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Bernoccoli, palme, tricicli: poesia mancata dei miei tre traumi (già nota come poesia del compleanno tre).

Post n°205 pubblicato il 07 Novembre 2011 da bartelio
 

 

Il bernoccolo, il triciclo e la palma sono i miei tre traumi. La poesia sarebbe dovuta partire da qui, con linguaggio molto piano: parole già dette, ma con un altro tono di voce. E mentre le sussurravo, guardavo per terra, come a cercarne altre, ancora più basse.

Correvamo intorno alla giostra in direzioni contrarie ma confliggenti. Ci scontrammo con la testa: credevo che lui morisse. Ci vollero i miei genitori, lo videro più tardi a spasso coi suoi, per convincermi che non. Però ricordo la suora mi mise un cento lire sul bernoccolo e mi guardò torva per tutto il pomeriggio. O fu immaginazione? Dio santo, vuoi vedere che fin da allora fosse tutta colpa mia e di nessun altro? 

La palma di fronte alla chiesa si incendiò perché avvicinammo un cerino al pelo. Io, Saulo prete, Adriano Taini e Marco Bordin, che poi, da grande, avrebbe perso un braccio nella macchina della tipografia (me lo ricordo ancora quel pomeriggio all'ospedale, in piedi nella stanzetta, con sua mamma: non sapevo cosa dire, lui voltava la testa, guardava dalla finestra, la manica del pigiama vuota). Era carnevale, giravamo con le miccette, piccoli teppisti fiammiferai. Adriano fece in tempo a scappare. A Marco e a me, Don Angelo diede uno schiaffo, mentre a Saulo prete niente, perché Saulo era già Paolo, nelle mani del Signore: vuoi mettere una palma immanente? Quanto soffersi per quella palma e quanto la osservai dalla finestra della camera dei miei genitori, con vista sui tetti che salivano verso la chiesa: passai una stagione a spiarla col binocolo, sperando non morisse. Quando in tarda primavera mise una piccola infiorescenza e infine gettò una simil banana (o quel che fosse), mi scese il sangue dal naso per la felicità. La mia piccola anima immortale era salva.

Poi il triciclo. Seduto già grandicello sul triciclo di mia cugina Simona, che aveva tre, quattro anni meno di me, mi rimase in mano il manubrio. Mi ricordo come fosse adesso, il perno sporco di grasso nero e la sensazione di averla combinata grossa. Il triciclo era rosso. Simona aveva i capelli neri, i denti corti e tante gengive. Mia madre mi sgridò, sei grande, disse. Mio padre, non ricordo. Ma dovette essere un fatto davvero terribile. Quel perno, come una forcina per capelli, e tutto quel grasso, e il manubrio che ancora ruotava nelle mie mani, come una coda di lucertola. Potrei scrivere la parola morisse, sospetto che nella versione originale della poesia ci fosse, ma ora mi sembrerebbe così artificioso.

 
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