Post n°140 pubblicato il 20 Settembre 2020 da jonwoo1998
Una delle caratteristiche problematiche della rete, in particolare dopo l'avvento dei social, è il presentismo. Ovvero, quel fenomeno per cui fatti di 40 anni addietro, e oltre, fino a dove esistono filmati e materiale video, perdono la loro storicità e vengono mescolati al presente come se fossero la stessa cosa. È evidente che il passato sia importante per capire come siamo oggi, ma la differenza rispetto al presente è che quel passato non è più modificabile. Piaccia o non piaccia. E l'unico modo per capirlo è cercare di pensare come si pensava ieri. Invece, questo mescolamento provoca uno strano fenomeno per cui modificando il giudizio su fatti passati (cosa del tutto legittima a anzi auspicabile) si potesse in qualche modo cambiarne la natura. Qualunque persona sana di mente sa che non è possibile variare ciò che è già accaduto. Non dipende dall'etica o dalla coerenza, ma dalla nuda oggettività di ciò che è già stato. Questo corto circuito fa sì che sia che si parli del 1945 o del 2020, le due epoche vengano mixate in un calderone dove alla fine non si capisce né il 1945 né il 2020. Uno dei casi emblematici di questa astoricità è l'attacco, che, con notevole frequenza e, spesso, anche partendo da posizioni politiche apparentemente opposte, viene portato al movimento del 1968. Cristallizzandolo in un contesto atemporale, come se fosse accaduto ieri o stesse ancora accadendo. Da qui giudizi sferzanti sui risultati di quel movimento e, spesso sulle singole persone, come se le persone e i risultati fossero già inscritti in un contesto nel quale essi in realtà non esistevano, A meno di non pensare di aver vissuto una vita tutta all'insegna della coerenza e non invece, come tutti, una vita costellata di errori, prove e riprove che hanno plasmato la nostra identità, è evidente che chi dopo un fenomeno come quello della complicatissima vicenda del movimento, ha preso strade in controtendenza o opposte, oppure è diventato un opportunista (critica che spesso, però, nasconde una certa malcelata invidia) non lo si possa addebitare ad un movimento intero e ,neppure, alla persona singola che era prima. Non tutto è scritto, anzi, la scrittura arriva dopo. Se incontrassimo noi stessi per come eravamo 30 anni fa sono sicuro che non andremmo d'accordo! Questo smontaggio del '68 in realtà non attacca quel movimento reale, ma attacca un feticcio costruito ad arte per essere demolito e, facendo questo, anche le migliori intenzioni diventano le peggiori. Dal 1968 sono passati 52 anni, forse sarebbe il caso di pensarlo come un evento del passato e non come qualcosa che sta ancora accadendo. Sì perché questo attacco, spesso inutilmente cattivo e feroce (quasi si invidiasse chi vi ha partecipato) dimentica proprio la storicità di quel fenomeno, ovvero, dimentica come era PRIMA la situazione: sul piano dei rapporti sociali, certo,su quello delle condizioni di lavoro, anche, ma pure su quello dei costumi, della morale, della libertà sessuale. Queste ultime questioni erano state fino a lì riservate alle classi elevate, ai ricchi, agli attori e artisti famosi che "dovevano" dare scandalo, ma erano invece precluse alla massa, che, in teoria (i comportamenti reali, ovviamente, come sempre, svicolavano e si sono sempre svicolati da un mondo di regole morali fatte apposta per essere trasgredite) avrebbe dovuto attenersi a quei precetti. In questo contesto la liberazione sessuale era liberazione politica, a tutti gli effetti. E solo chi non conosce quale fosse la situazione precedente può pensare che quel momento abbia a che fare con la commercializzazione del sesso e delle libertà individuali arrivate dopo. Commercializzazione, sia ben chiaro, che, per quanto effetto collaterale condannabile non è molto diversa dalle altre sussunzioni del capitale di elementi "sovversivi". Non si sa bene perché dovrebbe essere diverso e più criticabile. Ma chi attacca il '68 invece, paradossalmente, non si rende conto che la vera permanenza di quella rivoluzione anche di costume è proprio nella critica che viene portata avanti. È nella accettazione ormai diffusa