Creato da jonwoo1998 il 26/10/2005

DIACRONIE

Costruirsi un'idea

 

 

UN ETERNO PRESENTE, CONTRO IL PRESENTE

Post n°140 pubblicato il 20 Settembre 2020 da jonwoo1998

 

Una delle caratteristiche problematiche della rete, in particolare dopo l'avvento dei social, è il presentismo. Ovvero, quel fenomeno per cui fatti di 40 anni addietro, e oltre, fino a dove esistono filmati e materiale video, perdono la loro storicità e vengono mescolati al presente come se fossero la stessa cosa. È evidente che il passato sia importante per capire come siamo oggi, ma la differenza rispetto al presente è che quel passato non è più modificabile. Piaccia o non piaccia. E l'unico modo per capirlo è cercare di pensare come si pensava ieri.

Invece, questo mescolamento provoca uno strano fenomeno per cui modificando il giudizio su fatti passati (cosa del tutto legittima a anzi auspicabile) si potesse in qualche modo cambiarne la natura. Qualunque persona sana di mente sa che non è possibile variare ciò che è già accaduto. Non dipende dall'etica o dalla coerenza, ma dalla nuda oggettività di ciò che è già stato.

Questo corto circuito fa sì che sia che si parli del 1945 o del 2020, le due epoche vengano mixate in un calderone dove alla fine non si capisce né il 1945 né il 2020.

Uno dei casi emblematici di questa astoricità è l'attacco, che, con notevole frequenza e, spesso, anche partendo da posizioni politiche apparentemente opposte, viene portato al movimento del 1968. Cristallizzandolo in un contesto atemporale, come se fosse accaduto ieri o stesse ancora accadendo. Da qui giudizi sferzanti sui risultati di quel movimento e, spesso sulle singole persone, come se le persone e i risultati fossero già inscritti in un contesto nel quale essi in realtà non esistevano,

A meno di non pensare di aver vissuto una vita tutta all'insegna della coerenza e non invece, come tutti, una vita costellata di errori, prove e riprove che hanno plasmato la nostra identità, è evidente che chi dopo un fenomeno come quello della complicatissima vicenda del movimento, ha preso strade in controtendenza o opposte, oppure è diventato un opportunista (critica che spesso, però, nasconde una certa malcelata invidia) non lo si possa addebitare ad un movimento intero e ,neppure, alla persona singola che era prima. Non tutto è scritto, anzi, la scrittura arriva dopo. Se incontrassimo noi stessi per come eravamo 30 anni fa sono sicuro che non andremmo d'accordo!

Questo smontaggio del '68 in realtà non attacca quel movimento reale, ma attacca un feticcio costruito ad arte per essere demolito e, facendo questo, anche le migliori intenzioni diventano le peggiori. Dal 1968 sono passati 52 anni, forse sarebbe il caso di pensarlo come un evento del passato e non come qualcosa che sta ancora accadendo.

Sì perché questo attacco, spesso inutilmente cattivo e feroce (quasi si invidiasse chi vi ha partecipato) dimentica proprio la storicità di quel fenomeno, ovvero, dimentica come era PRIMA la situazione: sul piano dei rapporti sociali, certo,su quello delle condizioni di lavoro, anche, ma pure su quello dei costumi, della morale, della libertà sessuale. Queste ultime questioni erano state fino a lì riservate alle classi elevate, ai ricchi, agli attori e artisti famosi che "dovevano" dare scandalo, ma erano invece precluse alla massa, che, in teoria (i comportamenti reali, ovviamente, come sempre, svicolavano e si sono sempre svicolati da un mondo di regole morali fatte apposta per essere trasgredite) avrebbe dovuto attenersi a quei precetti. In questo contesto la liberazione sessuale era liberazione politica, a tutti gli effetti. E solo chi non conosce quale fosse la situazione precedente può pensare che quel momento abbia a che fare con la commercializzazione del sesso e delle libertà individuali arrivate dopo. Commercializzazione, sia ben chiaro, che, per quanto effetto collaterale condannabile non è molto diversa dalle altre sussunzioni del capitale di elementi "sovversivi". Non si sa bene perché dovrebbe essere diverso e più criticabile.

Ma chi attacca il '68 invece, paradossalmente, non si rende conto che la vera permanenza di quella rivoluzione anche di costume è proprio nella critica che viene portata avanti. È nella accettazione ormai diffusa di modalità di comportamenti libertari (non è sempre una parolaccia....), è nella donna che non deve rispondere a Tizio del proprio comportamento. E in mille altre questioni nelle quali quel movimento, storicamente finito da tempo, si è diramato. Con conseguenze irreversibili, tanto che oggi l'unica leader politica donna è di destra ed ha avuto un figlio senza essere sposata. Alla luce del sole e senza sotterfugi. Se non è una conquista e una vittoria proprio da far risalire al 68 questa non saprei cosa altro dire.

Inorridisco ma anche sorrido, quindi, laddove anche intellettuali comunisti, o, comunitari, se non rivoluzionari, o maestri del pensiero "radicale", attaccano la sfera dei costumi come corollario alla giustissima critica del capitalismo e del liberismo. Vorrei dire a loro che questa critica in cui l'aspetto sociale si porta dietro anche quello delle libertà civili, è francamente reazionaria, e, completamente sballata. I costumi cambiano in tutte le classi sociali (e, certo, il contesto sociale rimane il piano fondamentale della politica) ma se per le classi elevate non è mai stato un problema mantenere costumi libertari, per quelle subalterne, appiccicare la critica sociale a quella sessuale rischia di provocare un corto circuito assurdo, perché indietro non si può tornare, ma si possono prendere strade di lato assai pericolose.

