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« Ci sono donne...Quanti  giochi possiamo ... »

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Big Creek, West Virginia. La polizia locale, dopo aver ricevuto una telefonata anonima, fa irruzione in un’abitazione isolata, da dove esce barcollando Megan Williams, una ventenne di colore, che con gli occhi pesti e un filo di voce invoca il loro aiuto. La ragazza racconterà dopo alla centrale di essere stata fatta oggetto di sevizie e di torture per una settimana, di aver subito abusi sessuali e di essere stata ripetutamente pugnalata ad una gamba e stretta al collo con una fune, di essere stata costretta a mangiare feci di topi e di cani e di bere acqua dalla tazza della toilette.

 

 

Un gruppo composto da sei persone, di cui una coppia madre-figlio, con il quale Megan aveva avuto una relazione da lei troncata, madre-figlia e altri due ragazzi, tutti quanti con precedenti penali (si parla di 108 incriminazioni) ha tenuto sotto sequestro la ragazza, sottoponendola a forme svariate di tortura, che probabilmente neppure la mente più diabolica avrebbe potuto lontanamente prospettare.

 

 

 

Cosa si nasconde dietro ad un crimine così efferato? Che ragioni possiamo trovare, ammesso che sia lecito farlo, che possano in qualche modo aiutarci a comprendere ciò che sta dietro, senza per questo scadere nel consueto “psicologismo buonista”, sempre pronto a giustificare ciò che in realtà non ha ragione di essere giustificato? Nella fattispecie, si può parlare di odio razziale, o forse di degrado sociale, o anche di lucida e macabra follia?
Certamente alle spalle vi è un substrato di povertà, sicuramente i meccanismi psicologici che presiedono questi atti sono di natura fortemente patologica; mi trovo tuttavia in difficoltà, per non dire in disaccordo, nell’invocare l’odio razziale come motore unico o principale di questa gratuita barbarie.

 

Per deformazione professionale sarei piuttosto propensa a riflettere sulle dinamiche psicologiche legate a personalità psicopatiche, anche se la brutalità delle violenze perpetrate spalanca orizzonti che potrebbero riguardare più da vicino la psichiatria. Un macabro ingrediente di questa vicenda è rappresentato sicuramente dal sadismo: questi individui (chiamarli persone in questo caso sarebbe troppo) hanno agito per il gusto di farlo, mossi dal piacere di procurare dolore e, soprattutto, di esercitare una sorta di dominio totale sulla persona della vittima. Poco importa che la povera Megan fosse di colore: Megan poteva essere bianca, nera, gialla o blu; comunista, ebrea, fascista; la cosa fondamentale era schiavizzare la ragazza, deumanizzarla, renderla oggetto di piacere. Non un fine esterno, solo un gratuito desiderio di prolungare  l’atto (il sadico non uccide, il sadico tortura perché in questo cerca una relazione), per trarre vantaggi interni, cioè al servizio della propria personalità.

 

           

 

 

 

 

Ma c’è un secondo elemento chiave che rende inaudita tutta la vicenda. Tutto questo è avvenuto sotto la macabra regia di una donna di 49 anni, Frankie Brewster, madre dell’ex ragazzo di Megan, già condannato nel 1994 per omicidio di primo grado, e che ha scontato la pena con 6 anni di reclusione … A questo punto è lecito domandarsi: Perché una pena così blanda per un reato così grave? Quali attenuanti, quali meccanismi processuali, quali “perizie psichiatriche ballerine” o quali presunte buone condotte possono aver giustificato una pena così ridotta? Non abbiamo elementi per rispondere a queste domande, così  come non disponiamo di sufficienti informazioni. Ritornando alla nostra vicenda, a monte può esserci una relazione simbiotica con il proprio figlio a sfondo fobico, che può averla indotto a credere che la ragazza fosse responsabile di aver inferto in lui una profonda ferita narcisistica (e, quindi, per contraccolpo simbiotico, anche a se stessa); ciò che colpisce in modo drammatico è il grado di suggestione esercitato da questo soggetto nei confronti del gruppo e come si sia creato una sorta di legame di fascinazione ipnotica, tale da far sì che tutti si comportassero secondo le sue ingiunzioni prescrittive.

 

Infine, appunto, il gruppo, questo composto di individui con biografie diverse, ma reso omogeneo dalla presenza di alcuni denominatori comuni: psicopatia, degrado e povertà, storie di abusi e maltrattamenti subiti e provocati e, soprattutto, precedenti penali di consistente entità.
Il gruppo come branco, il gruppo che attacca e si ciba dello stesso pasto sacrificale, in una escalation che si autoalimenta senza soluzione di continuità.

 

 

Che dire di tutto questo? A prescindere da una ricerca analitica di possibili cause, forse accademica e leziosa, ma per certi aspetti doverosa per evitare di compiere erronee attribuzioni  (tentare di capire è meglio di rifiutarsi di capire), occorre ribadire che la comprensione psicologica non deve in alcun modo interferire con il corso della giustizia (tentare di capire non significa giustificare e scusare), che deve comunque percorre binari di assoluta rigorosità e severità. Non ci sono scuse, solo ragioni che devono farci riflettere sulla necessità di operare prima di tutto in termini di prevenzione, in secondo luogo di riabilitazione detentiva. Tra sconforto, incredulità, profonda tristezza, e, soprattutto, tanta tanta rabbia, un pensiero a Megan e alla strada che ora deve percorrere per riconquistare un minimo di fiducia in questa umanità lesa e deturpata, della quale è comunque chiamata a farne parte

 

scritto da: morton0   su: SCHERZO O FOLLIA?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
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