di modalità di comportamenti libertari (non è sempre una parolaccia....), è nella donna che non deve rispondere a Tizio del proprio comportamento. E in mille altre questioni nelle quali quel movimento, storicamente finito da tempo, si è diramato. Con conseguenze irreversibili, tanto che oggi l'unica leader politica donna è di destra ed ha avuto un figlio senza essere sposata. Alla luce del sole e senza sotterfugi. Se non è una conquista e una vittoria proprio da far risalire al 68 questa non saprei cosa altro dire. Inorridisco ma anche sorrido, quindi, laddove anche intellettuali comunisti, o, comunitari, se non rivoluzionari, o maestri del pensiero "radicale", attaccano la sfera dei costumi come corollario alla giustissima critica del capitalismo e del liberismo. Vorrei dire a loro che questa critica in cui l'aspetto sociale si porta dietro anche quello delle libertà civili, è francamente reazionaria, e, completamente sballata. I costumi cambiano in tutte le classi sociali (e, certo, il contesto sociale rimane il piano fondamentale della politica) ma se per le classi elevate non è mai stato un problema mantenere costumi libertari, per quelle subalterne, appiccicare la critica sociale a quella sessuale rischia di provocare un corto circuito assurdo, perché indietro non si può tornare, ma si possono prendere strade di lato assai pericolose. Insomma si può criticare tutto e il contrario di tutto, ma ricordarsi che nel nel nostro paese, 50 anni fa, la condizione femminile era disastrosa e quella sessuale terrificante (basti vedere "comizi d'amore" di Pasolini). Liberazione sessuale non era l'obbligo di fare sesso, ma la libertà dell'uso del proprio corpo, consapevolmente ma anche senza tutto quell'armamentario di sovrastrutture che ne aveva fatto un "luogo" per maschi (per i quali andavano bene anche i casini, a patto che tutto si svolgesse nel rispetto di una disgustosa morale perbenista e repressa). Se la critica al capitalismo si deve portare con sé il rimpianto di tali contesti è molto chiaro perché alla fine non avrà né fortuna né successo. Nessuno vuole rinunciare ad una libertà, per quanto superficiale possa sembrare o essere, che viene data ormai per scontata. Fra un capitalismo che fa uso (strumentale e ovviamente a fini di profitto) del "libertarismo" e della libertà dei costumi (e consumi, ovviamente) e un altro che sempre capitalismo è, che vorrebbe anche rimettere indietro le lancette sul piano dei comportamenti personali, non credo che sia difficile capire quale possa essere la scelta. |
Post n°139 pubblicato il 01 Agosto 2020 da jonwoo1998
Il termine “voto utile”, per quanto la mia modestissima memoria possa aiutarmi, non mi risulta sia stato utilizzato se non dopo il giro di boa degli anni’80 del secolo scorso. Quando, da parte di classi dirigenti ormai al carro di quelle dominanti, si decise di intraprendere la strada che avrebbe portato dalla partecipazione democratica alla “governance”, termine che, assieme a “divisivo”, “bipartisan”, “memoria condivisa” (per tacere delle parole di Veltroni al Lingotto in cui esplicitò in maniera chiarissima il concetto) indicava una strada per cui il conflitto aperto, la diversità di interessi, il ruolo centrale di un luogo di mediazione (“il parlamento”) erano da considerarsi elementi perturbatori di un “interesse generale”. Interesse generale non più legato, quindi, alla sintesi (con le inevitabili egemonie date dai rapporti di forza oggettivi e congiunturali) delle diverse opzioni di cui le classi sociali sono il perno, ma un presunto “interesse generale” al di fuori di ogni considerazione storica e politica. Una specie di patriottismo vuoto che, è evidente, stante l’oggettiva esistenza di egemonie reali e rapporti di forza reali, si era prontamente riempito dei valori del soggetto dominante. È ovvio che, quindi, il vocabolario cambiò mettendo al centro “l’imprenditore” e in periferia “l’operaio” (alla cui presunta scomparsa, ovvero alla teorizzazione della sua insignificanza nella famosa e fumosa era del “terziario”, la “sinistra” fornì un amplissimo bagaglio teorico ed empirico). In questo contesto, per cui il capitale