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Messaggi del 22/06/2019

Il nuovo inventario dei rifiuti radioattivi

Post n°2254 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il nuovo inventario dei rifiuti radioattivi

rende evidente l'urgenza di un unico

deposito nazionale definitivo per i rifiuti

ad attività bassa e media e di uno temporaneo

per quelli ad alta attività

La prima cosa che salta all'occhio sfogliando

il nuovo inventario nazionale dei rifiuti radioattivi,

aggiornato al 31 dicembre 2017, è l'inedita

paternità: con l'avvio nello scorso agosto

dell'Ispettorato nazionale per la sicurezza

nucleare e la radioprotezione (Isin),  il Centro

nazionale per la sicurezza nucleare e la

radioprotezione - nato a sua volta dal

soppresso Dipartimento nucleare di Ispra -

ha cessato di esistere, cedendo funzioni,

competenze e risorse umane al nuovo ente.

Una discontinuità solo di facciata dunque,

almeno per quanto riguarda l'aggiornamento

annuale dell'inventario, condotto senza

interruzioni dal 2000. Di anno in anno, l'inventario

raccoglie e organizza i dati che i diversi gestori

di rifiuti radioattivi (proprietari dei rifiuti e

dunque responsabili della loro detenzione)

trasmettono all'Ispettorato.

Oltre a costituire un supporto all'attività di

vigilanza, l'inventario permette all'Ispettorato

di proporre misure compensative per le

comunità locali che ospitano i rifiuti radioattivi,

valutandone la pericolosità.

"Le variazioni rispetto al precedente inventario

non riflettono solo i cambiamenti nelle strategie

di gestione ma anche una migliore caratterizzazione

dei rifiuti.

Il continuo progresso tecnologico ci spinge infatti

verso una maggiore accuratezza delle misure.

Di conseguenza da un anno all'altro ci possono

essere variazioni" premette Mario Dionisi, responsabile

dell'Area tecnologie nucleari dell'Ispettorato.

Rispettando il decreto dei Ministeri dell'ambiente

e dello sviluppo economico del 2015, l'inventario

cataloga i rifiuti radioattivi in cinque categorie, a

seconda della loro attività: vita media molto

breve, attività molto bassa, bassa attività,

media attività e alta attività.

I rifiuti sono situati in 22 siti, distribuiti in sette

regioni.

Su un totale di 30.497 metri cubi, il Lazio ospita

la maggiore quantità di rifiuti: 9241 metri cubi,

pari al 30,3 per cento del totale.

La maggioranza è stoccata presso l'impianto

romano di Casaccia, gestito da Nucleco, che da

solo ospita quasi un quarto del totale nazionale.

A seguire, Lombardia (19,3 per cento), Piemonte

(16,7 per cento), Emilia-Romagna (10,5 per

cento), Basilicata (10,3 per cento), Campania

(9,6 per cento) e Puglia (3,3 per cento).

Se il volume è un parametro rilevante nella

valutazione dei rifiuti, ancora più importante

è però la loro attività, e da questo punto di vista

la regione che ne ospita di più è il Piemonte.

La maggioranza dei rifiuti radioattivi è ad

attività bassa o molto bassa.

"Eccetto il combustibile irraggiato e i materiali

attivati, cioè esposti ai flussi di particelle, lo

smantellamento delle centrali nucleari produce

solo rifiuti a bassa attività.

Tuttavia, la maggioranza dei rifiuti radioattivi

oggi generati in Italia proviene dal settore

ospedaliero e, in parte, da quello industriale:

circa 200 metri cubi all'anno", continua Dionisi.

Tra questi ci sono anche i materiali che possono

essere venuti a contatto con sostanze

radioattive, come i guanti in gomma del personale

sanitario, cotone, siringhe e altro.

La radiodiagnostica usa comunque isotopi a vita

media molto breve: dopo qualche giorno, o al più

tardi alcune settimane, sono considerati rifiuti

pericolosi convenzionali e trattati come tali.

Un capitolo a parte riguarda i rifiuti radioattivi che

derivano dalle attività di bonifica di siti industriali

contaminati accidentalmente, a seguito per

esempio di incidenti di fusione di sorgenti radioattive.

Si tratta in generale di scorie di fusione, polveri,

ceneri, prodotti finiti ma anche di materiali

provenienti dalla bonifica di forni o camini contaminati.

Ci sono casi in cui, non essendo stata rilevata

con tempestività la presenza di radioattività,

quei materiali sono stati smaltiti in discariche

convenzionali, provocando una contaminazione

radioattiva.

"In passato, infatti, non ci si accorgeva per

tempo di un eventuale incidente e il materiale

contaminato lasciava la fonderia senza la

consapevolezza della contaminazione.

Oggi le industrie si sono dotate di portali che

scansionano tutto ciò che entra ed esce, allo

scopo di rilevare l'eventuale presenza di sorgenti

radioattive", prosegue Dionisi.

