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Messaggi del 17/06/2020
Post n°3111 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 08 giugno 2020 Gli oceani sequestrano il carbonio prodotto dagli incendi ©Mint Images/AGF Un terzo circa del carbonio che si produce con la combustione dei vegetali finisce negli oceani attraverso i fiumi e non viene immesso in atmosfera come gas serra prima di decine di migliaia di anni. Il fenomeno può mitigare in parte gli effetti degli incendi boschivi sempre più frequenti dovuti al riscaldamento climatico Parte del carbonio prodotto dalla combustione della vegetazione rimane sequestrato negli oceani per un periodo di tempo molto lungo, addirittura decine di millenni, mitigando parzialmente l'emissione di gas serra. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista "Nature Communications" da Matthew Jones e colleghi dall'Università dell'East Anglia (UEA) e colleghi di una collaborazione internazionale, fornendo un'informazione fondamentale su una parte del ciclo del carbonio e sulla sua influenza sul clima globale. una forma di carbonio prodotto dalla combustione di combustibili fossili, biocombustibili e biomasse. Gli autori erano interessati nello specifico al ciclo del particolato carbonioso che si produce con gli incendi boschivi, sia naturali sia programmati. anno, e lasciano dietro di sé anche 250 milioni di tonnellate di carbonio in forma di residui combusti ricchi di carbonio, come il carbone di legna e la cenere; circa metà di questi residui si trovano nella forma particolarmente persistente del particolato carbonioso e si decompongono molto lentamente nei terreni", ha spiegato Jones. "Ci occupiamo di questo carbonio prodotto dalle combustioni perché rimane sequestrato e non raggiunge l'atmosfera per moltissimo tempo, dato che si decompone in gas serra molto lentamente rispetto alla maggior parte del carbonio di diversa origine". circa 10 volte più tempo per decomporsi negli oceani che sulla terraferma. E per arrivare al mare, le vie di accesso principali sono i corsi d'acqua. Per determinare quanto particolato carbonioso raggiunge gli oceani attraverso i fiumi alle diverse latitudini e in diversi ecosistemi, Jones e colleghi hanno considerato un ampio database di 409 osservazioni condotte su 78 fiumi in tutto il mondo. dai fiumi 18 milioni di tonnellate di particolato carbonioso. Combinato con quello che viene trasportato con i sedimenti, la stima sale a 43 milioni di tonnellate all'anno, vale a dire che circa un terzo del particolato carbonioso prodotto dagli incendi raggiunge gli oceani. per periodi molto lunghi: ci vogliono decine di millenni perché il il particolato carbonioso si degradi in anidride carbonica negli oceani", ha concluso Jones. "Bisogna tenere conto poi che a causa del cambiamento climatico, si prevedere che in futuro aumenteranno gli incendi: possiamo interpretare questo fenomeno come un'anomalia naturale del sistema Terra, un 'feedback negativo' che potrebbe intrappolare un po' di carbonio mitigando gli effetti di questi disastri sempre più frequenti". (red) |
Post n°3110 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 06 maggio 2020Comunicato stampa I ricercatori dell'azoto perduto (nel pianeta Terra?) © A.Caracausi L'atmosfera terrestre è composta per il 78% di azoto e il 21% di ossigeno, una miscela unica nel sistema solare. L'ossigeno è stato prodotto da alcuni dei primi organismi viventi. Ma da dove viene l'azoto? È fuggito dal mantello terrestre attraverso l'attività vulcanica? Per cercare di rispondere a queste domande, un team internazionale di ricercatori anche dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha raccolto e studiato campioni di gas da diversi sistemi vulcanici sul nostro pianeta, tra cui lo Yellowstone, l'Islanda, il rift continentale Africano. Il loro studio "Hydrothermal 15N15N abundances constrain the origins of mantle nitrogen", recentemente pubblicato sulla rivista Nature, mostra che l'azoto del mantello terrestre non ha la stessa composizione isotopica dell'azoto atmosferico, il che implica che quest'ultimo non proviene dal degassamento del mantello. la 'firma originale' di molti campioni di gas vulcanici", afferma Antonio Caracausi, ricercatore dell'INGV e coautore della ricerca. a domande di base come: l'azoto è rimasto dalla formazione terrestre o è stato consegnato al pianeta in seguito? In che modo l'azoto dell'atmosfera è collegato all'azoto che esce dai vulcani? gli isotopi dell'azoto. Questo metodo ha fornito un modo unico per identificare le molecole di azoto che provengono dall'aria, ed ha permesso ai ricercatori di individuare la composizione di gas in profondità all'interno del mantello terrestre. Questo