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Messaggi di Febbraio 2019

LE PROPRIETA' TERAPEUTICHE DEL POMODORO...

Post n°1993 pubblicato il 28 Febbraio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Comunicato stampa -

Si chiama 'bronzeo' una nuova linea di pomodoro che contiene

una combinazione unica di polifenoli in grado di migliorare i

sintomi delle patologie infiammatorie dell'intestino.

Lo studio, condotto dall'Istituto di scienze delle produzioni

alimentari del Cnr, è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in

Nutrition

alimentazione

Roma, 28 febbraio 2018 - Più di 2.2 milioni di Europei e 1.5

milioni di Americani soffrono di infiammazioni croniche intestinali,

per le quali, ad oggi, non esiste una cura. I polifenoli, una famiglia

di metaboliti secondari derivati dalle piante, possono rappresentare

una valida strategia terapeutica per la cura dei sintomi di tali patologie.

Da una ricerca dell'Istituto di scienze delle produzioni alimentari

del Consiglio nazionale delle ricerche (Ispa-Cnr), unità di Lecce, in

collaborazione con Cathie Martin ed Eugenio Butelli del John Innes

Centre, Norwich e con Marcello Chieppa dell'Irccs 'S. De Bellis' di

Castellana Grotte (Ba), emerge che una giusta combinazione di

polifenoli può attenuare i sintomi dell'infiammazione intestinale.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Nutrition.

"Frutta e verdura sono alimenti ricchi di polifenoli, ma per ottenere

la giusta combinazione e le giuste quantità attraverso la dieta

dovremmo assumerne una varietà e quantità elevatissime", spiega

Angelo Santino dell'Ispa-Cnr coordinatore dello studio.

"Nei nostri laboratori siamo riusciti ad ottenere, attraverso un

approccio di ingegneria metabolica, una linea di pomodori, che

abbiamo chiamato 'bronzeo' per il colore metallico e bronzato della

loro buccia, che contengono una combinazione unica di polifenoli.

Si tratta, in particolare di flavonoli, antocianine e stilbenoidi la

cui azione sinergica è stata valutata in topi affetti da infiammazione

cronica intestinale".
"I risultati ottenuti dalle prove in vivo, dimostrano chiaramente che

questa combinazione di polifenoli è in grado di migliorare i sintomi

dell'infiammazione intestinale", sottolinea Aurelia Scarano dell'Ispa-Cnr.

"Tra gli effetti benefici riscontrati, abbiamo osservato un miglioramento

nella composizione del microbiota, con arricchimento in batteri lattici

positivi e una riduzione sia nel contenuto di sangue nelle feci sia nella

secrezione di fattori infiammatori".  

"È stato interessante notare come gli effetti benefici di un singolo

pomodoro 'bronzeo' sulle infiammazioni intestinali siano paragonabili

a quelli di 5 Kg di uva rossa, notoriamente ricca in polifenoli",

conclude Giovanna Giovinazzo dell'Ispa-Cnr.
L'ingegneria metabolica rappresenta una risorsa importante che

consentirà di ottenere in futuro alimenti funzionali arricchiti in specifici

elementi fitochimici e dall'elevato potere nutrizionale che potranno essere

utilizzati per la prevenzione e come adiuvanti nella terapia di importanti

patologie croniche umane.

 
 
 

La cultura del vino è nata in Georgia

Post n°1992 pubblicato il 28 Febbraio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

14 novembre 2017

Otto giare ritrovate in un sito archeologico in

Georgia e risalenti al 6000 avanti Cristo circa

portano tracce del loro antico contenuto: vino.

La scoperta, insieme a prove della coltivazione

della vite, retrodata di 600-1000 anni la nascita

della cultura del vino(red)

archeologiaagricolturaalimentazione

La più antica testimonianza della cultura del vino

risale al 6000-5800 a.C. ed è venuta alla luce grazie

agli scavi in due siti archeologici della Georgia, Gadachrili

Gora e Shulaveris Gora, circa 50 chilometri a sud della

capitale Tbilisi.

La cultura del vino è nata in Georgia

Il sito di Gadachrili Gora. (Cortesia Stephen Batiuk)

La scoperta è di un gruppo di ricercatori del Museo

nazionale della Georgia e dell'Università della Pennsylvania -

in collaborazione anche con l'Università degli studi di Milano

e il Museo lombardo di storia dell'agricoltura a Sant'Angelo

Lodigiano - che firmano 

un articolo sui "Proceedings of the National Academy of Sciences"

Anche se le tracce di uva fermentata più antiche in assoluto

sono state identificate nel 2004 nel sito di Jiahu, nella valle

del Fiume Giallo in Cina, e risalgono addirittura al 7000 a.C.,

non provenivano esattamente da ciò che intendiamo per

vino, ma da una bevanda fermentata prodotta da uva

selvatica, frutti di biancospino, riso e miele.