usciva dalla storia per entrare nella teologia, gli ostacoli a tale “pilota automatico” (per dirla con Draghi), dove alla politica spetta la messa in opera e non più un progetto (in quanto il progetto è già dato una volta per sempre), anche le parole che indicavano l’esistenza di un oggettivo conflitto sociale (ovvero la base della democrazia parlamentare dal secondo dopoguerra) vennero ritenuto fuori contesto, disturbatrici del manovratore, deus ex machina eletto magari dopo un plebiscito (le elezioni come la scelta del capo e non come espressione della rappresentanza del paese e quindi elemento indispensabile per la mediazione parlamentare) a volte rinforzato da un plebiscito interno. In questo contesto ogni elezione diventa un redde rationem, per cui, paradossalmente (ma non troppo) la politica uscita dalla finestra nel suo aspetto più alto e nobile (ovvero la elaborazione di progetti politici di ampio respiro data dalla presenza di partiti di massa, certificati da un’ampia partecipazione popolare, non solo limitata al voto, da discutere e mediare nel luogo deputato della democrazia), rientra dalla porta nel suo aspetto più deleterio e “tifoso” non più legata ad un qualche progetto ma riempita solo di fazioso odio per l’avversario, apoliticamente motivato. Si crea così una torsione enorme della Costituzione, non riconoscendo all’avversario neppure la dignità di esistere, in un percorso di radicalizzazione linguistica estranea al linguaggio politico di appena un quarantennio fa. Una radicalizzazione linguistica continuamente frustrata dall’impossibilità di modificare alcunché nella famosa e nenniana “stanza dei bottoni” (che pare oggi davvero esistere e non all’epoca del segretario socialista) in quanto i “comandi” sono situati ormai al di fuori dall’universo della contendibilità (lasciamo stare le briciole- che tanto briciole non sono in senso assoluto ma non in senso relativo – che cadono dalla tavola apparecchiata e che vanno a miracolare i diversi soggetti fisici intercambiabili). Sotto questo aspetto, è ovvio, anche la minima deviazione rispetto alla guerra totale venga considerata un cedimento al nemico. È vero che anche negli anni ‘70 ricorreva la frase “chi li paga?” ma quel contesto era diverso, perché, comunque, la legge elettorale proporzionale, permetteva anche a piccoli soggetti politici di poter rappresentare una fetta d’Italia in Parlamento. È quindi lampante che lo smantellamento sia cominciato dalla legge elettorale. Il Parlamento non doveva essere l’ostacolo al dispiegamento delle scelte decisionali dell’esecutivo. Creando una narrazione per cui le elezioni sono il momento in cui i cittadini eleggono il governo e non il parlamento, che, per l’appunto, nelle democrazie parlamentari, serve a controllare l’esecutivo. Infatti la fregola per il presidenzialismo, o semi-tale nasce e si sviluppa in quel contesto. Quello dove Craxi dileggiava le assemblee dove si legiferava sull’“eviscerazione delle sardine”, dando una rappresentazione caricaturale del luogo deputato alla vita democratica, attraverso i riflettori accesi sulle singole – e fisiologiche – distorsioni. In quel clima si consumano le varie distruzioni anche in altri luoghi della democrazia: Comuni e Province. Rimane da pensare che ormai la vera partecipazione democratica avvenga nei CDA delle Multinazionali e nelle assemblee dei condomini, dove i soggetti che vi partecipano, essendo interessati in prima persona nelle decisioni dei rispettivi consessi, stanno bene attenti a quello di cui discutono e alle decisioni che prendono. Il “voto utile” è il tassello finale della chiamata alle armi per la finta guerra politica totale. O con noi o contro di noi. Voto “A” perché altrimenti vince “B”. Date queste premesse e questo contesto c’è davvero da meravigliarsi che ancora oggi milioni di cittadini si rechino alle urne, per deporre una scheda ormai svalutata ma che, quasi sempre, rappresenta l’unica occasione per “fare politica”. Ma davvero questa strada ha portato ad una qualche efficacia ed efficienza legislativa? Se guardiamo le leggi approvate nell’ultimo ventennio, molte di esse sono, soprattutto, orientate