alla fine ha rivelato la prova che l'azoto nel mantello è molto probabilmente presente da quando il nostro pianeta si è inizialmente formato. Quindi, "una volta presa in considerazione la contaminazione dell'aria, abbiamo acquisito nuove e preziose informazioni sull'origine dell'azoto e sull'evoluzione del nostro pianeta", afferma lo scienziato. nelle fumarole e nelle altre manifestazioni naturali di gas vulcanici, il contributo dell'atmosfera (sotto forma di acqua piovana riscaldata) da quello del mantello terrestre (gas magmatico). Ad esempio, quantità di gas magmatico sono state riconosciute nei geyser nel Parco Nazionale di Yellowstone, indicando una rinnovata attività del sistema vulcanico. ad una più approfondita comprensione dei processi magmatici potenzialmente capaci di generare eruzioni vulcaniche. I campioni continuano a essere raccolti a Yellowstone e in altri sistemi vulcanici attivi nel mondo, tra cui l'Etna che è il vulcano più attivo d'Europa. per ora. |
Post n°3109 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 08 aprile 2020Comunicato stampa CO2 nei magmi del Triassico ed emissioni di oggi valori pericolosamente simili con minaccia di estinzione Fonte: Università di Padova © Università di Padova Pubblicato su «Nature Communications» lo studio di un team internazionale di ricerca coordinato da Manfredo Capriolo del Dipartimento di Geoscienze dell'Università di Padova in cui si rileva come i valori delle emissioni di CO2 di oggi siano pericolosamente simili a quelli che 200 milioni di anni fa portarono all'estinzione di massa di fine Triassic Le Large Igneous Provinces (LIPs) sono eventi magmatici eccezionali con produzione di enormi volumi di magma, fino a milioni di chilometri cubi. Esse sono una delle cause principali delle estinzioni di massa e dei cambiamenti climatici avvenuti su larga scala in epoche passate. Nelle fasi gassose di origine vulcanica la CO2 è uno dei gas più abbondanti e più impattanti per clima e ambiente. Inoltre la CO2 riveste un ruolo chiave nel sistema magmatico: da un lato controlla l'ascesa e l'eruzione dei magmi, dall'altro influenza la stabilità e l'evoluzione delle camere magmatiche nella crosta terrestre. dell'Università di Padova e pubblicato su «Nature Communications» dal titolo "Deep CO2 in the end-Triassic Central Atlantic Magmatic Province" si concentra sulla Central Atlantic Magmatic Province (CAMP) e sull'analisi dei magmi del Triassico particolarmente ricchi di CO2. hanno una composizione chimica e isotopica caratteristica, che li rende peculiari e distinguibili dagli altri, come se avessero una propria firma geochimica. La Central Atlantic Magmatic Province è stata scenario dei più vasti eventi vulcanici della storia della Terra, avvenuto 201 milioni di anni fa, con vulcani che hanno eruttato nello stesso periodo temporale, dalla Francia alla Bolivia, su un'area complessiva grande come tutta l'Europa. La CAMP in questione è stata scoperta ed è oggetto di studio negli ultimi venti anni dei ricercatori dell'Università di Padova. Questo vulcanismo collocato alla fine del periodo Triassico è avvenuto contemporaneamente a una delle cinque estinzioni di massa più devastanti nella storia della Terra. di ingenti quantità di CO2 imprigionate in minuscole inclusioni di vetro vulcanico che hanno preservato le originarie bolle gassose. I campioni studiati, provenienti da Nord America (Stati Uniti e Canada orientali), Marocco (Alto Atlante) e Portogallo (Algarve), mostrano che i magmi CAMP sono particolarmente ricchi in CO2 e che quindi l'emissione di questo gas serra può aver causato l'estinzione di massa. Attraverso l'impiego di differenti tecniche analitiche - svolte nei laboratori di Padova, Budapest, Milano e Parigi - i ricercatori hanno ottenuto la prima evidenza diretta di abbondanza di carbonio nei basalti delle LIPs. Non solo, dalla ricerca è emerso come la quantità di CO2 emessa da un singolo periodo eruttivo sia pari allo scenario di emissioni antropogeniche previste per il 21° secolo dall'Intergovernmental Panel on Climate Change, organismo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. In questa ipotesi si avrebbe un incremento della temperatura globale di circa 2 °C e una grave acidificazione degli oceani. Questo paragone suggerisce che i cambiamenti climatici e ambientali di fine Triassico, guidati da emissioni di CO2 e che portarono a un'estinzione di massa, siano ipotizzabili negli esiti finali in un immediato futuro. vulcanica possano aver modificato il clima sulla Terra circa 201 milioni di anni fa, causando una drammatica estinzione di circa la metà delle specie esistenti all'epoca. Nella storia della Terra - dice Manfredo Capriolo primo autore della ricerca - la