Finora la più antica traccia conosciuta di produzione

di vino risaliva al 5400-5000 a.C. ed era costituita

da reperti provenienti da Hajji Firuz Tepe, un villaggio

neolitico nella parte più settentrionale dei monti

Zagros, in Iran. La scoperta attuale retrodata

dunque di almeno 600-1000 anni la coltivazione

dell'uva a fini di vinificazione.

Durante gli scavi di Gadachrili Gora e Shulaveris

Gora, sono venuti alla luce i frammenti di una serie

di vasi di ceramica, che sono stati analizzati per

accertare la natura dei residui conservati all'interno.

In otto giare sono state trovate tracce di sostanze

chimiche - in particolare acido tartarico, malico, succinico

e citrico - che indicano l'antica presenza di vino.

I ricercatori hanno anche raccolto una serie di dati

archeologici, botanici, climatici e al radiocarbonio

che dimostrano che la vite eurasiatica Vitis vinifera,

molto abbondante intorno ai due siti, era oggetto

di coltivazione. All'inizio del Neolitico, osservano i

ricercatori, le condizioni ambientali erano ideali per

quella pianta, ed erano molto simili a quelle delle

odierne regioni vinicole italiane e della Francia

meridionale.

"La nostra ricerca suggerisce che uno dei primi

adattamenti allo stile di vita neolitico che si stava

diffondendo nell'area caucasica è stata la viticoltura",

ha detto Stephen Batiuk, coautore dello studio.

"La domesticazione dell'uva ha portato alla fine

alla nascita di una cultura del vino nella regione".

 
 
 

Quando arriveranno le bistecche editate?

Post n°1991 pubblicato il 28 Febbraio 2019 da blogtecaolivelli


Fonte: Le Scienze

11 aprile 2018

Maiali resistenti alla peste suina, polli immuni all'influenza aviaria, mucche adattate alle regioni tropicali. Sono alcuni dei progetti in corso per l'applicazione delle nuove tecniche di editing genomico alla zootecnia, rimasta finora ai margini dell'ingegneria genetica per questioni regolatorie e per la diffidenza dei consumatori. Riuscirà CRISPR a superare questi ostacoli, aprendo la strada a sviluppi che potrebbero rivoluzionare anche il benessere degli animali?di Anna Meldolesi/CRISPerMani

geneticaanimalialimentazione

Se sentiamo la parola OGM, di solito pensiamo alle

piante, non agli animali.

Negli ultimi 20 anni, infatti, il settore zootecnico ha

dovuto rinunciare al contributo dell'ingegneria

genetica per le incertezze regolatorie prima ancora

che per la diffidenza del mercato.

A conti fatti c'è un solo animale transgenico venduto

a scopo alimentare in un solo stato del mondo

(il salmone a crescita rapida AquAdvantage,

approvato in Canada dopo ben due decenni

di attesa), mentre le piante transgeniche sono

coltivate su oltre 180 milioni di ettari in più di

venti paesi.

Ma le nuove biotecnologie ora bussano anche

alle stalle: riusciranno a entrare? Ci sperano

al Roslin Institute, il centro scozzese che ha

dato i natali a Dolly e ora si serve di CRISPR

per rendere i maiali resistenti alla sindrome

riproduttiva e respiratoria PRRSV.

Questa malattia è la più dannosa a livello globale

per la suinicoltura ed è causata da un virus.

Una volta identificato il recettore usato dal

patogeno come porta di ingresso per infettare

le cellule, i ricercatori hanno provveduto a bloccarlo

rimuovendo un pezzetto del gene che lo codifica.

Se tutto andrà come previsto, ora il tratto sarà

introdotto negli animali scelti per la riproduzione

da una società specializzata in breeding dei suini

(Genus PIC). La direttrice del Roslin, Eleanor Riley,

si augura che entro 5 anni questi animali potranno

ottenere il via libera per debuttare in fattoria.


In Scozia si lavora anche su altri filoni, tra cui i

maiali resistenti alla peste suina africana, i polli

immuni all'influenza aviaria, i bovini migliorati per

aumentare la produzione di latte nelle aree tropicali.

Per quest'ultimoprogetto, illustrato su"Foreign Affairs" 

da Bill Gates, gli scienziati del Centre for Tropical

Livestock Genetics and Health dell'Università di

Edimburgo hanno avviato collaborazioni in Etiopia,

Kenia, Nigeria e Tanzania. L'idea è di concentrarsi

sui geni che rendono tanto produttiva la razza

Holstein usata nei grandi allevamenti dei climi temperati

e di correggere di conseguenza il genoma delle vacche

tropicali. Oppure di modificare le Holstein per renderle

più adatte alle condizioni ambientali africane.