Insomma si può criticare tutto e il contrario di tutto, ma ricordarsi che nel nel nostro paese,  50 anni fa, la condizione femminile era disastrosa e quella sessuale terrificante (basti vedere "comizi d'amore" di Pasolini). Liberazione sessuale non era l'obbligo di fare sesso, ma la libertà dell'uso del proprio corpo, consapevolmente ma anche senza tutto quell'armamentario di sovrastrutture che ne aveva fatto un "luogo" per maschi (per i quali andavano bene anche i casini, a patto che tutto si svolgesse nel rispetto di una disgustosa morale perbenista e repressa). Se la critica al capitalismo si deve portare con sé il rimpianto di tali contesti è molto chiaro perché alla fine non avrà né fortuna né successo. Nessuno vuole rinunciare ad una libertà, per quanto superficiale possa sembrare o essere, che viene data ormai per scontata. Fra un capitalismo che fa uso (strumentale e ovviamente a fini di profitto) del "libertarismo" e della libertà dei costumi (e consumi, ovviamente) e un altro che sempre capitalismo è, che vorrebbe anche rimettere indietro le lancette sul piano dei comportamenti personali, non credo che sia difficile capire quale possa essere la scelta.

 
 
 

LA DISFIDA DI BURLETTA

Post n°139 pubblicato il 01 Agosto 2020 da jonwoo1998

 

Il termine “voto utile”, per quanto la mia modestissima memoria possa aiutarmi, non mi risulta sia stato utilizzato se non dopo il giro di boa degli anni’80 del secolo scorso.

Quando, da parte di classi dirigenti ormai al carro di quelle dominanti, si decise di intraprendere la strada che avrebbe portato dalla partecipazione democratica alla “governance”, termine che, assieme a “divisivo”, “bipartisan”, “memoria condivisa” (per tacere delle parole di Veltroni al Lingotto in cui esplicitò in maniera chiarissima il concetto) indicava una strada per cui il conflitto aperto, la diversità di interessi, il ruolo centrale di un luogo di mediazione (“il parlamento”) erano da considerarsi elementi perturbatori di un “interesse generale”.

Interesse generale non più legato, quindi, alla sintesi (con le inevitabili egemonie date dai rapporti di forza oggettivi e congiunturali) delle diverse opzioni di cui le classi sociali sono il perno, ma un presunto “interesse generale” al di fuori di ogni considerazione storica e politica.

Una specie di patriottismo vuoto che, è evidente, stante l’oggettiva esistenza di egemonie reali e rapporti di forza reali, si era prontamente riempito dei valori del soggetto dominante.

È ovvio che, quindi, il vocabolario cambiò mettendo al centro “l’imprenditore” e in periferia “l’operaio” (alla cui presunta scomparsa, ovvero alla teorizzazione della sua insignificanza nella famosa e fumosa era del “terziario”, la “sinistra” fornì un amplissimo bagaglio teorico ed empirico).

In questo contesto, per cui il capitale usciva dalla storia per entrare nella teologia, gli ostacoli a tale “pilota automatico” (per dirla con Draghi), dove alla politica spetta la messa in opera e non più un progetto (in quanto il progetto è già dato una volta per sempre), anche le parole che indicavano l’esistenza di un oggettivo conflitto sociale (ovvero la base della democrazia parlamentare dal secondo dopoguerra) vennero ritenuto fuori contesto, disturbatrici del manovratore, deus ex machina eletto magari dopo un plebiscito (le elezioni come la scelta del capo e non come espressione della rappresentanza del paese e quindi elemento indispensabile per la mediazione parlamentare) a volte rinforzato da un plebiscito interno.

In questo contesto ogni elezione diventa un redde rationem, per cui, paradossalmente (ma non troppo) la politica uscita dalla finestra nel suo aspetto più alto e nobile (ovvero la elaborazione di progetti politici di ampio respiro data dalla presenza di partiti di massa, certificati da un’ampia partecipazione popolare, non solo limitata al voto, da discutere e mediare nel luogo deputato della democrazia), rientra dalla porta nel suo aspetto più deleterio e “tifoso” non più legata ad un qualche progetto ma riempita solo di fazioso odio per l’avversario, apoliticamente motivato.

Si crea così una torsione enorme della Costituzione, non riconoscendo all’avversario neppure la dignità di esistere, in un percorso di radicalizzazione linguistica estranea al linguaggio politico di appena un quarantennio fa.

Una radicalizzazione linguistica continuamente frustrata dall’impossibilità di modificare alcunché nella famosa e nenniana “stanza dei bottoni” (che pare oggi davvero esistere e non all’epoca del segretario socialista) in quanto i “comandi” sono situati ormai al di fuori dall’universo della contendibilità (lasciamo stare le briciole- che tanto briciole non sono in senso assoluto ma non in senso relativo – che cadono dalla tavola apparecchiata e che vanno a miracolare i diversi soggetti fisici intercambiabili).

Sotto questo aspetto, è ovvio, anche la minima deviazione rispetto alla guerra totale venga considerata un cedimento al nemico. È vero che anche negli anni ‘70 ricorreva la frase “chi li paga?” ma quel contesto era diverso, perché, comunque, la legge elettorale proporzionale, permetteva anche a piccoli soggetti politici di poter rappresentare una fetta d’Italia in Parlamento.

