“E non si è soli quando un altro se ne è andato, si è soli se qualcuno non è mai venuto”
L’atro giorno, ascoltando la radio, mi sono ritornate all’orecchio le parole di una canzone di Vecchioni di qualche anno fa. Lasciandomi trascinare dalle note di questa canzone, mi sono improvvisamente tornate alla mente le parole di un bambino di nome Paolo, un piccole principe di un altro pianeta, che a seguito della scomparsa prematura della sua mamma, mi disse: ”alla sera penso sempre che la mamma mi manca ma poi penso che la mamma è come dentro di me e allora mi sento un po’ meno solo”
Ci sono diversi modi di vivere la solitudine. Come il vuoto freddo e buio di chi non ha mai vissuto la Presenza, di chi non ha mai sperimentato la dimensione dello star con e dello stare dentro a qualcuno. E’ l’isolamento del bambino autistico, di persone che hanno vissuto abbandoni precoci, ma è anche la solitudine di chi non si sente degno di appartenere allo sguardo dell’altro, di occupare uno spazio nella sua mente e un angolo del suo cuore. E’ la solitudine di chi per questo ha “deciso” di chiudere le porte al mondo confinandosi in un gelido silenzio; oppure di chi, invece, ricorre a tutti i mezzi pur di ottenere piccoli frammenti di attenzione su di sé.
Diversa invece è la solitudine di chi è stato lasciato solo, di chi ha vissuto l’abbandono, di chi ha sperimentato la lacerante ferita della separazione, magari in modo improvviso, dopo aver vissuto il Nirvana della fusione, dell’appagamento totale nella pienezza dei sentimenti. E’ una solitudine che irrompe, che getta nel baratro, ma che può acquisire una cornice di significato solo se esiste un perché che la giustifichi e la sostenga. Paolo ha perso la mamma, ma la mamma non lo ha lasciato, e questo gli permette di introiettare una presenza buona, che lo accompagna, lo sostiene, lo ascolta nei suoi teneri tentativi di intrattenere un dialogo interiore con lei. Se la solitudine è invece la conseguenza di un atto di abbandono, allora siamo pervasi da sentimenti ambivalenti se non addirittura contrastanti: incredulità, disorientamento, rabbia, ricerca di un significato, disperazione desolante, paura, smarrimento totale, senso di perdita della propria identità.
E poi c’è la solitudine di chi ricerca se stesso, di chi desidera ritirarsi all’interno delle pareti del proprio Sé per ritrovarsi, per recuperarsi e magari anche per perdonarsi. E da qui può partire la rigenerazione, da qui lo specchio frantumato può ricomporsi in una rinnovata immagine, che si fonda sulla sintesi tra la consapevolezza degli errori del passato e delle risorse disponibili nel presente, da impiegare e investire verso nuovi traguardi.
Forse ognuno di noi ha vissuto, almeno una volta, una o più forme di solitudine: questo è un elemento che ci accomuna e che ci permette di comprendere la solitudine degli altri attraverso il riflesso della propria. Ciò che fa la differenza è il modo con cui l’affrontiamo, la trattiamo e la elaboriamo. Un uomo di 50 anni in carico ai servizi psichiatrici per una forma grave di schizofrenia, al termine di una settimana esaltante trascorsa al mare con altri pazienti e operatori, mi disse: “Questa settimana me la ricorderò per tutta la vita, e non solo per le risate, le nuotate, le cantate e i salti sulla pista da ballo, ma perché grazie al ricordo dei vostri gesti e dei vostri sguardi ora sto imparando a gestirmi da solo la mia solitudine”
La solitudine. Tutti la viviamo, forse la vivi anche tu …
scritto da: Morton0 su Scherzo o Folllia?