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I retroscena del caso Mancini: il primo blogger condannato in Italia per diffamazione

Il caso Roberto Mancini: il blogger non è responsabile dei commenti altrui, ma forse questa vicenda insegna di più.

 

I

fatti risalgono al 2005 quando, dal blog “Il bolscevico stanco” residente sulla piattaforma Blogspot (oggi Blogger) di proprietà Google, un anonimo blogger valdostano, utilizzando il nickname ”Generale Zhucov” cominciò a lanciare strali contro  politici e giornalisti della sua regione, suscitando le ire dei malcapitati protagonisti dei suoi post.
In breve tempo il blog registrò 80.000 accessi giungendo però agli onori della cronaca solo quando, nel maggio del 2006, in seguito a quattro querele per diffamazione sporte da altrettanti giornalisti ed una denuncia presentata dal proprietario di un sito web, il tribunale di Aosta pronunciò la prima condanna italiana per diffamazione a mezzo blog.
Si era scoperto che, sotto lo pseudonimo “Generale Zhuvoc”,  si nascondeva in realtà Roberto Mancini, giornalista pubblicista valdostano che, in relazione al contenuto di suoi due post, fu condannato in primo grado al pagamento di una multa di 3 mila euro più le spese processuali ed una previsionale dell’importo di 1500 euro per ciascuna delle parti offese. Nel corso dell’indagine era stato sequestrato il computer personale del Mancini, rinvenendovi materiale riconducibile alla redazione del blog “Il bolscevico stanco” nonché documenti riguardanti alcuni iscritti all’ordine valdostano dei giornalisti di cui il Mancini era stato vice-presidente. La condanna fu tuttavia relativa al ruolo di blogger del Mancini e non già alla sua professione di giornalista, dal momento che anche i blogger possono essere responsabili di diffamazione, con in più l’aggravante dell’uso di internet che è da tempo considerato “mezzo di pubblicità”.
Per quanto la multa inflitta dal tribunale di  Aosta fosse stata “leggera” (tenuto conto che i risarcimenti per le cause di diffamazione partono in genere da 5.000 euro), il caso ebbe immediatamente vasta eco sia sui media tradizionali sia nel mondo dei blogger, soprattutto in relazione al fatto che il Mancini, oltre ad essere ritenuto responsabile di diffamazione per quanto direttamente scritto nel proprio blog, fu altresì riconosciuto responsabile di “omesso controllo” in relazione ai commenti pubblicati dai propri lettori. Si parlò, a riguardo, di assimilazione della figura del  blogger a quella del direttore di giornale, creando un pericoloso precedente che valse a Roberto Mancini la solidarietà dell’intera blogosfera e fra gli altri anche di Reporters sans frontieres.

A distanza di quattro anni la Corte di Appello di Torino ha riformato la sentenza di primo grado, confermando la condanna per diffamazione, riducendone la pena all’importo di 1000 euro, ma soprattutto, sancendo in modo inequivocabile che il blogger non possa essere ritenuto responsabile dei commenti altrui pur essendo nella condizione di poterli cancellare.
In attesa di leggere le motivazioni della sentenza e comprendere sino a che punto ed in quali termini possa valere la irresponsabilità del blogger per omesso controllo (e penso soprattutto ai blog moderati), la mia attenzione sul caso Mancini si sposta all’antefatto delle querele e ciò in relazione a quanto ho appreso leggendo le 111 pagine delle motivazioni alla sentenza Vividown, quella che ha comportato la condanna di alcuni dirigenti di Google in relazione alla presenza, su You Tube, di un video pesantemente lesivo della dignità di un ragazzino down.

Le 111 pagine redatte dal giudice Oscar Magi testimoniano infatti una politica inaccettabile da parte di Google con riferimento ai casi di diffamazione a mezzo internet, dimostrando che,  prima ancora di sporgere querela contro il gestore del blog “Il bolscevico stanco”, i legali di qualcuno tra i quattro giornalisti diffamati, avevano richiesto inutilmente allo stesso Google (proprietario della piattaforma Blogger), la rimozione dei contenuti diffamatori.
Gli stessi consulenti legali di Google, nelle mail scambiatesi con gli addetti al controllo dei contenuti, avevano ravvisato nei post pubblicati dal Mancini un contenuto palesemente diffamatorio, ma, ciò nonostante, lo Staff di Google aveva reagito con atteggiamenti di chiusura e con risposte pretestuose.
Si richiedeva in sostanza che il carattere diffamatorio dei contenuti per i quali veniva chiesta la rimozione, fosse dimostrato dalla presenza di una sentenza di tribunale e ciò, in aperto contrasto con la disciplina vigente nel nostro Paese, secondo la quale gli hosting provider sono tenuti alla rimozione dei presunti contenuti illeciti, semplicemente previo segnalazione degli stessi.
In quest’ottica potrebbe quindi accadere che persone comuni, pesantemente diffamate, messe alla berlina attraverso internet o fatte oggetto di cyberstalking,  in un momento di fragilità psicologica ed a fronte del muro opposto dai provider stranieri, commettano sciocchezze su se stessi in attesa che qualcuno si degni di rimovere i contenuti offensivi e molesti nei loro confronti.
Vi invito a cliccare i link inseriti nel post per leggere gli stralci della motivazione alla sentenza Vividown,  avvertendovi che la condotta seguita nel 2006 da Google è in realtà comune, ancora oggi, ad altri hosting provider stranieri, salvo quando il malcapitato possa vantare ruoli e/o conoscenze tali da ottenere immediata soddisfazione e mi riferisco ad es. al caso dello stesso giudice Oscar Magi che, successivamente alla pronuncia della sentenza Vividown è stato fatto oggetto di messaggi intimidatori mediante il suo profilo sul social network Facebook.
Oscar Magi ha infatti dichiarato:” mi sono arrivate centinaia di lettere offensive di protesta e soprattutto di minaccia. Su alcune ho dovuto addirittura chiedere l’intervento dei gestori della piattaforma, segnalando l’esistenza di persone minacciose”.
Oscar Magi ha quindi richiesto l’intervento su “lettere”; presumibilmente dunque su “messaggi privati” spediti attraverso il sistema di messaggistica interna presente su Facebook. Presumo altresì che abbia ricevuto soddisfazione. Non altrettanto accade sistematicamente ai comuni mortali quando, i contenuti diffamatori e/o molesti, siano pubblicati sui social network e sulle piattaforme blog di proprietà di hosting stranieri.

Link1 - Link 2 - Link3 - Link4 -

Morale della favola: meglio essere iscritti ad una community nostrana che risponde in forma umana e non già attraverso bot alle nostre segnalazioni di abuso che dover scannerizzare copie delle nostre querele ai provider stranieri per poter ricevere un minimo di tutela o peggio ancora commettere una sciocchezza per la vergogna delle cose scritte nei nostri confronti in attesa che qualcuno si decida a rimuoverle.
Morale della favola due: se questi provider vogliono fornire servizi in Italia, si attengano alla nostra legislazione non accampando la localizzazione negli USA dei propri server.

 

P.S Nei prossimi giorni pubblicherò un post sulla sentenza Vividown, nel quale leggerete le cose che nessuno vi ha detto.

 

 
 
 
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