Per quanto riguarda il combustibile irraggiato, il

materiale ad alta attività, ammonta a meno di 16

tonnellate, buona parte delle quali stoccate nel

deposito "Avogadro" di Saluggia, in provincia di

Vercelli. Infatti, più del 90 per cento del

combustibile irraggiato, proveniente dalle quattro

centrali nucleari nazionali dismesse, si trova nel

Regno Unito e in Francia, dove in passato è

stato inviato per essere riprocessato, cioè

sottoposto a un particolare processo chimico

che permette di recuperare l'uranio e il plutonio

ancora utilizzabile.

Residui e prodotti di fissione sono stati invece

immobilizzati nel vetro, che resiste meglio del

cemento alla radioattività, e quindi stoccati in

fusti che dovranno tornare nel nostro paese.

Un deposito per i rifiuti radioattivi

di Giovanni Zagni e Davide Maria De Luca"I

rifiuti dovranno rientrare entro il 2025 ed è

quindi necessario che l'Italia si doti della struttura

di deposito idonea a ospitarli, nella prospettiva di

smaltirli nel futuro in un deposito geologico

multinazionale" spiega Lamberto Matteocci, direttore

vicario dell'Ispettorato.

Ciò che il paese necessita con urgenza non è un

deposito geologico come quello finlandese di Onkalo,

ormai prossimo al completamento, ma un deposito

superficiale per smaltire in maniera definitiva i rifiuti

a bassa e media attività e un deposito che immagaz-

zini temporaneamente i rifiuti ad alta attività, come

appunto quelli che dovranno rientrare dalla Francia

e dal Regno Unito.

La tecnologia necessaria a realizzarlo è disponibile

da decenni, e infatti altri paesi europei li hanno già

realizzati.

"Nel nostro paese è dagli anni ottanta che si parla

di costruire un deposito centralizzato: è un processo

lungo che però rappresenta una soluzione idonea

allo smaltimento, migliore dell'attuale collocazione

dei rifiuti in più siti, che a suo tempo non sono stati

selezionati a questo scopo", sottolinea Matteocci.

Anche se la procedura di individuazione delle aree

potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale

si è conclusa nel 2015, la carta nazionale non è

mai stata pubblicata e rimane secretata.

Nel frattempo, sono in corso approfondimenti sulle

caratteristiche sismiche dei siti papabili.

"In questi mesi stiamo procedendo alla validazione

della nuova lista, stilata dalla Sogin.", conclude

Matteocci. La speranza è che non condivida

la stessa sorte della precedente.

 
 
 

Cambiamento climatico e rischio di conflitti armati

Post n°2253 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

12 giugno 2019

Pablo Tosco/Oxfam Il 3-20 per cento del rischio

di conflitti armati nell'ultimo secolo è da attribuire

al cambiamento climatico.

In futuro, il peso percentuale del clima sarà doppio,

nello scenario più ottimistico, o aumenterà di cinque

volte, nel più pessimistico

Il 3-20 per cento del rischio di conflitti armati nell'ultimo

secolo è stato influenzato dal cambiamento climatico.

E se non si pone un freno all'emissione di gas serra,

nell'arco del prossimo secolo la percentuale è destinata a

quintuplicare nello scenario peggiore, o a raddoppiare,

nello scenario più ottimistico.

E' quanto emerge da un'analisi pubblicata sulla rivista

"Nature".

Studi condotti in passato hanno già evidenziato una

correlazione tra cambiamenti climatici e rischio di conflitti

armati in alcune zone del pianeta.

L'incremento della temperatura media, infatti, può

determinare la desertificazione del territorio nei paesi

più caldi, influenzare negativamente la resa dei raccolti

agricoli e quindi danneggiare l'economia, aggravando le

disuguaglianze e di conseguenza le tensioni sociali.

Il nuovo studio ha fatto un passo in più, fornendo le

stime quantitative di questa correlazione, emerse da

interviste strutturate a 11 esperti di varie discipline,

tra cui climatologia, geografia, sociologia, scienze

politiche ed economia.

Si tratta di stime soggettive, che comunque

contribuiscono a una migliore comprensione dei costi s

ociali dell'emissione di gas serra e a una definizione delle

priorità nella risposta che bisogna dare ai cambiamenti

climatici in termini cooperazione con gli altri paesi,

come ha sottolineato Katharine Mach, direttrice della

Stanford Environment Assessment Facility, che ha

coordinato lo studio.

Le guerre civili seguono le dinamiche del clima

Il cambiamento climatico non figura tra i principali

fattori che portano ai conflitti violenti e armati: sono

più importanti il basso livello di sviluppo socioeconomico,

la forza dei governi nazionali, le disuguaglianze

preesistenti nella società e i conflitti degli anni precedenti.

