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L'uomo distrugge la Natura..


Fonte: articolo riportato da FocusPENSIERO ECOLOGICOPerché l'uomo distrugge la Natura?
Idrammatici eventi di questa caldissima estate 2019, dagli incendi in Siberia allo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia, hanno evidenziato l'accelerata degli effetti dei cambiamenti climatici innescati dalle attività umane. Di fronte a tale disastro, di cui non si vede la fine e, anzi, si possono facilmente intuire e leggere prossimi peggiora-menti, una parte sempre più estesa dell'opinione pubblica comincia a reagire, almeno a livello di preoccupata presa di coscienza.Nei commenti sui social e nelle lettere a giornali e mass-media mainstream - che purtroppo in molti casi stanno affrontando questi argomenti con il consueto tono apocalittico, scandalistico, superficiale - si notano spesso definizioni del tipo: "Siamo una specie folle, ci meritiamo di estinguerci"; "Siamo i parassiti del Pianeta"; "L'Umanità è solo un'accozzaglia di predoni egoisti"; "Siamo pazzi e ciechi e ormai stiamo cadendo nel baratro", ecc. Un misto, dunque, di lamentose e disperate affermazioni, dove emerge la mancanza di speranza per il futuro e la rabbia per la stupidità umana.
Ma è davvero così? Può una specie che, in poco più di 200mila anni (ovvero pochissimo, se consideriamo le scale geobiologiche), è di fatto arrivata a dominare l'intero Pianeta, pur avendo una capacità riproduttiva limitata, dei corpi deli-catissimi e molta meno forza fisica rispetto alle altre specie più simili a noi (ovvero le grandi scimmie), avere intrapreso una strada evolutiva destinata "al vicolo cieco", ovvero all'estinzione, puntando sull'intero consumo delle risorse vitali e alla distruzione dell'habitat in cui vive!? Perché allora questa follia, da dove nasce, che senso ha?In ultima analisi: perché l'Uomo continua imperterrito a distruggere la Natura (ovvero la famosa "casa comune" in cui abita) nonostante almeno mezzo secolo di avvisi e allarmi sempre più stringenti lanciati dalla comunità scientifica e nonostante i disastri più o meno naturali (molti palesemente di origine antropica) che sempre più spesso mietono migliaia di vittime?Per rispondere a questa domanda bisognerebbe scrivere un'intera enciclopedia, tante sono le probabili concause che, in modo più o meno complesso, s'intrecciano tra loro: cause sia socio-politiche, storiche ed economiche, sia psicologiche, biologiche ed ecologiche. In questa sede vogliamo solo provare a proporre qualche pensiero tra quelli di solito meno diffusi; qualche punto di vista un po' diverso che aiuti a cogliere alcune sfumature che, come spesso capita, possono fare in realtà la differenza nella formazione di un'idea.
Come, infatti, diceva Sherlock Holmes, è dai dettagli che si può arrivare al cuore del problema (nel suo caso scoprire il colpevole di turno).Noi già sappiamo chi è il colpevole, ma in questo caso il cuore del problema allora è un altro: la nostra specie ama il luogo in cui vive? Ovvero, ama la Natura? Poiché sappiamo benissimo che, al di là di tante belle parole o dei vari "sensi duri" (senso del dovere, senso di colpa, ecc.) nei fatti solo chi ama qualcosa/qualcuno se ne prendedavvero cura. Oggi è facile dire che, almeno in Occidente, la maggior parte degli uomini NON ama la Natura.Ma per amare davvero qualcosa/qualcuno ci sono solo due strade: quella del cuore (l'emozione, l'empatia che ci coglie in certe situazioni, magari sostenuta da un legame di sangue, come quello per i figli) o quella della testa (la conoscenza, conoscere bene qualcosa o qualcuno, in modo da arrivare a coglierne il valore).Solo così arriveremo al volere bene (philéô) e magari ad amare (agapáô) e di conseguenza a impegnarci davvero per proteggere l'oggetto del nostro amore (sappiamo, infatti, che il "voler bene" non è proprio la stessa cosa che "amare", come fece notare Gesù a Pietro nel famoso dialogo del Vangelo di Giovanni (21, 15-17) ).Per millenni l'Uomo nomade cacciatore-raccoglitore ha vissuto la Natura con l'amore istintivo che avvolge un essere la cui vita dipende da essa, con un misto di paura e attrazione, sapendo appunto che dalla Natura poteva arrivare anche la morte. Ma sempre con il rispetto e con l'equilibrio di chi sa anche che della Natura ha bisogno e che essa è sempre più grande di lui. Dalla Natura gli uomini prelevavano solo quanto gli serviva per la sopravvivenza, ovvero "gli interessi", lasciando intatto "il capitale".