In America, invece, gli animali simbolo della nuova

stagione biotech sono le Holstein private delle corna

 per via genetica anziché chirurgica, come si fa

normalmente per evitare che gli animali si feriscano

tra loro.

Quando arriveranno le bistecche editate?

Questa applicazione dell'editing genetico

potrebbe piacere sia agli allevatori che agli

animalisti più pragmatici, perché riduce la

sofferenza degli animali.

A ostacolarne la diffusione però, non solo

nella sospettosa Europa ma anche negli Stati

Uniti, potrebbero essere gli intralci burocratici.

Per una serie di incongruenze di origine storica,

infatti, gli animali editati ricadono sotto l'attenta

supervisione della Food and Drug Administration,

come i farmaci, mentre delle piante editate si

occupa, in modo meno oneroso, il Dipartimento

dell'agricoltura. Se questa disparità dovesse

permanere, sostiene un'analisi pubblicata sull'ultimo

numero del "CRISPR Journal", il settore zootecnico

di fatto faticherà a entrare nell'era CRISPR perché

soddisfare la sovraregolamentazione imporrebbe

tempi e costi proibitivi.

Una soluzione potrebbe essere quella adottata

dall'Argentina: regolamentare gli animali editati come

le piante editate, esonerando dai controlli più

pesanti i prodotti in cui la correzione genetica non

ha richiesto l'inserzione di materiale genetico estraneo.

Vale la pena di ricordare che il miglioramento

convenzionale non è formalmente regolamentato

ma non è di per sé più benevolo, anzi nel corso del

tempo ha portato allo sviluppo di fenotipi estremi

grazie alla selezione di mutazioni spontanee.

Il benessere degli animali, dunque, non dipenderà

da un sì o da un no all'uso di CRISPR, ma da come

decideremo di usare le tecnologie vecchie e nuove.

"L'editing dei genomi non pone problemi inediti

dal punto di vista categoriale, ma portando questi

temi sotto i riflettori può sollecitarci a ripensare il

tipo di rapporto che vogliamo avere col mondo

animale", ci ha detto Simone Pollo della Sapienza

di Roma. "Se poi CRISPR favorisse lo sviluppo della

coltivazione in vitro della carne, questa sì che

sarebbe una rivoluzione per l'etica", ha aggiunto

il bioeticista, autore per Carocci del saggio 

Umani e animali.


(L'originale di questo articolo è stato pubblicato

nel blog CRISPerMania l'11 aprile 2018.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Birra più costosa in un mondo più cald

Post n°1990 pubblicato il 28 Febbraio 2019 da blogtecaolivelli

16 ottobre 2018

Nei prossimi decenni molto probabilmente ondate di calore e periodi di siccità porteranno a una riduzione delle rese di orzo con conseguente calo della produzione di birra e aumento dei prezzi di questa bevanda alcolica. L'impatto sul mercato però non sarà uniforme ma varierà parecchio da paese a paese(red

pianteclimaalimentazione

In seguito ai cambiamenti climatici, da qui alla fine

del secolo la produzione globale di orzo rischia di

diminuire dal 3 al 17 per cento in media, a seconda

di quello che sarà l'aumento reale delle temperature

globali.

E questa diminuzione si ripercuoterà in maniera

ancora più significativa sul prezzo e sul consumo

di birra, la bevanda alcolica più consumata al mondo.

A sostenerlo è uno studio previsionale effettuato

da ricercatori dell'Università di Pechino e

dell'Università della California a Irvine, che firmano 

un articolo su "Nature Plants".

Benché l'orzo sia il quarto cereale più coltivato al

mondo, non erano ancora state sviluppate previsioni

accurate sulle sue rese in un mondo in cui aumentano

ondate di calore ed episodi di siccità; tanto meno

sull'impatto della riduzione delle rese sul mercato

della birra, che a livello globale assorbe circa un terzo

di tutta la produzione di orzo, sia pure con differenze

assai grandi da paese a paese.

Birra più costosa in un mondo più caldo

I modelli elaborati da Wei Xie, Steven J.

Davis e colleghi hanno esaminato l'effetto sulle rese

dell'orzo dei quattro possibili scenari di cambiamento

climatico previsti dall'Intergovernmental Panel on

Climate Change (IPCC), per poi calcolare la presumibile

ricaduta su produzione, consumo e prezzo della birra.

Questa ricaduta non sarà uniforme nei diversi paesi,

dipendendo da svariati fattori, a partire dalla

destinazione d'uso prevalente dell'orzo prodotto, che

in molte nazioni è impiegato in gran parte come

mangime per animali.