maggior parte delle principali estinzioni di massa avviene in concomitanza di eruzioni delle grandi province magmatiche e più raramente da impatti di asteroidi. L'attività di una provincia magmatica è infatti in grado di immettere in atmosfera ingenti quantità di CO2, causando cambiamenti climatici e ambientali su scala globale. L'estinzione di massa di fine Triassico, una delle cinque principali estinzioni di massa degli ultimi 500 milioni di anni, è sincrona alle eruzioni della CAMP e non ci sono evidenze di contemporanei impatti meteoritici eccezionali, indicando questa provincia magmatica come la causa di quella devastante estinzione di massa. La CO2 vulcanica, preservata in minuscole bolle gassose all'interno di rocce basaltiche, testimonia - continua Capriolo - il ruolo chiave di questo volatile nell'ascesa e nell'eruzione dei magmi così come nelle conseguenze climatiche e ambientali, attraverso pulsi vulcanici di breve durata ed elevata intensità. Una significativa osservazione derivante da questa nostra pubblicazione è che la quantità di CO2 emessa dalle eruzioni vulcaniche studiate è paragonabile alla quantità di CO2 prevista per le emissioni antropogeniche nel XXI secolo. Questa considerazione, frutto dello studio di mutamenti climatici e ambientali passati, dovrebbe farci riflettere sul nostro futuro prossimo». afferma il Professor Andrea Marzoli coautore del lavoro scientifico pubblicato e supervisore al dottorato di Capriolo nel Dipartimento di Geoscienze dell'Ateneo patavino - rappresenta uno dei principali eventi vulcanici avvenuti sulla Terra. A partire dagli anni Novanta del XX secolo, i ricercatori del nostro Dipartimento hanno contribuito alla scoperta della CAMP, coniandone il nome, tramite studi su età e composizione chimica di rocce campionate nei quattro continenti intorno all'Oceano Atlantico. Le nostre pubblicazioni scientifiche, inoltre, hanno definito la concomitanza temporale fra il vulcanismo e l'estinzione di massa di fine Triassico, avvenuta circa 201,5 milioni di anni fa come conferma quest'ultima ricerca su Nature Communications». |
Post n°3108 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet MICROBIOLOGIA COVID-19 ANIMALI La minaccia dello spillover inversodi Stacey McKenna/Scientific American © Monty Rakusen/AGF Il passaggio dei virus dagli esseri umani agli animali è un fenomeno poco noto, ma che sta avvenendo sempre più spesso, soprattutto negli allevamenti di bestiame, e in particolare di maiali, e rappresenta un ulteriore fattore di rischio di epidemie. La soluzione, secondo gli esperti, è un approccio che consideri la salute umana nel contesto più ampio del benessere degli animali e dell'ambiente. Quando il nuovo coronavirus è passato agli esseri umani alla fine del 2019, adattandosi così bene alla nuova specie ospite da causare una pandemia, stava sfidando ogni calcolo delle probabilità. Anche se gli scienziati stimano che circa il 60 per cento degli agenti patogeni umani conosciuti e fino al 75 per cento di quelli associati alle malattie emergenti hanno origine negli animali, il successo dello spillover rimane estremamente raro. Secondo gli studiosi, in natura esistono da 260.000 a più di 1,6 milioni di virus animali. Eppure, con poco più di 200 virus di cui è documentato che colpiscono l'uomo, molto meno dello 0,1 per cento di quelli di altre specie hanno "mai causato un'infezione umana", sottolinea un articolo di "PLOS Biology" del 2019. Affinché un virus salti dagli animali all'uomo e poi sopravviva, si riproduca e si diffonda in modo efficiente tra i suoi nuovi ospiti, è necessario che siano compresenti diversi fattori, incluse le caratteristiche ecologiche e virali. Negli ultimi decenni, la crescita della popolazione, le perturbazioni ambientali e l'aumento dell'agricoltura industriale hanno alterato la cosiddetta interfaccia uomo-animale. Questo cambiamento ha portato alla comparsa di diverse malattie zoonotiche, dall'Ebola alle influenze aviarie e suine e a diversi coronavirus. I microbi, però, non fanno il salto di specie in una sola direzione. Sono stati segnalati diversi casi di pazienti COVID-19 che hanno infettato cani e gatti da compagnia. E all'inizio di aprile è stata confermata la presenza del virus in una tigre allo zoo del Bronx (sette degli altri grandi felini sono risultati positivi al test). Le analisi genetiche evolutive indicano che durante l'epidemia di SARS del 2002-2003, la trasmissione tra l'uomo e i piccoli carnivori è avvenuta in entrambi i sensi. Inoltre, durante la pandemia di influenza A H1N1 del 2009, 21 Paesi hanno riferito di infezioni tra gli animali, la maggior parte delle quali si è manifestata in seguito all'epidemia umana. Infatti, a partire dagli anni