come procreare meno alle donne, a cucinare con loro e non farli sentire gli ultimi tra gli ultimi.Torno a casa per la stessa strada. Racconto che ho visitato Caballito, il quartiere residenziale di Buenos Aires e che ci sono andata a piedi. Cosa? mi fa il ragazzo del chiosco allungandomi le sigarette. A piedi? Saranno otto chilometri, più otto al ritorno! Que loca!