ideologicamente (perché “morte le ideologie” ne è rimasta una sola), spesso scritte coi piedi, incomprensibili e, altrettanto spesso, distrutte dalle varie decisioni della Corte Costituzionale. Lampante il caso delle leggi elettorali, approvate a maggioranza come “arma contro l’avversario” (cioè l’esecutivo si fa le regole di volta in volta), demolite dalla massima corte. Poi, il cedimento alle “leggi del mercato” (inscritte sulla pietra come nelle tavole della verità), con i vari smantellamenti delle leggi a tutela dei lavoratori, alla ristrutturazione ideologica della scuola, alle devastanti modifiche della Costituzione. Davvero un caso esemplare di quell’ordoliberismo che non usa meno Stato ma che, anzi, lo torce completamente verso il mercato (che non è appunto stato di natura). Il termine “voto utile” è quindi indispensabile non affinché si rafforzi un qualche partito di massa, ma proprio affinché sia chiaro che nella guerra totale chi non fa parte del gioco è un nemico. Viene da pensare che sarebbe anche comprensibile, se ci fosse da conquistare il Palazzo d’Inverno, ma che venga richiesto di farlo per pura fede, assomiglia a chiedere alla Rana nella pentola se ha un cerino. |
Post n°138 pubblicato il 03 Luglio 2020 da jonwoo1998
Ormai ben 13 anni or sono (ma in realtà terminato nel 2005) uscì un documento filmato, prodotto da una grande casa editrice, La Feltrinelli. Immesso sul mercato editoriale assieme ad un altro reportage diretto da Nanni Moretti diversi anni prima (“La Cosa”), probabilmente per poterlo vendere più agevolmente associandolo ad un prodotto di una certa fama nell’ambito delle discussioni (ormai dimenticate) fra 1989 e 1991 e la fine del PCI. Tuttavia, malgrado un ampio battage redazionale sui maggiori quotidiani,non mi risulta (ma potrei sbagliarmi) che quel film abbia mai avuto l’attenzione che meritava. Eppure, ben più della “Cosa” (e la sua apparente “neutralità”) di Moretti, esso entrava nel vivo di alcuni singoli personaggi militanti del PCI tra i primi anni ‘80 fino ai primi anni 2000. Con un efficace montaggio il regista era riuscito a far emergere sia il collettivo che le singole individualità di quel gruppetto. Il documento si intitola “Il fare politica” realizzato dal belga Hugues Le Paige in quel di San Casciano in Val di Pesa. Il regista, divenuto amico dei protagonisti, era tornato ogni anno a filmare e far parlare gli attivisti toscani. Ne era uscito fuori un malinconico ritratto di gruppo di iscritti e militanti del PCI, non di intellettuali e neppure di militanti incazzati come nel documentario di Moretti. Quello che colpisce in questo lungo filmato è il senso di inevitabilità di un percorso che gli stessi protagonisti non riescono a spiegare compiutamente. Non si comprende bene, in effetti, come sia stato possibile che un partito, composto da migliaia di “semplici” militanti come quei compagni di San Casciano abbia gettato alle ortiche un patrimonio umano fatto di concretezza, realismo, capacità di governo, visione se non partendo proprio da quello che c'era dentro quella scatola. Ovvero la convinzione che la storia andasse in una direzione ben precisa e quella direzione coincidesse con la propria, con quella del partito, qualunque fosse la strada che esso avesse intrapreso. Secondo il mio modestissimo modo di vedere non si tratta di gruppi dirigenti che tradiscono, oppure al contrario, languono, o di militanti che seguono passivamente oppure al contrario, sono più radicali dei capi. La faccenda è invece ingarbugliata, perché quel percorso si inseriva in trasformazioni epocali del panorama sociale, politico ed economico, rispetto alle quali il PCI degli anni '80 arrancava più del solito. PCI inteso come gruppi dirigenti ma anche come corpo militante. In quel contesto il partito si trova spiazzato dal cambio dello “spirito” dei tempi: la fine miseranda dell'impegno politico in una specie di "cupio dissolvi", una lotta armata priva ormai di ogni minimo aggancio con la realtà, il rifiuto della politica da parte di settori sempre più ampi delle nuove generazioni, una indifferenza verso le questioni che per decenni avevano appassionato