È quindi lampante che lo smantellamento sia cominciato dalla legge elettorale. Il Parlamento non doveva essere l’ostacolo al dispiegamento delle scelte decisionali dell’esecutivo.

Creando una narrazione per cui le elezioni sono il momento in cui i cittadini eleggono il governo e non il parlamento, che, per l’appunto, nelle democrazie parlamentari, serve a controllare l’esecutivo.

Infatti la fregola per il presidenzialismo, o semi-tale nasce e si sviluppa in quel contesto. Quello dove Craxi dileggiava le assemblee dove si legiferava sull’“eviscerazione delle sardine”, dando una rappresentazione caricaturale del luogo deputato alla vita democratica, attraverso i riflettori accesi sulle singole – e fisiologiche – distorsioni.

In quel clima si consumano le varie distruzioni anche in altri luoghi della democrazia: Comuni e Province. Rimane da pensare che ormai la vera partecipazione democratica avvenga nei CDA delle Multinazionali e nelle assemblee dei condomini, dove i soggetti che vi partecipano, essendo interessati in prima persona nelle decisioni dei rispettivi consessi, stanno bene attenti a quello di cui discutono e alle decisioni che prendono.

Il “voto utile” è il tassello finale della chiamata alle armi per la finta guerra politica totale. O con noi o contro di noi. Voto “A” perché altrimenti vince “B”.

Date queste premesse e questo contesto c’è davvero da meravigliarsi che ancora oggi milioni di cittadini si rechino alle urne, per deporre una scheda ormai svalutata ma che, quasi sempre, rappresenta l’unica occasione per “fare politica”.

Ma davvero questa strada ha portato ad una qualche efficacia ed efficienza legislativa? Se guardiamo le leggi approvate nell’ultimo ventennio, molte di esse sono, soprattutto, orientate ideologicamente (perché “morte le ideologie” ne è rimasta una sola), spesso scritte coi piedi, incomprensibili e, altrettanto spesso, distrutte dalle varie decisioni della Corte Costituzionale.

Lampante il caso delle leggi elettorali, approvate a maggioranza come “arma contro l’avversario” (cioè l’esecutivo si fa le regole di volta in volta), demolite dalla massima corte.

Poi, il cedimento alle “leggi del mercato” (inscritte sulla pietra come nelle tavole della verità), con i vari smantellamenti delle leggi a tutela dei lavoratori, alla ristrutturazione ideologica della scuola, alle devastanti modifiche della Costituzione.

Davvero un caso esemplare di quell’ordoliberismo che non usa meno Stato ma che, anzi, lo torce completamente verso il mercato (che non è appunto stato di natura).

Il termine “voto utile” è quindi indispensabile non affinché si rafforzi un qualche partito di massa, ma proprio affinché sia chiaro che nella guerra totale chi non fa parte del gioco è un nemico.

Viene da pensare che sarebbe anche comprensibile, se ci fosse da conquistare il Palazzo d’Inverno, ma che venga richiesto di farlo per pura fede, assomiglia a chiedere alla Rana nella pentola se ha un cerino.

 
 
 

IL FARE POLITICA (c’è una bella differenza)

Post n°138 pubblicato il 03 Luglio 2020 da jonwoo1998
Foto di jonwoo1998

Ormai ben 13 anni or sono (ma in realtà terminato nel 2005)  uscì un documento filmato, prodotto da una grande casa editrice, La Feltrinelli.

Immesso sul mercato editoriale assieme ad un altro reportage diretto da Nanni Moretti diversi anni prima (“La Cosa”), probabilmente per poterlo vendere più agevolmente associandolo ad un prodotto di una certa fama nell’ambito delle discussioni (ormai dimenticate) fra 1989 e 1991 e la fine del PCI.

Tuttavia, malgrado un ampio battage redazionale sui maggiori quotidiani,non mi risulta (ma potrei sbagliarmi) che quel film abbia mai avuto l’attenzione che meritava.

Eppure, ben più della “Cosa” (e la sua apparente “neutralità”) di Moretti, esso entrava nel vivo di alcuni singoli personaggi militanti del PCI tra i primi anni ‘80 fino ai primi anni 2000.

Con un efficace montaggio il regista era riuscito a far emergere sia il collettivo che le singole individualità di quel gruppetto.

Il documento si intitola “Il fare politica” realizzato dal belga Hugues Le Paige in quel di San Casciano in Val di Pesa.

Il regista, divenuto amico dei protagonisti, era tornato ogni anno a filmare e far parlare gli attivisti toscani.

Ne era uscito fuori un malinconico ritratto di gruppo di iscritti e militanti del PCI, non di intellettuali e neppure di militanti incazzati come nel documentario di Moretti.

Quello che colpisce in questo lungo filmato è il senso di inevitabilità di un percorso che gli stessi protagonisti non riescono a spiegare compiutamente.

Non si comprende bene, in effetti, come sia stato possibile che un partito, composto da migliaia di “semplici” militanti come quei compagni di San Casciano abbia gettato alle ortiche un patrimonio umano fatto di concretezza, realismo, capacità di governo, visione se non partendo proprio da quello che c'era dentro quella scatola.

