Bibliofilo arcano

Sonetti di Isabella di Morra


Delle 13 poesie della di Morra, ben 10 sono i sonetti che riporto qui di seguito.1I fieri assalti di crudel fortunaScrivo piangendo, e la mia fresca etate;Me, che in sì vili, ed orride contrateSpendo il mio tempo senza loda alcuna.Degno il sepolcro, se fu vil la cunaVò procacciando con le Muse amate;E spero ritrovar qualche pietate,Malgrado della cieca, aspra, importuna.E col favor delle sagrate dive,Se non col corpo, almen coll' alma sciolta,Esser in pregio a più felici rive.Questa spoglia dov' or mi trovo involta,Forse tale alto Rè nel Mondo vive,Che in saldi marmi la terrà sepolta.2Sacra Giunone, se i volgari amoriSon dell' alto tuo cor tanto nemici,I giorni, e gl' anni miei, chiari, e feliciFa con tuoi casti, e ben concetti ardori.A te consacro i miei verginei fiori,A te, o Dea, ed ai tuoi pensieri amici,O delle cose sola alme beatrici,Che colmi il Ciel de' tuoi soavi odori.Cingimi al collo un bel dorato laccioDe' tuoi più cari, ed umili soggetti;Che di servir a te solo procaccio.Guida Imeneo con sì cortesi affetti;E fà sì caro il nodo, ond' io m' allaccio,Che una sol alma regga i nostri petti.3D'un alto monte onde si scorge il maremiro sovente io, tua figlia Isabella,s'alcun legno spalmato in quello appare,che di te, padre, a me doni novella.Ma la mia adversa e dispietata stellanon vuol ch'alcun conforto possa entrarenel tristo cor, ma, di pietà rubella,la calda speme in pianto fa mutare.Ch'io non veggo nel mar remo né vela(così deserto è lo infelice lito)che l'onde fenda o che la gonfi il vento.Contra Fortuna alor spargo querelaed ho in odio il denigrato sito,come sola cagion del mio tormento.4Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato,Della tua ricca, e fortunata riva,E della terra, cui da te derivaIl nome, che al mio core oggi è sì grato;S' ivi alberga colei, che il Cielo iratoPuò far tranquillo, e la mia speme viva,Malgrado dell' acerba, e cruda Diva,Ch' ognor s' esalta del mio basso stato.Non men l' odor della vermiglia rosaDi dolce aura vital nodrisce l' alma,Che soglion farsi i sacri Gigli d' oro.Sarà per lei la vita mia giojosa,De' gravi affanni deporrò la salma,E queste chiome cingerò d' alloro.5Non sol il ciel vi fu largo e cortese,caro Luigi, onor del secol nostro,del raro stil, del ben purgato inchiostro,ma del nobil soggetto onde v'accese.Alto Signor e non umane impreseornan d'eterna fronde il capo vostro,cose più da pregiar che gemme od ostro,che dai tarli e dal tempo son offese.Il sacro volto aura soave inspiraal dotto petto, che lo tien fecondodi glorïosi, anzi divini carmi.Francesco è l'arco de la vostra lira,per lui sète oggi a null'altro secondo,e potete col son rompere i marmi.6Fortuna che sollevi in alto statoogni depresso ingegno, ogni vil core,or fai che 'l mio in lagrime e 'n doloreviva più che altro afflitto e sconsolato.Veggio il mio Re da te vinto e prostratosotto la rota tua, pieno d'orrore,lo qual, fra gli altri eroi, era il maggioreche da Cesare in qua fusse mai stato.Son donna, e contra de le donne dicoche tu, Fortuna, avendo il nome nostro,ogni ben nato cor hai per nemico.E spesso grido col mio rozo inchiostroche chi vuole esser tuo più caro amicosia degli uomini orrendo e raro mostro. 7Ecco, che un altra volta, o valle inferma,O fiume alpestre, o rovinati sassi,O ignudi spirti di virtute cassi,Udrete il pianto, e la mia doglia eterna.Ogni monte udirammi, ogni cavernaOvunque arresti, ovunque io mova i passi;Che fortuna, che mai salda non stassiCresce ognora il mio male, ognor l' eterna.Deh mentre, ch' io mi lagno, e giorno, e notte,O fere, o sassi, o orride rovine,O selve incolte, o solitarie grotte;Ulule, e voi del mal nostro indovine,Piangete meco, a voci alte interrotteIl mio più d' altro miserando fine.8Torbido Siri, del mio mal superbo,Or, ch' io sento da presso il fine amaro;Fa tu noto il mio duolo, al Padre caro,Se mai quì il torna il suo destino acerbo.Digli, come morendo disacerboL' aspra fortuna, e lo mio Fato avaro,E con esempio miserando, e raroNome infelice, alle tue Onde serbo.Tosto, ch' ei giunga alla sassosa riva,(A' che pensar m' adduci, o fiera stella)Come d' ogni mio ben, son cassa, e priva;Inqueta l' onde, con crudel procella,E dì: me accrebber sì, mentre fu vivaNon gl' occhi nò, ma i fiumi d' Isabella.9Se a la propinqua speme nuovo impaccioo Fortuna crudele o l'empia Morte,com'han soluto, ahi lassa, non m'apporte,rotta avrò la prigione e sciolto il laccio.Ma, pensando a quel dì, ardo ed agghiaccio,ché 'l timore e 'l desio son le mie scorte:a questo or chiudo, or apro a quel le portee, in forse, di dolor mi struggo e sfaccio.Con ragione il desio dispiega i vannied al suo porto appresso il bel pensieroper trar quest'alma da perpetui affanni.Ma Fortuna al timor mostra il sentieroerto ed angusto e pien di tanti inganni,che nel più bel sperar poi mi dispero. 10Scrissi con stile amaro, aspro e dolenteun tempo, come sai, contra Fortuna,sì che null'altra mai sotto la lunadi lei si dolse con voler più ardente.Or del suo cieco error l'alma si pente,che in tai doti non scorge gloria alcuna.e se de' beni suoi vive digiuna.spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.Né tempo o morte il bel tesoro eterno,né predatrice e vïolenta manoce lo torrà davanti al Re del cielo.Ivi non nuoce già state né verno,ché non si sente mai caldo né gielo.Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.