grandi settori della società italiana. A questo si somma una sensazione di sfascio generalizzato che all'epoca era molto diffusa. Chi coglie invece bene questo nuovo spirito è la stampa (oggi diremmo “Mainstream”) e, in particolare, la nuova stampa illuminata e non direttamente codina di cui Repubblica è da sempre la capofila. Una stampa che lancia e ribatte la parola d'ordine “modernizzazione”. Qui si osserva anche un curioso corto circuito perché la stessa parola era stata declinata da da quel Craxi di cui “Repubblica” divenne il nemico principale, ma che, sul piano della distruzione dei fondamentali era stata l'attrice principale. Se la memoria non mi inganna partono in quel periodo (anni '80) reportage sulla fine degli operai, sulla fine della saggista e l'esaltazione del romanzo (una questione, che oggi, a distanza di tanti anni, appare davvero una totale assurdità priva di ogni senso logico) interviste a militanti pentiti in cerca di una collocazione, l'esaltazione della fine delle ideologia, l'apologia del privato, gli imprenditori d'assalto. Il cinema stesso propina opere il cui tema è “la fine di una stagione”. Insomma, un clima di euforia soddisfatta della fine di un'epoca della quale non si vedeva l'ora di liberarsi. Una minoranza rifiutò quel percorso di dissoluzione, ma senza uscire dallo stesso concetto dell’”andare con la storia” che aveva caratterizzato la maggioranza dei militanti del PCI. Lo rifiutò ma non riuscì a trovare una strada per uscire dal collo di bottiglia. Bisogna dire anche perché stretta tra una rappresentazione distruttiva da parte dei media e dallo stesso nuovo partito nato dalle ceneri del PCI (sull'onda del “nessun nemico a sinistra”) e una incapacità di affrontare il mare aperto della fine delle gestione amministrativa (ovvero la coincidenza ormai strutturale fra fare politica e amministrare). In questo documentario ci sono tutte le parti in casa, c'è il militante che aderisce a Rifondazione, che era anche quello precedentemente meno ortodosso, c'è il compagno serio (che tutti abbiamo conosciuto come tipico rappresentante del PCI) che segue le direttive della maggioranza e come diceva Ferrini “non capisce (del tutto) ma si adegua”. Alle fine, però, il risultato è dannatamente ovvio e, questo sì “in linea con la storia”. Ovvero tutto si sgretola. La stanchezza del militante di RC, la disillusione dell'aderente al PDS che alla fine lascia partito e tessera (una tempesta che distrugge gli stand della Festa dell'Unità di San Casciano appare come ben più di un cattivo presagio). Altri si rifugiano nel volontariato. Persino in quello di impronta religiosa (“persino” ma non del tutto in contrasto). Ed proprio durante una manifestazione del volontariato, dove la ex-compagna parla in una cerimonia tristemente (oppure no....) laica e religiosa insieme, che il “compagno” serio, pur tra parole di elogio dell'impegno della ex-militante, dice che “però c'è una bella differenza.....”. Ecco, c'è una bella differenza, anzi c'era una bella differenza. Una differenza che ha ceduto sotto il peso del mondo circostante, delle pressioni, delle trasformazioni (anche tecnologiche) ma che è stata comunque disattivata dagli uomini con le loro scelte, con le loro analisi. Con l'avere imboccato un bivio sempre più stringente e impossibile da percorrere al contrario. |
Post n°137 pubblicato il 21 Aprile 2020 da jonwoo1998
È notevole la persistenza della diatriba sul 25 aprile nel nostro paese, a cui ormai viene addebitato di tutto e anche il contrario di tutto, fino a trasformarlo in una data di cui si può fare più o meno qualunque cosa. Una specie di talismano, di golem, di amuleto, di satana e via discorrendo, all’infinito. Si accusa quella data di essere “divisiva”. Quella data, più che “divisiva” arriva alla fine di un conflitto. Ma non un conflitto per occupare una fabbrica, non un conflitto per protestare contro una app, o un DPCM, non contro chiunque, ma uno dei conflitti armati più sanguinosi e distruttivi della storia umana.
Andrea Bellucci, aprile 2020 |
Post n°136 pubblicato il 30 Marzo 2020 da jonwoo1998
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