Ovvero la convinzione che la storia andasse in una direzione ben precisa e quella direzione coincidesse con la propria, con quella del partito, qualunque fosse la strada che esso avesse intrapreso.

Secondo il mio modestissimo modo di vedere non si tratta di gruppi dirigenti che tradiscono, oppure al contrario, languono, o di militanti che seguono passivamente oppure al contrario, sono più radicali dei capi.

La faccenda è invece ingarbugliata, perché quel percorso si inseriva in trasformazioni epocali del panorama sociale, politico ed economico, rispetto alle quali il PCI degli anni '80 arrancava più del solito.

PCI inteso come gruppi dirigenti ma anche come corpo militante.

In quel contesto il partito si trova spiazzato dal cambio dello “spirito” dei tempi: la fine miseranda dell'impegno politico in una specie di "cupio dissolvi", una lotta armata priva ormai di ogni minimo aggancio con la realtà, il rifiuto della politica da parte di settori sempre più ampi delle nuove generazioni, una indifferenza verso le questioni che per decenni avevano appassionato grandi settori della società italiana.

A questo si somma una sensazione di sfascio generalizzato che all'epoca era molto diffusa. 

Chi coglie invece bene questo nuovo spirito è la stampa (oggi diremmo “Mainstream”) e, in particolare, la nuova stampa illuminata e non direttamente codina di cui Repubblica è da sempre la capofila.

Una stampa che lancia e ribatte la parola d'ordine “modernizzazione”.

Qui si osserva anche un curioso corto circuito perché la stessa parola era stata declinata da da quel Craxi di cui “Repubblica” divenne il nemico principale, ma che, sul piano della distruzione dei fondamentali era stata l'attrice principale.

Se la memoria non mi inganna partono in quel periodo (anni '80) reportage sulla fine degli operai, sulla fine della saggista e l'esaltazione del romanzo (una questione, che oggi, a distanza di tanti anni, appare davvero una totale assurdità priva di ogni senso logico) interviste a militanti pentiti in cerca di una collocazione, l'esaltazione della fine delle ideologia, l'apologia del privato, gli imprenditori d'assalto.

Il cinema stesso propina opere il cui tema è “la fine di una stagione”. Insomma, un clima di euforia soddisfatta della fine di un'epoca della quale non si vedeva l'ora di liberarsi.

Una minoranza rifiutò quel percorso di dissoluzione, ma senza uscire dallo stesso concetto dell’”andare con la storia” che aveva caratterizzato la maggioranza dei militanti del PCI.

Lo rifiutò ma non riuscì a trovare una strada per uscire dal collo di bottiglia. Bisogna dire anche perché stretta tra una rappresentazione distruttiva da parte dei media e dallo stesso nuovo partito nato dalle ceneri del PCI (sull'onda del “nessun nemico a sinistra”) e una incapacità di affrontare il mare aperto della fine delle gestione amministrativa (ovvero la coincidenza ormai strutturale fra fare politica e amministrare).

In questo documentario ci sono tutte le parti in casa, c'è il militante che aderisce a Rifondazione, che era anche quello precedentemente meno ortodosso, c'è il compagno serio (che tutti abbiamo conosciuto come tipico rappresentante del PCI) che segue le direttive della maggioranza e come diceva Ferrini “non capisce (del tutto) ma si adegua”.

Alle fine, però, il risultato è dannatamente ovvio e, questo sì “in linea con la storia”.

Ovvero tutto si sgretola. La stanchezza del militante di RC, la disillusione dell'aderente al PDS che alla fine lascia partito e tessera (una tempesta che distrugge gli stand della Festa dell'Unità di San Casciano appare come ben più di un cattivo presagio).

Altri si rifugiano nel volontariato.

Persino in quello di impronta religiosa (“persino” ma non del tutto in contrasto).

Ed proprio durante una manifestazione del volontariato, dove la ex-compagna parla in una cerimonia tristemente (oppure no....) laica e religiosa insieme, che il “compagno” serio, pur tra parole di elogio dell'impegno della ex-militante, dice che

“però c'è una bella differenza.....”.

Ecco, c'è una bella differenza, anzi c'era una bella differenza.

Una differenza che ha ceduto sotto il peso del mondo circostante, delle pressioni, delle trasformazioni (anche tecnologiche) ma che è stata comunque disattivata dagli uomini con le loro scelte, con le loro analisi.

Con l'avere imboccato un bivio sempre più stringente e impossibile da percorrere al contrario.

 
 
 

SUL 25 APRILE

Post n°137 pubblicato il 21 Aprile 2020 da jonwoo1998

È notevole la persistenza della diatriba sul 25 aprile nel nostro paese, a cui ormai viene addebitato di tutto e anche il contrario di tutto, fino a trasformarlo in una data di cui si può fare più o meno qualunque cosa. Una specie di talismano, di golem, di amuleto, di satana e via discorrendo, all’infinito.

Si accusa quella data di essere “divisiva”.

Ora,  a parte che  tale vocabolo come “resilienza”, “l’attimino” e “piuttosto che” andrebbe condannato all’oblio, questa accusa, pronunciata in un paese e in una buona parte del continente in cui si vive dove non si ha la più pallida idea da almeno 75 anni che cosa sia una guerra, non solo è una banalità al massimo grado ma rappresenta bene una certa idea del mondo e della storia che ormai pare essere terreno comune, anche al di là delle presunte appartenenze.

Quella data, più che “divisiva” arriva alla fine di un conflitto. Ma non un conflitto per occupare una fabbrica, non un conflitto per protestare contro una app, o un DPCM, non contro chiunque, ma uno dei conflitti armati più sanguinosi e distruttivi della storia umana.

Ogni processo di fondazione di una unità statuale e politica, di una nazione su basi liberali, ma anche rivoluzionarie e, insomma ogni processo il cui esito sia stata  la fondazione di un nuovo soggetto nazionale declinato in vari modi (e sull’importanza della declinazione dirò sotto) è passato attraverso un conflitto armato, molto spesso fratricida (nel senso di guerra fra uomini che condividevano molte caratteristiche) e, altrettanto spesso,  è stato caratterizzato da un “di più” di violenza proprio delle guerre che potremmo chiamare “civili”.

A tale proposito il mai troppo compianto Claudio Pavone, una trentina  d’anni fa scrisse un libro che rimane una pietra miliare degli studi sulla resistenza, che l’editore volle intitolare “Una Guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” [attenzione “nella” e non “della”] ma che conteneva ben chiare le tre guerre che si combatterono allora: guerra civile, guerra patriottica e guerra di classe. 

Chiunque non lo abbia letto manca di un tassello fondamentale.  Un testo  rispetto al quale  forse, tutti i fiumi d’inchiostro malamente versati in questi decenni avrebbero potuto essere evitati.

Quella data, il 25 aprile, segna la fine di un drammatico ventennio e, soprattutto, di un biennio di una guerra disastrosa e criminale che, oggettivamente, non può essere addebitata ad altri se non al regime fascista e alla monarchia.

Oggettivamente.

La costruzione del fascismo in Italia nasce con un percorso di violenza in cui si innesta sul tronco dell’imperfetto Stato Liberale un concetto esclusivo di appartenenza nazionale.

Ovvero il fascismo identifica se stesso con lo Stato e pure con la Nazione. Escludendo ogni altra possibilità di appartenere al contesto nazionale (ma anche semplicemente statale).

Questo dato avrà conseguenze drammatiche non solo per il ventennio fascista, ma pure  nel secondo dopoguerra, tanto che, in Italia, il concetto stesso di appartenenza nazionale, avrà difficoltà ad affermarsi in maniera compiuta.

Questo Regime, che pure ebbe appoggi e consensi e che, pure, nacque in maniera magmatica dalla modernità (il fascismo non è stato semplicemente un regime reazionario ma un regime della e nella modernità. Oppure come ebbe a definirlo Togliatti, un regime reazionario di massa) nella sua scalata (spesso casuale più che causale) si avviò poi verso la strada “totalitaria” (il concetto di totalitarismo è quello usato dallo stesso fascismo che intendeva creare un nuovo soggetto “organico” immerso perennemente e totalmente nel “politico” non quello che useranno i suoi avversari subito dopo, né tanto meno, quello ricreato ad uso della guerra fredda per accomunare fascismi e comunismi).

Questa strada ebbe i suoi 2 punti basilari il 3 gennaio 1925 con il discorso dopo i mesi dello scandalo e della quasi crisi post-Matteotti e poi dopo l’attentato a Bologna nel 1926  con la virata verso il partito unico.

Questo percorso si “concluse” con la definizione delle leggi c.d fascistissime n cui il PNF divenne l’unico partito ammesso.

Ora, qualunque considerazione si voglia dare del fascismo, e la più inutile sarebbe quella che continuasse a considerare questo regime come composto solo di criminali o idioti (che pure vi erano e in gran numero, spesso portatori di entrambi queste qualità), certamente neppure la più benevola e asettica può annullare il fatto, oggettivo, che tale regime non avesse connotazioni non solo minimamente democratiche, ma che, non fosse neppure avvicinabile all’insufficiente (e responsabile in parte dello stesso fascismo) semiautoritario, classista, sistema liberale.

Un regime che si instaura con le premesse della violenza e con la realizzazione di uno stato di polizia,  ipoteca probabilmente la propria fine, a meno che, come accadde in Spagna, la classe dirigente, pur se qualitativamente anche peggiore, non riesca a capire che un paese può reggere un regime ma non può reggere a lungo le sofferenze e le distruzioni delle guerra.

Ma questa fine, come sopra accennato, oltre ad essere stata messa in conto con la creazione di centinaia di oppressi e sconfitti,  fu accelerata con le trasformazioni della metà degli anni ‘30, con l’avvicinamento al regime hitleriano (certamente per comportamenti non del tutto innocenti delle Francia e della GB, ma in ultima istanza la decisione fu dell’Italia, ovvero, del Duce) e con il precipizio verso una guerra che trovò le forze armate italiane in una condizione di assoluta impreparazione e, soprattutto, con una dotazione tecnica non consona e inferiore a quella che era stata la Prima Guerra Mondiale, dove l’esercito italiano era alla pari (e in diversi casi superiore)  delle altre realtà nazionali.

Un regime che aveva fatto del bellicismo sostanzialmente parolaio la propria ragion d’essere, in realtà si era caratterizzato per una spesa militare inferiore all’Italia liberale, teso a risanare bilanci secondo un’ottica (nemmeno tanto paradossalmente) liberista e ordinaria e il cui pugnale fra i denti serviva soprattutto ad uso interno.

Tra l’altro un Regime che si era conquistato la benevolenza degli USA e della GB per aver demolito le organizzazioni operaie ed evitato una di per sé impossibile rivoluzione bolscevica, gettò alle ortiche questa interessatissima (e anche razzista) amicizia che considerava l’Italia degna solo di una dittatura, per abbracciare una guerra la cui l’analisi geopolitica (neppure politica) anche dell’uomo della strada ne avrebbe sconsigliato perfino il pensiero.

Orbene, dopo una guerra disastrosa fin dalle prime fucilate, condotta a rimorchio dell’alleato nazista che, evidentemente, non sapeva che cosa farsene di un fardello del genere, tale regime finì con un curioso voto di “sfiducia” e un  altrettanto curioso arresto da parte di quello stesso Re  che non aveva fin lì detto una parola, neppure sulle leggi razziali su cui aveva apposto la firma (vero tradimento di propri cittadini, spesso fascisti della prima ora e dello stesso spirito risorgimentale) ma che si baloccava sulle competenze e sulle diatribe in merito al titolo di “Maresciallo”.

Una intera classe dirigente fallimentare (la classe dominante come sempre sa come cavarsela) tentava così di chiudere una fase devastante con un tratto di penna e con una specie di “colpo di stato” bianco (ma  neppure tanto).

Si dice che “se” il fascismo non fosse entrato in guerra, Mussolini sarebbe morto di vecchiaia. Non abbiamo altri mondi su cui verificare tale ipotesi e, francamente, è una discussione che non porta a nulla a meno di non chiamarsi Philip Dick.

La guerra non era un incidente di percorso, in quel regime e in quel contesto, era la strada più probabile che il fascismo potesse seguire.

Nei fatti fu quella che seguì.

Bene, dopo lo sfacelo di un paese diviso in due, di un esercito abbandonato a se stesso, di  bombardamenti a tappeto (spesso opinabili, se il termine può essere sufficiente) da parte degli alleati (ma l’Italia era un paese nemico) razzie e deportazioni, la “divisività” dove la si ricerca?

Fra chi, con una decisione per niente facile e banale, decise di provare a vedere se:

    1) fosse possibile intervenire per una Italia diversa da quella fascista, ma anche da quella che si prospettava come  una colonia delle potenze vincitrici;
    2) mettere a punto un sistema di valori opposti a quelli del ventennio, con la dignità del lavoro, dei diritti sociali in primis e dell’avviarsi verso una società progressiva;
    3) pareggiare i conti con gli odi e i rancori covati in 20 anni e cresciuti a dismisura dal 1940 in poi. Ma vorrei ricordare, come ha sottolineato il Prof. Santomassimo,  che il Risorgimento fu assai più “guerra civile” di quanto sia mai stata la Resistenza.

Ecco, quella strada non fu facile. Scontri e conflitti ci furono (e a volte anche gravi) dentro al movimento di liberazione. Nessun movimento è monolitico (non lo era neppure il fascismo)  e aver raccontato di una resistenza pacificata al suo interno è stato probabilmente non solo un errore ma anche una necessaria costruzione “mitica” su cui fondare la  necessaria rinascita della nazione.

Ma al di là delle questioni di contorno non è possibile pensare che la vittoria di una o dell’altra parte possa essere messa sullo stesso piano, anche se, è necessario ammetterlo, l’altra parte era ormai sconfitta.

Però, inviterei tutti a leggere, con la mente sgombra da pregiudizi e perfino dall’antifascismo, i documenti prodotti da quel magma violentissimo che fu la RSI e, dove, la  parabola che aveva portato il duce dalla piccolissima borghesia alle vette dell’ascesa sociale, lo aveva rimesso in mezzo ad una specie di convegno di plebe inferocita che lui probabilmente detestava fino dal 1921 (ma di cui non aveva mai potuto fare a meno).

Davvero c’è qualcosa in quella mortifera rassegna di proclami antisemiti, vaneggiamenti socialisti, polizie fuori controllo (per ovviare ad un esercito che Hitler rifiutò sempre di formare, non fidandosi non tanto di qualche italiano, ma di tutti, compresi i fascisti) torture, razzie, vera e propria devianza criminale, convegni in cui si inneggiava al bolscevismo-fascista (facendo sobbalzare lo stesso duce, evidentemente ormai impotente ma incazzato come una biscia “che li abbiamo combattuti a fare allora i comunisti per 20 anni”?)  che possa assomigliare ad una classe dirigente post-guerra mondiale?

Non era semmai quella una caduta all’inferno cartina di tornasole di una impossibilità di potersi proporre minimamente come una compagine in grado di guidare qualcosa a forma di Stato?

Eppure Mussolini, dopo la conquista del potere, aveva ben rassicurato le classi dominanti del proprio reale operato, non certo teso a favorire l’emancipazione del movimento operaio.

Ecco, la questione della guerra partigiana fu fondamentalmente politica. 

Ovvero, in un conflitto perduto dall’Italia fascista e con il rischio reale di vedere l’Italia scomparire come entità geografica, riprendere in mano la bandiera per non farla ammainare del tutto in una  “resa dei conti fra classi dirigenti” (magari contro il “parvenu” Mussolini diventato il capro espiatorio di tutti  i mali) ed evitare di ritornare a quell’Italia Liberale  responsabile proprio dell’ascesa del fascismo.