Ottanta, i ricercatori hanno documentato casi di esseri umani che hanno infettato la fauna selvatica, gli animali da compagnia e il bestiame con una vasta gamma di agenti patogeni, tra cui virus, funghi e batteri. Mentre questa "zoonosi inversa" ha a volte conseguenze gravi, anche mortali, per gli animali, gli esperti dicono che può anche avere importanti implicazioni per la probabilità di future epidemie tra esseri umani. Un nuovo virus emerge tipicamente in seguito a una mutazione o a uno scambio di materiale genetico tra due o più virus quando infettano un ospite allo stesso tempo. Anche se entrambi i fattori giocano un ruolo nell'evoluzione virale e nel potenziale pandemico, è quest'ultimo processo - noto come riassortimento nei virus segmentati (agenti patogeni il cui genoma è diviso in più parti) come i virus dell'influenza e la ricombinazione in quelli non segmentati come i coronavirus - che rende la zoonosi da uomo a animale così rischiosa. "Ogni volta che i virus hanno il potenziale di mescolarsi con gli altri, possono causare seri problemi, soprattutto quando possono spostarsi tra animali e persone in entrambe le direzioni", dice Casey Barton Behravesh, direttore dell'One Health Office presso il National Center for Emerging and Zoonotic Infectious Diseases dei Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti. Si dà il caso che i maiali siano ottimi serbatoi di miscelazione. Il virus dell'influenza H1N1 del 2009, che ha ucciso 151.700-575.400 persone in tutto il mondo nel suo primo anno di circolazione, è partito dagli animali. Ma quel virus conteneva singoli segmenti genetici provenienti da quattro fonti distinte: gli esseri umani, gli uccelli, i maiali nordamericani e quelli eurasiatici. In effetti, molti dei virus ospitano maiali provenienti dall'uomo. Negli ultimi anni, i ricercatori hanno identificato decine di casi sporadici in tutto il mondo in cui virus dell'influenza pandemica e stagionale sono saltati dall'uomo per circolare tra le popolazioni suine. "Abbiamo avuto due salti di virus aviari che sono finiti nei maiali. E rispetto a questo, probabilmente abbiamo avuto decine, se non centinaia, di virus umani". Quindi la [diversità genetica dell'influenza nei suini] è prevalentemente di origine umana", dice Martha Nelson, ricercatrice del Fogarty International Center dei National Institutes of Health. Dal 2011 i virus dell'influenza suina contenenti geni di origine umana sono stati associati a più di 450 infezioni zoonotiche, per lo più nelle fiere agricole in tutti gli Stati Uniti. Anche se questi particolari ceppi hanno mostrato solo una blanda capacità di trasmissione interumana, quanto più elevata è la diversità genetica dei virus trovati in un ospite che fa da reservoir, tanto più è probabile che emerga una variante in grado di diffondersi in modo efficiente tra gli esseri umani. "È un po' come giocare alla roulette russa", dice Nelson. "Sappiamo che questi [virus possono far salto tra specie per infettare le persone. Ma è solo questione di tempo prima che uno di essi sia in grado di diffondersi da uomo a uomo". La trasmissione dell'influenza da uomo a maiale è diventata un fattore di rischio maggiore nell'era moderna perché presenta costanti opportunità di spillover in entrambe le direzioni. Nell'agricoltura industriale, i suini si spostano all'interno delle regioni e tra i continenti, incontrando sia i virus suini che quelli umani provenienti da tutto il mondo. Spesso vivono a stretto contatto sia con gli esseri umani che con altri maiali. Queste condizioni offrono ai virus numerose possibilità di trovare la "giusta" mutazione o una nuova combinazione di geni non solo per saltare tra le specie, ma anche per circolare attivamente. I virus e i loro componenti rimbalzano tra esseri umani e suini commerciali statunitensi e maiali da esposizione, dice Nelson, fino a quando alla fine non emergono come qualcosa di nuovo nelle persone che passano la loro vita a prendersi cura degli animali: i lavoratori di fattorie e allevamenti e coloro che si occupano di esposizioni di bestiame. Il grado in cui la zoonosi inversa aumenta i rischi di pandemie o di grandi epidemie in senso lato rimane meno chiaro. Anche se la maggior parte delle malattie zoonotiche emergenti ha avuto origine nella fauna selvatica, non nel bestiame o negli animali domestici, Barton Behravesh osserva che le interazioni tra gli esseri umani e le altre specie sono incredibilmente complesse. "C'è ogni sorta di caratteristiche che possono portare a quella tempesta perfetta in grado di causare il passaggio di una malattia tra animali e persone", dice. "Sappiamo che il contatto molto stretto con gli animali e il loro ambiente offre maggiori possibilità di trasmissione