Poi, circa 10.000 anni fa, con la nascita e lo sviluppo dell'agricoltura, il panorama è cominciato a cambiare. L'Uomo si è fermato in un posto e, per sopravvivere, ha dovuto iniziare a sfruttarlo, con i vari processi di coltivazione del suolo e di domesticazione di piante e animali e con metodi sempre più raffinati e intensivi. Ovvero, ha iniziato a intaccare il capitale. Fino a quando ciò avveniva con metodi tradizionali e solo con la forza di uomini e bestie, attraverso il lavoro di comunità umane costituite al massimo, nel complesso, da milioni di individui, la Terra ha ben sopportato tale pressione. Inoltre, la presenza di eventi tragici come pandemie, carestie e guerre effettuava un certo controllo sulla popolazione antropica.Con la cosiddetta Rivoluzione Industriale iniziata in Occidente nel XVII secolo, si è però accesa la miccia: la società umana da sistema agricolo-artigianale-commerciale è diventata un sistema industriale moderno, caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come, per esempio, i combustibili fossili), il tutto favorito da una forte componente di innovazione tecnologica e accompagnato da fenomeni di sviluppo demografico, sviluppo economico e da profonde modificazioni socio-culturali e anche politiche. E soprattutto di incremento di popolazione, che rapidamente è passatada 1 miliardo di individui nel 1800, ai circa 7,5 miliardi di oggi, con un aumento medio annuo di circa 75 milioni. In pratica, gli esseri umani si sono quadruplicati nell'arco degli ultimi 100 anni, dopo essere rimasti per millenni limitati a pochi milioni di persone (all'epoca della nascita di Cristo si stima vivessero sul Pianeta circa 160 milioni di individui).Ciò non solo ha aumentato in pochissimo tempo e a dismisura la richiesta, e quindi lo sfruttamento, di risorse naturali - oltre che la conseguente produzione di scorie di ogni genere quasi mai realmente smaltibili -, ma, attraverso il fenomeno dell'inurbamento, ha sempre di più allontanato gli uomini dalla Natura. A seguito di ciò, non solo una parte significativa degli esseri umani non conosce più il mondo naturale (per esempio non sa distinguere le varie specie animali e vegetali) ma, soprattutto negli ultimi decenni, si è creata una vera e propria sindrome di disconnessione con la Natura, come scrivono vari filosofi e psicologi, per cui alla fine sempre meno si sente il bisogno di una sua vicinanza, di un suo rapporto profondo e vero con essa. In pratica oggi per molte persone la Natura vale solo perché serve (per esempio, un albero non va abbattuto perché produce ossigeno) o, nei casi migliori, erché "è bella" o perché "fa bene" (che son sempre forme d'uso, seppur scenografiche o salutistiche).E non essendoci più contatto, è sempre più difficile rimanere in sintonia. Questo è il vero dramma dell'Uomo, poiché innesca un processo a cascata di impoverimento interiore che porta all'ignoranza cognitiva e culturale,alla perdita di identità (di specie, di popolo ma anche almeno in parte personale), all'inaridimento emotivo, ma soprattutto all'incapacità di essere in risonanza con il mondo che ci circonda che, volenti o nolenti, è ancora in massima parte naturale (per quanto rovinato e contaminato).
