Teilhard de Chardin

Uno scrittore parla di Teilhard


Tom Wolfe stregato dal gesuita “eretico” «Me ne frego dei teologi cristiani. Mi arrabbio perché mantengono il Cristianesimo in uno stato di nanismo mentre è l’unico phylum religioso capace di armonizzare l’Universo». Alla sua scomparsa, avvenuta nel 1955 nella sua stanza di Manhattan a New York, il nome di Teilhard de Chardin circola solo nella ristretta cerchia degli scienziati. Membro della Compagnia di Gesù, delle sue fatiche si conosce solo l’attività di paleontologo e geologo, non quella di uomo di fede e di pensatore. Soltanto dopo la sua morte le sue idee iniziano a farsi largo e ad attirare l’attenzione al di fuori degli ambienti ecclesiastici. Prima, a impedire la diffusione del suo capolavoro Il fenomeno umano e degli altri libri ci pensava un monito del Sant’Uffizio che lo accusava di panteismo e scientismo per il sostegno dato alla teoria dell’evoluzione. Lui, da buon gesuita, rispose rispettando il voto d’obbedienza. Così il dubbio se fosse un eretico o un visionario attese un bel po’ prima di coinvolgere il mondo delle lettere.Per lo scrittore americano Tom Wolfe non ci sono dubbi: Teilhard è un profeta. In un ritratto che compare nella raccolta di saggi La bestia umana, il nome di Teilhard figura a fianco di Marshall McLuhan come uno degli anticipatori dell’Era digitale: «Il mondo si era ristretto. L’Era digitale stava rendendo obsoleti i concetti di confini nazionali e altre antiche nozioni geografiche. Il mondo era unificato... on-line. E da questa convinzione è nato il concetto di convergenza, coniato dal gesuita Pierre Teilhard de Chardin». Con l’idea di convergenza, elaborata intorno agli anni ’40, riesce a prevedere i paesaggi della globalizzazione. La fusione dei mercati, il dispiegarsi sul pianeta del Web, cosa se sono se non una convergenza di diverse realtà che cominciano a intrecciarsi? «Nel ventesimo secolo Dio stava creando», racconta sempre Wolfe, «una convergenza. Grazie alle tecnologie la varietà sparpagliata di Homo Sapiens veniva unita in un sistema nervoso per l’umanità che Teilhard ha chiamato noosfera». Ma non manca chi guarda alla sua opera con occhi critici. È il caso di Eugenio Montale quando scrive: «La pelle mi si aggriccia, quando ti ascolto». Anche se il cardinale Ratzinger, non ancora salito al soglio pontificio, ammette nei Principi di teologia cattolica che la Gaudium et spes risente del pensiero del gesuita francese.Un uomo controverso e discusso, dunque, che però sarà unico tra i teologi e gli scienziati del secolo passato, soprattutto tra quelli che hanno cercato di conciliare scienza e religione. Ma chi è Teilhard de Chardin? Il suo pensiero non si estingue nell’idea di convergenza, né la sua vita finisce chiusa in uno studiolo. Nato nel 1881 in Alvernia in una famiglia numerosa, Teilhard manifesta subito le sue passioni. La Materia diventa la sua ossessione quando, ancora imberbe, confessa di voler cercare il «Dio del ferro». Più tardi annoterà: «Vorrei immergermi nella Materia, recuperare ogni scintilla della fiamma celeste racchiusa nella triplice concupiscenza: santificare la potenza imprigionata nell’amore, nell’oro e nell’indipendenza con uno spirito di accettazione e di divinizzazione delle Potenze della Terra». Tutto il suo sforzo è teso a superare la frattura che separa Materia e Spirito, grazie alla teoria dell’evoluzione secondo cui la vita procede sempre in avanti verso il punto Omega in cui queste due dimensioni si fondono.De Chardin si recherà, tra il 1905 e il 1908, in un collegio dei gesuiti al Cairo, come lettore di chimica e fisica. Nel corso delle escursioni nel deserto, visiterà le meraviglie degli antichi egizi, le piramidi, Luxor e l’oasi del Fayyum, e non mancherà di scoprire nuove varietà di pesci, imenotteri, lepidotteri, stelle marine e piante fossili, che recano tutte il suo nome: Teilhardi. Al rientro dall’Egitto, durante un soggiorno di studio in Inghilterra gli capita di prendere parte a una missione che condurrà al ritrovamento dell’uomo di Piltdown, l’anello mancante della catena evolutiva. La scoperta avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo... se solo fosse stata vera. Anni dopo risulterà tutta una montatura orchestrata dal capo della spedizione ammassando un’accozzaglia di resti ossei di uomini e animali. Nei suoi anni di esilio in Cina, a partire dal 1926, Teilhard rimedierà a questo incidente contribuendo alla scoperta dell’uomo di Pechino, il cosiddetto SinanthropusInstancabile viaggiatore, attraverserà il deserto del Gobi, batterà le regioni inesplorate dell’Abissinia e della Somalia, guidato in queste da uno degli scrittori più affascinanti di Francia, il pirata e trafficante d’armi Henry de Monfreid. La Birmania e l’India settentrionale non sfuggiranno alla sua curiosità. L’Impero celeste lo attraverserà in lungo e in largo, dalle vallate del fiume Yangtze allo Shansi. Sete di scoperte, ma anche desiderio di mettersi alla prova. Quando parte per la Cina lo farà come un pluridecorato. Negli anni della Grande guerra, non vuole approfittare del suo abito talare per scampare al fronte. Farà di tutto per stare al fianco dei soldati in prima linea, meritandosi la medaglia d’oro al valor militare. Nessuna delle grandi battaglie lo vede assente: da Verdun alla Marna presta soccorso ai feriti e si avventura sul campo per recuperare i mutilati.Nonostante questa vita avventurosa e di ricerca, non rientrerà, se non per brevi periodi, in Francia. Si eclisserà dalla vita terrena Oltreoceano, consapevole di «avere santificato tutte le potenze della Terra e di aver portato alla luce ogni scintilla di luce divina che vi soggiornava».Dal   quotidiano  LIBERO del 25/6/2009