delle malattie tra animali ed esseri umani". Finora la zoonosi inversa non sembra aver influito sulla traiettoria della pandemia COVID-19. Come i virus dell'influenza, i coronavirus sono noti per saltare da una specie all'altra con relativa facilità. SARS-CoV-2 - il virus che causa COVID-19 - ha dimostrato la sua capacità di saltare dagli esseri umani ad altri animali, specialmente i gatti. I casi sono stati comunque rari. E prove limitate suggeriscono che i gatti potrebbero essere in grado di trasmettersi il virus l'un l'altro a distanza ravvicinata, ma attualmente non ci sono prove che i gatti possano infettare gli esseri umani, secondo Gregg Dean, professore e capo del dipartimento di microbiologia, immunologia e patologia della Colorado State University. Anche se le persone sono comprensibilmente preoccupate per la salute dei loro animali domestici, Dean dice che è improbabile che gli animali da compagnia diventino vettori principali di trasmissione. Anche se il SARS-CoV-2 fosse in grado di saltare dai gatti alle persone, le particolari circostanze delle interazioni felino-felino e umano-felino riducono notevolmente la probabilità che queste trasmissioni diventino un problema. Al di fuori delle colonie o dei rifugi di felini, la maggior parte dei gatti domestici si trova raramente in ambienti ad alta densità che comportano la dispersione di cluster di casi nella comunità. E i gatti sono più facili da testare e da mettere in quarantena rispetto agli esseri umani. "I nostri gatti domestici sono probabilmente più a rischio di prendere il COVID-19 da noi di quanto lo saremo noi a prenderlo da loro", dice Dean. Tuttavia, riesaminare le nostre ipotesi sul modo in cui le malattie fluiscono sarà la chiave per prevenire future pandemie. E di conseguenza, molti esperti stanno spingendo per un approccio One Health che consideri la salute umana nel contesto più ampio del benessere degli animali e dell'ambiente. "Pensiamo ancora agli esseri umani come a una specie pulita e di livello superiore, mentre gli animali sono quelli con tutti gli agenti patogeni", dice Nelson. "Ma se si pensa alla società umana e alle nostre densità e alle nostre strutture di contatto, siamo noi gli incubatori di agenti patogeni". (L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Scientific American" il 20 maggio 2020. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°3107 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet eso2008it - Foto Comunicato StampaUn telescopio dell'ESO vede i segni della nascita di un pianeta 20 Maggio 2020
Alcune osservazioni realizzate con il VLT (Very Large Telescope) dell'ESO (l'Osservatorio Europeo Australe) hanno rivelato chiari indizi della nascita di un sistema stellare. Intorno alla giovane stella AB Aurigae si trova un denso disco di polvere e gas in cui gli astronomi hanno individuato una struttura a spirale prominente con un "nodo" che segna il luogo in cui si starebbe formando un pianeta. La struttura osservata potrebbe essere la prima prova diretta della nascita di un pianeta. "Migliaia di esopianeti sono stati identificati finora, ma non si sa ancora molto sul loro processo di formazione", afferma Anthony Boccaletti, dell'Osservatorio di Parigi, Università PSL, Francia, alla guida dello studio. Gli astronomi sanno che i pianeti nascono all'interno dei dischi polverosi che circondano le stelle giovani, come AB Aurigae, a mano a mano che il gas freddo e la polvere si aggregano. Le nuove osservazioni con il VLT dell'ESO, pubblicate dalla rivista Astronomy & Astrophysics, forniscono indizi cruciali per aiutare gli scienziati a comprendere meglio questo processo. "Dobbiamo osservare sistemi molto giovani per catturare davvero il momento in cui i pianeti si formano", continua Boccaletti. Ma finora gli astronomi non erano stati in grado di acquisire immagini sufficientemente nitide e profonde di questi giovani dischi per trovare l'indicazione che segna il punto in cui un piccolo pianeta potrebbe nascere. Le nuove immagini mostrano una straordinaria spirale di polvere e gas intorno a AB Aurigae, una stella a 520 anni luce dalla Terra nella costellazione dell'Auriga. Spirali di questo tipo segnalano la presenza di pianeti neonati, che "scalciano" il gas, creando "disturbi nel disco sotto forma di un'onda, un po' come la scia di una barca su un lago", spiega Emmanuel Di Folco del Laboratorio Astrofisico di Bordeaux (LAB), Francia, che ha partecipato allo studio. Mentre il pianeta ruota intorno alla stella centrale, questa onda prende la forma di un braccio a spirale. La regione in cui si vede il "nodo" giallo e brillante vicino al centro della nuova immagine di AB Aurigae, che si trova a una distanza dalla stella pari a circa