La sua passione per l'arsenale
della democrazia, per l'armamentario
militare, era divorante.
Quando il nostro "Acela", il
treno veloce, sferragliò accanto
a una base aerea nel Delaware
nei primi giorni dei bombardamenti
sull'Iraq del 1991 e sulle
piazzole vide parcheggiato uno
stormo di A 10, l'aereo per l'attacco
a terra, destinato al fronte
iracheno, gli occhi di Clancy si
accesero dietro le lenti corpose.
Mi regalò una lunga, accurata,
affettuosa e micidiale descrizione
di che cosa quel jet potesse fare
per polverizzare i tank russi in
dotazione a Saddam, con la
gioia sinistramente ingenua di
un bambini che giocasse ai soldatini.
Ma nella sua divorante e
un po' allucinata passione per le
armi, un lampo di lucidità gli fece
prevedere, e raccontare l'attacco
suicida di 747 pilotato da
un terrorista contro la cupola del
Campidoglio a Washington.
Non fu un gigante della letteratura,
e non sarà ricordato come
tale, ma come il piccolo
Omero da paperback di un'America
che non c'è più e che finì
nella effimera gloria della prima
Guerra nel Golfo e sembrò coronarsi
nel collasso dell'Unione
Sovietica. La sua è stata piacevole
propaganda, militarismo insieme
protervo e ingenuo, nella
tradizione dei famosi documentari
che Frank Capra produsse
per il governo durante la Seconda
Guerra Mondiale, spiegando
al popolo americano «Why we fight
», perché combattiamo. Anche
lui, come Zane Grey, Louis
L'Amour - un altro dei preferiti
da Reagan - che cantarono l'epopea
dell'uomo bianco nel Selvaggio
West, artigiani diligenti e
sinceri del mito americano.
© Riproduzione Riservata
Repubblica/ R2 Cultura
03/10/2013