La quota di orzo destinata dall'alimentazione umana

è invece generalmente molto piccola, con le vistose

eccezioni dell'India (77 per cento), dei paesi africani

(40 per cento, con l'esclusione del Sudafrica) edi parte

del Sud America (17 per cento). In un numero elevato

di paesi è quindi presumibile che questi usi, considerati

prioritari, sottrarranno materia prima alla filiera della birra.

L'effetto della scarsità di orzo sul mercato della birra

nei differenti paesi è poi influenzato fortemente

dall'importanza della bevanda nelle diverse culture

e dalla disponibilità a spendere di più per averla;

così i maggiori aumenti di prezzo si concentreranno

in paesi relativamente ricchi e storicamente amanti

della birra. Quindi, in paesi come l'Irlanda, dove

attualmente si consumano in media 276 lattine

da mezzo litro pro capite all'anno, si prevede

che nello scenario climatico peggiore la diminuzione

delle rese dell'orzo possa portare a un aumento

dei prezzi del 193 per cento e a un calo dei consumi

di 81 latine pro capite all'anno.

La maggiore riduzione totale della produzione e dei

consumi si avrebbe comunque nei tre principali paesi

produttori e consumatori di birra: Cina, Stati Uniti e

Germania.

 
 
 

Ancora più antica la storia del cioccolato

Post n°1989 pubblicato il 28 Febbraio 2019 da blogtecaolivelli

30 ottobre 2018

La prima domesticazione della pianta delcacao risale a 5300 anni fa e fu opera dei Mayo-Chinchipe, popolazioni amazzoniche dell'Ecuador sud-orientale. La scoperta smentisce l'ipotesi finora prevalente, che attribuiva il primato a popoli dell'America centrale, dove invece la pianta arrivò quasi 1500 anni dopo(red)

piantearcheologiaalimentazione

La domesticazione della pianta del cacao

(Theobroma cacao) e il suo uso a fini alimentari risale

ad almeno 5300 anni fa, e fu realizzata dalle

popolazioni amazzoniche dell'Ecuador sud-orientale,

e non in America centrale, come finora ritenuto. 

Gli inizi della produzione della materia prima alla

base del cioccolato - che muove un mercato di oltre

120 miliardi di dollari all'anno ed è il prodotto dolciario

più apprezzato al mondo - va dunque anticipata di oltre

1400 anni. A dimostrarlo è stata una ricerca condotta

da un gruppo internazionale di archeologi e genetisti,

che firmano un articolo

 pubblicato su "Nature Ecology and Evolution".

L'idea che Theobroma fosse stata domesticata

per la prima volta in America centrale circa 3900

anni fa si basava sulla ricchezza di prove archeologiche,

etnografiche e iconografiche che testimoniano la

grande importanza, sia rituale che alimentare,

attribuita a questo alimento dalle popolazioni di

quell'area.

Tuttavia, recenti ricerche genomiche hanno

dimostrato che la maggiore diversità genetica

della pianta - ben superiore a quella presente

in America centrale - si trova nelle foreste umide

della regione degli affluenti del Rio delle Amazzoni

superiore.

Ancora più antica la storia del cioccolato

Pianta di Theobroma cacao nella foresta

ecuadoriana (© Science Photo Library / AGF=I

n questa zona - nella regione compresa fra i

fiumi Chinchipe e Marañón - si era sviluppata,

a partire da 5450 anni fa la cultura Mayo-Chinchipe,

che solo di recente ha iniziato a essere studiata

con attenzione, ed è caratterizzata dalla costruzione

anche di edifici in pietra e da un fiorente artigianato

della ceramica.

Analizzando alcuni recipienti in ceramica venuti

alla luce nel 2002 nel sito di Santa Ana-La Florida,

e risalenti a 5500-5300 anni fa, Sonia Zarrillo,

Claire Lanaud e colleghi hanno ora ritrovato al

loro interno microscopicigrani di un amido tipico

di Theobroma; residui di teobromina, un alcaloide

amaro presente nei semi di Theobroma cacao, ma

non nei suoi parenti selvatici; e frammenti di DNA

antico con sequenze uniche diT. cacao, sequenze

per di più molto simili a quelle della cultivar Criollo,

che discende direttamente dalla varietà coltivata

dai Maya e da altre popolazioni precolombiane

del Centro America.

La datazione al carbonio 14 dei reperti è stata poi

confermata anche dall'analisi dei danni al DNA

riscontrati nei residui organici.

Poiché esistono prove archeologiche di scambi

commerciali fra le popolazioni Mayo-Chinchipe

dell'interno con quelle della cultura di Valdivia -

una delle più antiche del Sud America, fiorita

sulla costa del Pacifico dell'Ecuador - gli autori

ipotizzano che questa sia stata la prima tappa

del lungo viaggio che avrebbe poi portato il cacao

in America centrale.

 
 
 

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