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Graziano Mesina

Post n°3 pubblicato il 30 Gennaio 2006 da janaruja
 
Tag: Banditi

Quando finisce per la prima volta in carcere, Graziano Mesina ha appena compiuto 18 anni. Una sera di maggio del 1960, per festeggiare un gruppo di ragazzi di Orgosolo che partivano per la visita di leva, gli amici, per strada, sparano con le pistole contro i lampioni. C'è anche Graziano, che viene arrestato per porto abusivo d'armi e danneggiamenti.

«Mi chiusero in camera di sicurezza. C'era una porta massiccia con uno spionciono che ogni tanto si apriva. Un bugliolo di legno. Una branda. La mattina chiesi di uscire per i bisogni fisiologici e mi accompagnarono al bagno. Con i miei scarponi da pastore tirai tre pedate alla porta. "Sta' calmo", mi disse, bonario, il carabiniere, e si allontanò fischiettando. Quella porta non voleva cedere. Era stata rimessa a posto da poco e resisteva. Mi accorsi che sotto la branda c'erano delle stecche ci ferro. Ne usai una come un piede di porco. Ricavai una fessura, l'allargai. Il muro crollò. Uscii dal portone. In casa raccolsi pane e formaggio in una bisaccia. "Me la filo", dissi a mia madre»

Era la prima delle sue nove evasioni. I guai veri cominciano pochi mesi dopo. Il 4 luglio del 1960 viene sequestrato Pietrino Crasta, un commerciante di Berchidda, piccolo paese della Gallura. Il 12 luglio una lettera anonima segnala alla questura di Nuoro che in un posto vicino a Orgosolo, Lenardeddu, c'è la prigione con l'ostaggio. Quando carabinieri e polizia arrivano, di Crasta trovano solamente il cadavere. In prigione, accusati del rapimento, finiscono tre dei fratelli Mesina: Giovanni, Pietro e Nicola, insieme ad alcuni vicini di pascolo. Graziano viene scarcerato nel gennaio del 1961, ma la sera dell'antivigilia di Natale, convinto dell’innocenza dei fratelli, entra in un bar di Orgosolo e ferisce a colpi di pistola il pastore che ha accusato la sua famiglia del sequestro e dell'assassinio di Pietrino Crasta.  Torna in cella dunque con l'accusa di tentato omicidio e viene rinchiuso nel carcere di Badu `e Carros, dal quale riesce ancora una volta a scappare. E' la sera del 6 settembre 1962. Mesina riesce a farsi ricoverare in ospedale. Ecco il suo racconto:

«Venne una suora a farmi una puntura. Scivolai dal letto. Sistemai il cuscino al centro in modo che fosse scambiato per la sagoma di una persona coricata e stesi sopra il lenzuolo. Mi nascosi sotto il letto. I carabinieri che mi sorvegliavano erano preoccupati. "Stai ancora male". "Sì, un po'. Ma non vi preoccupate", rispondevo io da sotto il letto. Dopo un po' fingevo di dormire e di russare. Scivolai sul pavimento. Andai alla finestra che avevo lasciato socchiusa. Una mia amica infermiera che mi aiutava mi aveva procurato un paio di scarpe. Il pigiama era bianco, a righe, larghissimo, mi faceva assomigliare ad un frate. Scavalcai il davanzale. Mi afferrai al tubo dell'acqua e incominciai a scendere. Un medico si affacciò a una finestra. "Dove vai?". "Me la sto filando". Telefonò alle guardie. Ma io avevo già scavalcato il muro di cinta dell'ospedale» 

Quella notte stessa, Mesina fugge e raggiunge il Supramonte di Orgosolo. Intorno all’omicidio di Crasta ad Orgosolo si era accesa una vera e propria faida: regolamento di conti legato alla gestione del sequestro e ad accuse di collaborazionismo con i carabinieri e con la polizia. Massacrato dalle fucilate, cade, nell'ottobre del 1962, anche uno dei fratelli di Graziano, Giovanni. Scatta spietato il codice barbaricino. «Volevo scoprire chi era stato», racconta Graziano. “Entrai in un bar di Orgosolo. Cercavo una persona, un uomo che è ancora vivo. Trovai invece Andrea Muscau. Era fratello di Giuseppe "Grusotto" Muscau, uno di quelli coinvolti nelle indagini per il rapimento Crasta. Ero incappucciato. Sparai col mitra. Era il 13 novembre del 1962». Alcuni avventori sorprendono Mesina alle spalle e lo stordiscono con un colpo di bottiglia. Graziano torna in galera, viene condannato a ventisei anni. L'omicidio e l'arresto vanno sulle prime pagine dei giornali sardi e finiscono anche nelle cronache dei quotidiani nazionali. E' l'inizio di una storia che porterà Mesina a diventare una sorta di icona del banditismo sardo, la personificazione del balente, impasto di protervia e di coraggio, di crudeltà e di lealtà, di calcolo egoistico e di altruismo che non attende compensi. La Sardegna di quegli anni è una terra povera. L'attività prevalente è la pastorizia. Una pastorizia transumante, perno economico di un ordine sociale che affonda le sue radici nella storia millenaria delle zone interne dell'isola. Ma la Sardegna è anche  terra che continua ad essere sfruttata e che non comprende lo stato di diritto positivo che gli viene imposto. Mesina è  un balente,  uno che alle leggi di uno stato che non riconosce non si piega, uno che alla prigione non si rassegna, uno che la ribellione trasformerà in capo indiscusso dell'Anonima sequestri.
Questo era Graziano Mesina, un balente cui lo Stato non aveva reso giustizia e che non poteva identificarsi nei codici imposti, un balente a cui avevano sottratto ogni serio punto di riferimento. Grazianeddu non si pente il pentitismo non riesco a digerirlo, Se uno fa una scelta, la deve portare avanti per tutta la vita. Il fenomeno del pentitismo infatti non ha riguardato la Barbagia e l’imputato barbaricino ha sempre taciuto.

«Quello che le autorità non capivano, era che uno stato democratico deve usare mezzi democratici. I problemi della Sardegna andavano risolti rispettando la cultura, il modo di essere, la gente. Gente che viveva allo stato brado. Siccità che portava all'esasperazione. Anni di sacrifici ridotti in un mucchio di cenere. In mezzo c'eravamo noi, i ricercati, i banditi. Alcuni volevano servirsi di noi per creare un fronte più ampio. Far scoppiare il caos. Passare alle armi. S'è scritto dei miei incontri con l'editore Gian Giacomo Feltrinelli. Non lo vidi mai. E vero che mi arrivò un messaggio che voleva vedermi. Venne in Sardegna. Diceva che i sardi non sapevano fa valere le loro ragioni. Ebbi invece incontri con altri personaggi, anche stranieri. Avevano bisogno della mia collaborazione. All'inizio del 1968 il colonnello Massimo Pugliese, del Sifar, chiese di incontrarmi: gli risultava che armi sarebbero state sbarcate in Sardegna per favorire il separatismo. Posi le mie condizioni: un registratore io e uno lui. Tanto per evitare equivoci»

Ma quali erano le motivazioni che hanno portato Mesina su questa strada? Le racconta lui stesso: Attenti a dire che il latitante non ha una ideologia. E’ una stupidaggine, la verità è che nel mondo c’è troppa disparità, troppa ingiustizia. La vita alla macchia ti può aiutare a vederla

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