quella di Nettuno dal Sole, è uno di questi siti di disturbo in cui il gruppo di lavoro ritiene si stia formando un pianeta. Le osservazioni del sistema AB Aurigae fatte alcuni anni fa con ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), di cui ESO è un partner, hanno fornito i primi indizi sulla formazione del pianeta in corso intorno alla stella. Nelle immagini di ALMA, gli scienziati hanno individuato due bracci di gas a spirale vicino alla stella, all'interno della regione interna del disco. Quindi, nel 2019 e all'inizio del 2020, Boccaletti e un gruppo di astronomi provenienti da Francia, Taiwan, Stati Uniti d'America e Belgio si sono dedicati a catturarne un'immagine più chiara puntando verso la stella lo strumento SPHERE montato sul VLT dell'ESO in Cile. Le immagini di SPHERE sono le più profonde del sistema AB Aurigae ottenute fino a oggi. Con il potente sistema per produrre immagini di SPHERE, gli astronomi hanno potuto vedere la debole luce emessa dai piccoli granelli di polvere e l'emissione proveniente dal disco interno. Hanno confermato la presenza dei bracci a spirale rilevati per la prima volta da ALMA e hanno anche individuato un'altra caratteristica notevole, un 'nodo', che indica la presenza di formazione planetaria in corso nel disco. "Il 'nodo' è previsto secondo alcuni modelli teorici di formazione dei pianeti", afferma la coautrice Anne Dutrey, che lavora a LAB. "Corrisponde alla connessione di due spirali - una che si avvolge verso l'interno dell'orbita del pianeta, l'altra che si espande verso l'esterno - che si uniscono proprio alla posizione del pianeta. Consentono al gas e alla polvere del disco di accumularsi sul pianeta in formazione e farlo crescere." L'ESO sta costruendo l'ELT, il telescopio estremamente grande da 39 metri, che attingerà al lavoro all'avanguardia di ALMA e SPHERE per studiare mondi extrasolari. Come spiega Boccaletti, questo potente telescopio consentirà agli astronomi di ottenere vedute ancora più dettagliate dei pianeti mentre si formano. "Dovremmo essere in grado di vedere direttamente e più precisamente come la dinamica del gas contribuisce alla formazione dei pianeti", conclude. |
Post n°3106 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 23 Agosto 2012 Vincenzo Zappalà News 3.606 13 A parte il nome (spesso gli astronomi si divertono con i loro paragoni fantasiosi), l'oggetto osservato al VLT dell'ESO è veramente una rarità. Tra non molto si trasformerà in una supernova, forse la prossima della nostra galassia. Ve ne sono pochissime conosciute e IRAS 17163-3907 è quella a noi più vicina (solo 13000 anni luce, intendendo -come al solito- che la sua luce ha impiegato 13000 anni per giungere fino a noi) ed è nella costellazione dello Scorpione. Essa è veramente un mostro celeste. La sua luminosità è 500 000 volte quella del Sole ed è classificata come iper-gigante gialla. In questa fase evolutiva, le sue dimensioni raggiungono mille volte quelle della nostra stella e una massa venti volte superiore. Se la nebulosa dell'uovo fritto fosse al centro del nostro Sistema Solare, la Terra sarebbe ben all'interno della stella e la sua superficie rasenterebbe l'orbita di Giove. La nebulosa che la circonda ingoierebbe tutti i pianeti e i pianeti nani e anche molte comete esterne all'orbita di Nettuno. La parte più esterna della nebulosa arriverebbe a circa 10000 Unità Astronomiche. IRAS 17163-3907 mostra chiaramente due quasi perfetti involucri di gas e polvere. Le stelle iper-giganti gialle sono in una fase terminale estremamente attiva e sono caratterizzate da episodi di espulsione violenta di materiale. Questa, in particolare, ha già espulso almeno quattro masse solari nel giro di poche centinaia di anni. Nell'immagine del VLT si vedono chiaramente due involucri differenti, composti essenzialmente da polvere ricca di silicati, mischiata a gas. Tra non molto esploderà come supernova, arricchendo i suoi dintorni di elementi pesanti e innescando probabilmente la nascita di nuove stelle e di nuovi pianeti attorno a esse. L'immagine è stata ottenuta nel medio infrarosso. La stella è una delle trenta più luminose del cielo a 12 micron di lunghezza d'onda. Ora non ci resta che attendere i suoi fuochi artificiali... la nebulosa dell' uovo fritto |