Questo processo, che è aumentato in maniera esponenziale nell'ultimo secolo e in particolare dalla fine della seconda Guerra Mondiale, produce a sua volta due importanti effetti.Il primo, pericolosissimo, incide sulla nostra capacità di adattamento. La specie umana ha fatto di questa sua sensazionale facoltà, sostenuta dalla sua intelligenza, la carta vincente per sopravvivere e imporsi come specie dominante sul Pianeta. Ma, a livello basico, come scrive l'ecologo Timothy Morton, "essere vivi significa adattarsi senza sparire completamente, essere protetti dalla propria sintonia ma non fino al punto di dissolversi del tutto". Senza più contatto e sintonia con la Natura, perdiamo quindi la capacità di adattarci ai suoi mutamenti, tanto più a quelli repentini degli ultimi anni e di quelli che ci attendono.E l'adattamento di una specie è un processo biologico, oltre che culturale, che richiede tempo e che può essere solo in parte (minima?) compensato o contenuto dalla tecnologia.Il secondo effetto è la riduzione della nostra istintiva biofilìa, ovvero il nostro amore e attrazione per la Vita. E che la nostra società sia sempre più orientata verso scenari necrofili ce lo dicono una serie numerosa di segnali: dalla cultura (soprattutto giovanile) verso immagini/situazioni mortifere (basti pensare all'attrazione dei ragazzi verso zombi, vampiri, situazioni "dark", sport estremi, ecc.), all'uso di tecnologie "comode" (quindi in realtà non indispensabili) ma di dubbio effetto sulla salute (per esempio, eccesso di tecnologie basate sull'elettromagnetismo come i vari cellulari 3-4-5G, ecc.), a un'alimentazione sempre più priva di vere forze vitali.Ovvio, quindi, che tutto ciò ci porti a diventare sempre più insensibili e distaccati da ciò che sta succedendo "fuori", nella natura, appunto. Che ormai a molti sembra lontanissima e quasi irreale e dove anche le immagini delle catastrofi ambientali che stanno avvenendo in varie parti del pianeta assumono una percezione surreale.Allora è a questo punto che si può scatenare una sorta di "effetto Lemmig" o anche "ultimo ballo sul Titanic". Incuranti della nave (il Pianeta così come è oggi) che affonda, continuiamo a ballare, cercando di godercela il più a lungo possibile, senza credere in realtà all'avvicinarsi della fine. Che non è quella della Terra, è bene ribadirlo ancora una volta, ma di "questa" umanità. Credo, infatti, che il Pianeta sopravviverà abbastanza bene al collasso in corso (sì, è già cominciato!) e che anche l'Umanità non si estinguerà. Tornerà sotto il miliardo di individui, privilegiando i popoli e le culture a bassa tecnologia (per esempio, boscimani, indios amazzonici, aborigeni, ecc.), ma andrà avanti, meno ricca ma forse anche più felice di oggi.Tuttavia in questa situazione pre-apocalittica (e ricordiamo che il termine "Apocalisse" non vuol dire "fine del mondo", ma significa "svelamento, levare il velo") si possono anche osservare alcuni comportamenti molto interessanti sulla natura umana, che probabilmente in situazioni ordinarie non emergerebbero. Una di queste, evidenziata proprio dal non volere pervicacemente "invertire la rotta" nonostante i mille segnali ricevuti, è una sorta di rifiuto, o meglio di fuga, dalla nostra incarnazione materiale, da un legame filogenetico che ci perseguita e connette con tutte le altre creature non umane. È come se, consapevoli di una nostra natura profonda in cui la dimensione carnale è minoritaria (non a caso tutte le religioni ci dicono che siamo fatti di corpo, anima, spirito e coscienza/Io, quindi in fin dei conti di un rapporto di 3 a 1 tra "energia" e materia) la sfidassimo o volessimo addirittura liberarcene. Senza credere in un vero suicidio collettivo o individuale, ma piuttosto in una sorta di "salto quantico" che ci attende.Che dire, a questo punto speriamo sia davvero così! E vengono in mente, un po' per consolazione e un po' per chiudere questo lungo pezzo, le parole di un grande uomo di scienza ma anche di fede che è stato il naturalista (paleontologo) e gesuita francese padre Pierre Teilhard De Chardin "Noi non siamo esseri umani che vivono un'esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un'esperienza umana".© RIPRODUZIONE RISERVATARIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM