Benedicaria

L’allegra Quaresima e la sirrata di la vecchia


Nella sapienza popolare il trapasso dall’orgia del Carnevale all’austerità della Quaresima e alla letizia della Pasqua era espressa dal proverbio: Nesci tu, porcu manciuni; trasi tu, sarda salata; veni tu, donna disiata.Dove il maiale rappresenta il grasso carnevale, ‘a sarda salata le privazioni della Quaresima e la donna tanto desiderata è la Pasqua.Tra i proverbi sulla Quaresima ce ne sono alcuni molto noti come questo del XVI secolo che recita:Pri un sasizzottu vogghiu guastari la Quaresima, quando si intende rompere il digiuno;e poi quello ancora oggi molto conosciuto anche nelle nostre contrade:Marzu non veni mai senza Quaresima, perché nell’arco del calendario, all’inizio o alla fine, almeno qualche giorno della Quaresima toccherà a questo mese.La Quaresima, dal latino cristiano quadragesimam diem, cioè ‘quarantesimo giorno’ prima della settimana santa e, quindi, a rigor di logica si dovrebbe indicare con questo nome solo il mercoledì delle Ceneri, rappresentava un periodo di penitenza, di digiuno, di astensione dalle carni e da tutto ciò che era godimento per il corpo, per potersi concentrare meglio sulla caducità delle cose terrene, in attesa che la resurrezione del Cristo aprisse l’animo umano alla vita eterna. Con l’entrata della Quaresima, gli indovinelli che avevano pervaso e pepato il tempo carnevalesco, assumevano un significato irriverente verso la Divinità che si immolava per i peccati dell’uomo, per cui se ne faceva assoluto divieto il pronunciarli, nonostante qualcuno di essi alludesse proprio alla Quaresima e ai divieti che essa imponeva: C’è una mamma che ha quaranta figlioli gli dà da mangiare solo rape e fagioli La stessa sacralità dell’indovinello deve essere ricercata nei giochi che punteggiavano, un tempo, tutto l’arco della Quaresima e che solo in apparenza ne attenuavano la severità. Anche la fissazione in momenti ben precisi e il ripetersi degli atti sembrano conferirgli, attraverso un simbolismo ludico, significato di riti sacrificali ormai dimenticati.Fra i vari giochi quaresimali s’inseriva una rappresentazione di sapore paganeggiante. Infatti, come il Carnevale trova la sua raffigurazione antropomorfica nell’omaccione ingordo e gaudente, così la Quaresima assumeva l’aspetto d’una megera segaligna a cui si dava il nome di Vecchia, Monaca, o, più esplicitamente, Quaresima. La Vecchia era un fantoccio di cenci o di cartone che il giorno di Segavecchia, il giovedì di mezza Quaresima, faceva la sua unica apparizione, percorrendo su un carro le vie del paese. La sua effimera vita si concludeva tragicamente in piazza dove veniva segata a metà, volendo così significare che metà del periodo quaresimale era già trascorso. Da tempo immemorabile è invece scomparsa in Sicilia la sirrata di la vecchia, e se prestiamo fede al Villabianca, l’ultima rappresentazione che si ebbe a Palermo porta la data 1737. Il Pitrè, che conobbe l’usanza attraverso i documenti antichi, così scrive: «Una vecchia veniva trasportata in Palermo sopra un carrozzone tirato da buoi e accompagnata e assistita a ben morire da due lazzari vestiti alla maniera de’ soci della Compagni a de’ Bianchi, il cui istituto è, come si sa, di assistere i condannati a morte, ma coperto il capo di grandi e certo non odorosi baccalari. Nella piazza di Ballarò era alzato un palco, e la vecchia tra la comune e lieta aspettazione vi saliva rassegnata a subire l’estremo supplizio. Ed ecco che due finti carnefici in mezzo a una tempesta di battimani e di evviva segarle con vera impertubabilità il collo o meglio una vescica ripiena di sangue precedentemente acconciatale, donde fluivane in larga copia il sangue stesso, intanto che la vecchia così segata fingea venir meno per isfinimento morendo in lei la ingrata Quaresima di penitenza».Il Pitrè, però, non conobbe la Mammaserra, usanza che si ricollega senz’altro alla Segavecchia, pur avendo subito la sovrapposizione del mito più antico della Morte munita di falce, e che è riuscita a sopravvivere fino a circa un quarto di secolo fa a Carlentini, in provincia di Siracusa, di cui gente sui quarant’anni serba con piacere ancora il ricordo.La Mammaserra viveva legata al Poju i Pànculi, al poggio di Pancali, (un vulcano spento nelle immediate vicinanze del paese) e solo a menza Quarantana, cioè dall’indomani di Carnevale a cuntari vinti jorna, riusciva a sciogliersi. Verso mezzogiorno, avvolta in uno scialle che lasciava intravedere le sembianze, rese orribili dalla fantasia di chi la temeva, un campanaccio al collo, un sacco, scendeva in paese e ne percorreva le strade ululando e agitando la falce che stringeva in mano, come a voler tagliare le teste dei bambini che incappavano nel suo cammino. Quindi, compiuto il suo giro, tornava al monte per dimorarvi un altro anno. .La Vecchia iberica, che vedeva la luce il mercoledì delle Ceneri, si distingueva talvolta per essere raffigurata con sette gambe. Il sabato o la domenica, man mano che trascorrevano le settimane di penitenza, ne perdeva una. Alla fine, il sabato santo, veniva decapitata, cedendo il posto alla gioia pasquale. A questo punto non ci rimane che chiederci: la Segavecchia è espressione di religiosità cristiana o piuttosto sopravvivenza d’un antico rito pagano? Come già per il Carnevale, le tesi divergono. Appropriatamente ne sintetizza il pensiero delle opposte fazioni Julio Caro Baroja (antropologo, storico e linguista spagnolo, studioso del folklore e delle tradizioni popolari) quando dice che “Con buona pace di Grimm, Mannhardt e Frazer, credo che la nostra rappresentazione della Quaresima concordi con lo spirito medievale cristiano europeo; e trasformarla in una sopravvivenza significa privarla della sua maggiore forza espressiva; privarla del carattere che la contrappone alle violenze carnali dell’epoca anteriore (cioè del Carnevale, n.d.r.), in questa maniera la cremazione della Quaresima che ci accingiamo a studiare e la sepoltura del Carnevale che abbiano già descritto risultano sotto questa luce la stessa cosa” (Cit. in Julio Caro Baroja, El carnaval, Madrid, Taurus Ediciones, 1979, p. 135) Anche Vincenzo Dorsa (studioso delle tradizioni popolari della Calabria e della cultura albanese) propende per un un’origine cristiana, adducendo che l’usanza di segar la vecchia sembra derivare da sega, arnese con il quale S. Giuseppe è spesso raffigurato nell’iconografia popolare. Anzi, poiché il 19 marzo cade all’incirca a metà Quaresima, sarebbe proprio il Santo falegname a «segare», a «dividere», il periodo penitenziale. (Cit. in Tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze popolari della Calabria Citeriore – 1884, p. 44)(liberamente tratto da uno scritto di Sebastiano Rizza: L’allegra Quaresima. Sicilia - Dialetto cultura e tradizioni popolari)