Post n°3105 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 14 GIU 2020 LA RAPIDA MIGRAZIONE DI TITANO Posted at 13:25h in Astronews, Lune e satelliti, Pianeti, Sistema Solare by Barbara Bubbi Share Utilizzando dati della sonda Cassini, gli scienziati hanno scoperto che la luna di Saturno Titano si sta allontanando sempre più dal suo pianeta, un centinaio di volte più velocemente del previsto. Lo studio, pubblicato su Nature Astronomy, suggerisce che Titano si sia formato molto più vicino a Saturno e che abbia raggiunto la sua posizione attuale nel corso dei suoi oltre 4 miliardi e mezzo di anni di età. Per gli standard terrestri, Titano è un luogo davvero strano: più grande di Mercurio, è avvolto da una densa atmosfera e la sua superficie è percorsa da fiumi e laghi composti di idrocarburi liquidi come metano ed etano. Al di sotto della spessa crosta ghiacciata, potrebbe persino essere presente un oceano di acqua liquida, potenzialmente adatto a ospitare la vita. "Gran parte degli studi precedenti hanno ipotizzato che le lune come Titano si siano formate ad una distanza orbitale simile a quella che osserviamo oggi", afferma Jim Fuller del Caltech, tra gli autori dello studio. "Le nostre scoperte implicano che il sistema di lune di Saturno, e forse i suoi anelli, si siano formati e siano evoluti in maniera molto più dinamica rispetto a quanto si pensava". Per comprendere le dinamiche della migrazione orbitale, possiamo riferirci al sistema Terra-Luna: mano che orbita attorno al nostro pianeta, la Luna esercita un piccola influenza gravitazionale sulla Terra, un meccanismo che è alla base del fenomeno delle maree. L'attrazione della Luna fa sì che le masse d'acqua terrestre si protendano verso il nostro satellite, generando un rigonfiamento. Il campo gravitazionale della Terra viene distorto, fornendo alla Luna una spinta che tende ad allontanarla dal nostro pianeta, ad un tasso di circa 3,8 centimetri all'anno. I processi mareali allargano l'orbita lunare, sottraendo energia rotazionale al nostro pianeta. Titano esercita su Saturno un'influenza gravitazionale analoga, ma i processi in atto nel gigante gassoso dovrebbero essere più deboli rispetto a quelli terrestri, data la composizione gassosa del pianeta. Secondo le teorie precedenti, data la distanza attuale di 1,2 milioni di chilometri da Saturno, Titano dovrebbe allontanarsi a un tasso di appena 0,1 centimetri per anno. Ma i nuovi dati suggeriscono una stima ben diversa. Due diversi team di astronomi hanno utilizzato tecniche differenti, basate sui dati della sonda Cassini, per misurare l'orbita di Titano lungo un periodo di dieci anni. Una tecnica, l'astrometria, permette di misurare precisamente la posizione di Titano rispetto allo sfondo stellare nelle riprese di Cassini, mentre l'altra tecnica misura gli effetti dell'influsso gravitazionale di Titano sulla sonda spaziale. I risultati dei due metodi si sono rivelati in perfetto accordo, suggerendo che Titano si allontani dal suo pianeta ad un tasso di 11 centimentri per anno, almeno cento volte più rapidamente del previsto. Una teoria, chiamata "resonance locking" e ideata quattro anni fa da Fuller, potrebbe spiegare questo risultato sorprendente. In base a questa ipotesi, le lune esterne si allontanano dal pianeta ad una velocità simile a quella delle lune interne, a causa di risonanze tra oscillazioni del pianeta e moto orbitale dei satelliti. Questo processo di forzatura delle maree può far migrare le lune più rapidamente. "Le nuove misurazioni suggeriscono che questo tipo di interazioni lune-pianeta potrebbe essere più incisivo del previsto e potrebbe essere applicato a molti sistemi, ad esempio alle esolune in orbita attorno ad altri mondi o persino a sistemi stellari binari", conclude Fuller. Nell'immagine Saturno e Titano ripresi da Cassini nel 2012 |
Post n°3104 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
03 FEB 2018 POSSIBILI CULLE DELLA VITA SU TITANO Posted at 15:10h in Astronews, Lune e satelliti, Sistema Solare by Barbara Bubbi Share I ricercatori della NASA hanno confermato nell'atmosfera di Titano la presenza di acrilonitrile, o cianuro di vinile, un composto organico che sarebbe in grado di formare strutture stabili, flessibili, simili a membrane cellulari. La conferma rafforza l'ipotesi che possa formarsi vita microbica nei vasti mari di metano della luna di Saturno, anche in assenza di acqua. In passato gli scienziati avevano già affrontato la questione se qualche molecola organica, presente su Titano nonostante le condizioni inospitali, potesse formare strutture simili alle membrane lipidiche a due strati che delimitano le cellule viventi sulla Terra. Sottili e flessibili, i lipidi a due strati sono i principali componenti della membrana cellulare che separa l'interno di una cellula dal mondo esterno. Secondo i ricercatori l'acrilonitrile sarebbe il miglior candidato per svolgere questo compito. La sonda Cassini aveva rilevato per la prima volta questa sostanza nell'atmosfera di Titano, ma recentemente è giunta la conferma grazie a osservazioni del telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array). Maureen Palmer del Goddard Space