Ora, la classe dirigente che uscì da quel contesto non aveva il potere di curare le scrofole, come  nel  libro di Marc Bloch, e neppure portava  le stimmate della santità (per dire dell’esagerazione retorica con cui è stata descritta) ma era una classe che aveva ben compreso l’importanza della partecipazione politica, della complessità di un paese come l’Italia e quale fosse lo stretto percorso che, dopo la guerra, avrebbe dovuto attraversare.

Perché, comunque la si pensi, oltre ai discorsi e alle belle idealità c’è la nuda realtà dei fatti.

Quella nuda realtà che fece sì che, ad esempio.  un dirigente del PCI come Togliatti, abbia compreso, ad un prezzo altissimo all’interno dello stesso mondo della sinistra non solo comunista riverberatosi fino a noi, che, prima di passare alla fase del progetto, bisognava chiudere la sanguinosa guerra che stava martoriando il paese.

Riconobbe il Re e mise da parte ogni rivendicazione sociale. 

Questo fa una classe dirigente.

È ovvio che queste fasi non possono che durare poco, che la politica e le divisioni, il conflitto, riprenda (e non potrebbe essere altrimenti) in maniera più dura di prima.

E però caratteristica delle società non autoritarie è proprio quella di rendere manifesto il conflitto.

Ma la lungimiranza di quel percorso, che fu  drammatico per l’Italia, violentissimo, con efferatezze compiute anche dalla parte dei “buoni” (perché quello era il portato di una violenza covata per 22 anni)  produsse  quel documento fondamentale che è la Costituzione  e pure  la pacificazione reale che ne seguì.

Spesso si legge di resistenza tradita, di amnistie “Togliatti” (termine del tutto impropri, se non fasulli). È vero, ci sono state pagine assai poco edificanti ne dopoguerra: criminali mai puniti, epurazioni mancate, veri e propri ribaltamenti della realtà.

Ma vedere il dopoguerra in negativo rischia di far scomparire la parte positiva, che fu enorme. La partecipazione politica, le lotte per le conquiste sociali, il voto alle donne, l’emancipazione del mezzogiorno. Una classe dirigente spesso proveniente direttamente dai ceti popolari. Davvero tutto questo è da buttare?

Ma c’è di più, quella fase non solo chiuse quello che non fu un semplice intermezzo, ma ne ribaltò le modalità.

La Nazione era ora tesoro di tutti e non solo di chi apparteneva ad un partito. Tanto più che, appena pochi anni dopo rinacque il MSI che al fascismo direttamente si rifaceva.

Certo, non faceva parte di quello che allora si chiamava “Arco Costituzionale”, ma gli fu permesso di esistere, fare politica a tutti i livelli. 

Non era esattamente la stessa cosa di quello che era accaduto a parti invertite.

Ecco, dunque, quella data, dalla quale ormai ci separano 75 anni, nasce certamente da un conflitto (come tutte, o quasi, le date importanti, il mondo pacificato è quello che arriverà  fra qualche miliardo di anni, con la sua scomparsa) ma da quel conflitto si radicò una fase del tutto nuova dell’Italia, in cui, persino chi non ama il 25 aprile, lo può dire, lo può attaccare ed ha tutto il diritto di non celebrarlo.

In Francia la Le Pen, dirigente di un legittimo partito di destra che opera nella legalità, canta la “Marsigliese”, inno rivoluzionario nato da quella rivoluzione che tante teste fece rotolare, spesso anche inopinatamente, ma dei cui valori di base, fondanti della moderna nazione, non è possibile fare a meno.

Certo, il percorso progressivo del secondo dopoguerra ha rallentato da qualche decina di anni e si è poi quasi fermato.

Lo spirito della Costituzione è stato violato e violentato con le modifiche del Titolo V, con l'obbrobrio del pareggio di bilancio, con le antidemocratiche leggi maggioritarie, le elezioni dirette, la fine delle discussioni politiche, la “governance” come finalità, la sanità considerata come un’azienda (le ASL!), il capitalismo finanziario e il liberismo come orizzonte finale delle classi dirigenti, l'abolizione dell'art.18, per tacere della consegna della sovranità popolare a strutture e istituzioni non sorrette e controllate da nessuna scelta democratica.

Una Costituzione che ha visto  assalti continui alla sua struttura tra i quali la riduzione dei parlamentari grida vendetta.

E poi le basi NATO in Italia, le azioni di “polizia internazionale” in violazione del rifiuto della guerra.

Potremmo stare qui una settimana intera.

Ecco, ma di tutto questo possiamo accusare il 25 aprile e gli uomini e le donne che vi parteciparono, o, forse, è stato il declino delle classi dirigenti, via via peggiorato e trascolorato in mera gestione (quando va bene) dell’esistente e, nel contempo il nostro declino per avere accettato questo stato di cose?

Purtroppo la riduzione dell’importanza di quella data è avvenuta in un bruttissimo contesto c.d “bipartisan” che ha annebbiato, con una masochista operazione, oltre alla realtà storica del 25 aprile  (che il 25 aprile del 1945 è avvenuto nel passato e quindi, di per sé immodificabile) anche e soprattutto l’importanza di un punto fondamentale nella storia di questo paese.

Ebbene il 25 aprile è insieme la festa degli italiani ma non è anche una festa “bipartisan” (altro termine obbrobrioso).

Non lo può essere. 

Non lo può essere per il motivo opposto al fagocitamento della nazione all’interno del fascismo.