Flight Center della NASA, a guida dello studio pubblicato su Science Advances, ha analizzato dati d'archivio di ALMA individuando acrilonitrile nell'alta atmosfera di Titano, ad altitudini maggiori di 200 chilometri, con concentrazione maggiore in aree al di sopra del polo sud della luna. Alle basse temperature di Titano, che raggiungono -179 gradi Celsius, le molecole organiche presenti in atmosfera formano gocce che piovono in basso a riempire i laghi, nel corso di un ciclo simile a quello dell'acqua sulla Terra. In superficie le molecole organiche potrebbero formare forme di vita semplici, microscopiche. Il team ha realizzato modelli per dimostrare che in Ligeia Mare, uno dei laghi di Saturno, è presente abbastanza acrilonitrile da formare circa 10 milioni di cellule per centimetro cubo. Non è stato ancora dimostrato che l'acrilonitrile possa contribuire alla comparsa della vita, ma uno studio precedente di scienziati della Cornell University ha reso questa ipotesi una prospettiva interessante. I ricercatori avevano ipotizzato che le molecole di acrilonitrile potessero unirsi in uno strato di materiale simile a quello delle cellule viventi. Questo foglio formerebbe una cavità, una sfera microscopica chiamata azotosoma, che potrebbe servire come piccolo serbatoio di immagaz- zinamento e trasporto. Fosforo e ossigeno, che si trovano nelle membrane cellulari sulla Terra, non esistono nei freddi oceani di metano su Titano, quindi eventuali membrane di tipo cellulare dovrebbero basarsi su azoto, idrogeno e carbonio, elementi abbondanti sulla luna di Saturno. Eventuale vita basata su acrilonitrile, come ogni altra, dovrebbe fronteg- giare circostanze davvero difficili su Titano. Tuttavia Palmer ha aggiunto: "Se le membrane potessero essere ricreate in laboratorio simulando le condizioni dei mari di Titano, questo ci renderebbe più ottimisti relativamente alla loro reale formazione sul satellite di Saturno". Secondo il team, Titano, grazie alla vasta chimica atmosferica e alla presenza di liquidi in superficie, è un laboratorio chimico interessante per studiare i confini della possibile biochimica coinvolta nella nascita della vita. https://phys.org/news/2018-02-titan-hydrocarbon-soup- L'immagine mostra Titano nell'ultravioletto e infrarosso. I colori rosso e verde indicano le zone in cui il metano nell'atmosfera assorbe la luce, mentre il blu mostra nebbia atmosferica. |
Post n°3103 pubblicato il 17 Giugno 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 19 APR 2017 BOLLICINE NEI MARI DI TITANO Posted at 15:20h in Astronews, Lune e satelliti, Pianeti, Sistema Solare by Barbara Bubbi Share Un team di ricercatori di diverse istituzioni in Francia e Messico ha sviluppato modelli a computer che simulano le condizioni sulla più grande luna di Saturno, Titano, dimostrando che alcune isole visibili sulla superficie del pianeta potrebbero essere in realtà flussi di bolle. Lo studio è stato pubblicato su Nature Astronomy. Precedenti ricerche avevano suggerito che i mari esistenti sulla superficie di Titano fossero composti di metano in superficie ed etano a maggiori profondità, e che l'atmosfera della luna fosse costituita principalmente di azoto. Inoltre i dati della sonda Cassini avevano rilevato isole misteriose che comparivano e sparivano nel corso del tempo in alcuni mari della luna, come riportato in questo articolo https://www.universoastronomia.com/2016/03/07 /misteriose-formazioni-sui-laghi-titano/ Studi relativi a queste isole avevano consentito di appurare che non erano dovute a cambiamenti nel livello del mare, il che aveva portato alcuni scienziati a teorizzare che si trattasse di bolle in risalita dal fondale verso la superficie. Nel nuovo studio i ricercatori hanno costruito modelli a computer per scoprire se le bolle potessero davvero essere la causa delle enigmatiche isole. Il risultato riportato nello studio dimostra che le isole potrebbero, in effetti, essere costituite da flussi di bolle in risalita, e fornisce una spiegazione sulla dinamica del fenomeno. Gli scienziati suggeriscono che fattori come maree, venti o persino cambiamenti nella temperatura atmosferica potrebbero far sì che l'azoto nell'atmosfera si mescoli con il metano in superficie, che verrebbe di conseguenza spinto giù in profondità nelle pozze di etano. La differenza di pressione a varie profondità potrebbe provocare la separazione delle componenti, causando la formazione di bolle di azoto, che risalirebbero naturalmente verso la superficie. Simili bolle sarebbero molto riflettenti, il che spiegherebbe le rilevazioni della sonda Cassini. https://phys.org/news/2017-04-islands-titan-streams.html Credit NASA, JPL |
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