Nessuno è obbligato a celebrare e a riconoscersi in alcunché; ma per uno di quei strani percorsi della storia (quali ad esempio le ribellioni degli schiavi contro la Francia proprio sulle parole della rivoluzione francese) proprio  quei valori contenuti in quel percorso fanno sì che sia possibile anche ritenere il 25 aprile una iattura “divisiva,  talmente “divisiva “che permette a chiunque anche di non accettarla.

E la caratteristica di una data fondante è proprio quella di non poterne fare a meno, neppure se la si vuole  contestare.

Perché riconosce nella presenza delle diversità la natura stessa di uno stato democratico. E la sua stessa sconfitta sarebbe proprio nel volerla “dimenticare” sotto una fasulla pacificazione che non riconosca la complessità in cui ci muoviamo.

Che lo si voglia o no, il 25 aprile del 1945 è una data periodizzante e che segna un percorso e non un altro.

Per non negare (e rispettare, anche se non sempre) le diversità non si potrà certo arrivare a negare o a capovolgere la realtà.

Superare il 25 aprile vorrebbe dire, semplicemente, superare lo stato democratico repubblicano, anche nella versione assai acciaccata degli ultimi 20 anni.

Di questo vi deve essere piena coscienza.

 

Andrea Bellucci, aprile 2020

 
 
 

IL TRISTO MENTITORE

Post n°136 pubblicato il 30 Marzo 2020 da jonwoo1998
 

  1.  A me pare di una ovvietà lapalissiana il fatto che una nazione che porta aiuti ad un’altra abbia sempre, perlomeno, l’idea di riportare qualcosa a casa. Chi lo farà per vedere anche una diversa considerazione internazionale (Albania), chi la possibilità di ottenere un allentamento dell’embargo (sia quello, suicida per l’Italia, nel caso della Russia, o quello, criminale e pluridecennale di Cuba), o la costruzione e l’allargamento di un consenso verso i progetti di espansione commerciale secolare (la Cina). Non solo mi pare ovvio ma mi sembra che questo sia uno dei razionalissimi perni attorno a cui dovrebbe ruotare la collaborazione fra stati.
  2. Invece, gli Stati di quella “Unione” (separare gli Stati dall’Unione per assolvere la seconda – unica - astrazione è niente altro che l’atteggiamento infantile che ricorda l’infanzia nella teoria di Piaget, prima della “permanenza dell’oggetto) che sarebbe nata per un’idea completamente astratta e anche un po’ folle, invece di sollevarsi come un sol uomo per aiutare un proprio sodale, si sono richiamati a, peraltro di norma stupidissime, regole, accordi, bilanci, discipline che, dovrebbe essere evidente a chiunque non abbia il salame sugli occhi, saltano in caso di un emergenza planetaria. Aggiungendo inoltre i toni Luteriani della “predestinazione” per la propria colpa di essere vittima dell’epidemia.
  3.  Come ha detto il prof. Doni. sarebbe come se gli USAdopo l’attacco a Pearl Harbour avessero risposto con una gara sul Consip.
  4.  Burocratizzazione, ideologia ordoliberista, che è altra cosa, e assai più invasiva di quel neoliberismo che in pratica non esiste più. Questa è una ideologia bella e buona quindi in grado di piegare la realtà e di costruirne un’altra, parallela, a cui si da’ vita e parola come al Golem. Su questa ideologia è stata fondata l’UE. Una ideologia che ha deciso di essere verità e dichiarare ideologico tutto il resto, ma che è del tutto incapace di affrontare le emergenze che, in questa visione distopica, non dovrebbero esistere, essendo il sistema stesso in perenne stato di emergenza.
  5.  Questa incapacità, perfino di nascondere il sovrano (parola appropriata) disprezzo verso i propri soci in affari, e di comunicare una per quanto ipocrita solidarietà è oggi sotto gli occhi di tutti.
  6. Non si tratta qui di uscire o meno dall’euro, di lanciarsi in proclami ideologici e difficilissimi da comprendere per chiunque non abbia un master in economia o di riportare discorsi astratti e teorici contro altri discorsi astratti e teorici. Non funziona così. È la cruda verità che si incarica di far vedere, per quanto si cerchi ora di correre ai ripari nelle maglie di una informazione incapace di tappare le falle, in maniera dolorosissima cosa c’è dietro il muro. Gli stati cadono, le storie finiscono, le macerie crollano. E per quanto si possa mantenere l’incapacità di accettare la realtà (che è sempre assai più solida e spiacevole delle “narrazioni” inconcludenti) ci troveremo, e di fatto ci siamo già, dentro un mondo diverso, dove tutta una serie di paradigmi, già criticabili in precedenza, trovano ora la critica più devastante che esista: la prova dei fatti.
  7. In ultimo, la sinistra (non stiamo qui a fare distinzioni fra sinistra e sinistra. Non ne vale la pena) spogliata e abbandonata da utopie millenaristiche (perché questo era ciò che si travasava nella maggioranza di quel popolo) ha sposato con la stessa fede che aveva nell’”addavvenì baffone” la costruzione di un sistema distopico e nello stesso tempo arrabattato il cui malfunzionamento era il suo stesso funzionamento (bisogna vedere per chi è il “mal”).
  8. avrebbe potuto dedicare la propria foga irrazionale (razionalissima per altri soggetti e, anzi, neppure fede) a ben altri progetti e sarà invece dissolta insieme ad esso.
  9.  Come avrebbe scritto Hobsbawn: benvenuti in anni interessantI.

 
 
 
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