Tutti gli esperti si sono però trovati d'accordo sul fatto

che con i cambiamenti climatici il rischio di conflitti

non potrà diminuire.

"Storicamente, il livello di conflitti armati nel tempo

è stato fortemente influenzato dai repentini cambiamenti

nelle relazioni tra gli Stati e nei sistemi politici nazionali",

ha spiegato James Fearon, professore di scienze politiche

della Stanford University e coautore dello studio.

"È probabile che nel corso del secolo, il cambiamento

climatico avrà un significativo impatto su entrambi ma è

estremamente difficile prevedere se questi cambiamenti

politici correlati al cambiamento climatico avranno a loro

volta un grande effetto sui conflitti violenti o armati". 

 
 
 

L'aumento delle piogge estreme negli ultimi 50 anni.

Post n°2252 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

 

06 giugno 2019Comunicato stampa

Le piogge estreme sono aumentate in

modo costante a livello globale negli

ultimi 50 anni

Fonte: Università di Bologna

Biosphoto/AGF Le forti precipitazioni spesso

responsabili di frane e alluvioni sono aumentate

continuamente tra il 1964 e il 2013, in parallelo

con l'intensificarsi del riscaldamento globale,

rivela una ricerca realizzata da studiosi della

University of Saskatchewan (Canada) e

dell'Università di Bologna

La frequenza di precipitazioni estreme - eventi

che possono causare frane e alluvioni, mettendo

a rischio la sicurezza e la salute pubblica -

è aumentata a livello globale negli ultimi

cinquant'anni, in parallelo con l'intensificarsi

del riscaldamento globale.

A rivelarlo è un nuovo studio pubblicato sulla

rivista Water Resources Research e realizzato

da studiosi della University of Saskatchewan

(Canada) e dell'Università di Bologna.
 
L'analisi ha preso in considerazione il numero

di piogge estreme nel periodo compreso tra il

1964 al 2013, mostrando come questi

fenomeni metereologici siano aumentati

costantemente in tutte le aree considerate:

Europa, Russia, Cina, Australia e vaste zone

del Nord America.

I PERICOLI DELLE PIOGGE ESTREME

Le precipitazioni estreme - intensi temporali con

forti piogge concentrate in un tempo ridotto -

possono rivelarsi particolarmente pericolose,

causando frane, allagamenti e inondazioni:

eventi che provocano spesso anche contamina-

zioni dei sistemi idrici con conseguenze

drammatiche sulla salute pubblica.
 
Si stima che tra il 1980 e il 2009 le inondazioni

causate dalle piogge abbiano colpito quasi tre

miliardi di persone in tutto il mondo provocando

oltre mezzo milione di morti.

E questi fenomeni sono spesso responsabili

anche di danni all'agricoltura, agli edifici, alle 

strade e alle infrastrutture, con conseguenze

estremamente rilevanti in termini sociali ed

economici.
 
UN AUMENTO COSTANTE

Per indagare il cambiamento nella frequenza

delle piogge estreme nel corso degli anni, gli

studiosi hanno preso in considerazione più di

8.700 resoconti giornalieri delle precipitazioni

raccolti da oltre 100.000 stazioni metereologiche

di tutto il mondo.

Un'analisi da cui per la prima volta è emerso

come la frequenza di precipitazioni estreme

tra il 1964 e il 2013 sia andata progressivamente

aumentando.

Nell'ultimo decennio analizzato, tra il 2004 e il

2013, il numero di piogge estreme a livello globale

è stato superiore del 7% rispetto a quanto previsto:

una percentuale che cresce fino all'8,6% se

consideriamo solo Europa e Asia.
 
Un trend di costate crescita che secondo gli

studiosi può essere messo in relazione con il

riscaldamento globale causato negli stessi

decenni dall'attività dell'uomo.

Temperature più alte portano infatti ad un

maggiore accumulo di acqua nell'atmosfera e

di conseguenza ad una più alta frequenza di

forti precipitazioni.
 
GESTIRE LE EMERGENZE

"Questi risultati possono essere spiegati

considerando che il riscaldamento globale

può indurre un maggiore accumulo di acqua

nell'atmosfera", conferma Alberto Montanari,

professore di costruzioni idrauliche e idrologia

all'Università di Bologna, tra gli autori dello

studio.

"Sapere che la frequenza delle precipitazioni

estreme è in aumento può aiutarci a trovare

soluzioni efficaci per l'adattamento ai cambiamenti

climatici: avremo sempre più bisogno di

infrastrutture in grado di resistere a shock frequenti".
 
I governi nazionali, le autorità locali e in

generale chi si occupa della gestione delle

emergenze dovrà insomma inserire tra le

priorità la pianificazione di soluzioni per far

fronte alle piogge estreme, limitandone il più

possibile le pericolose conseguenze.
 
"La nostra ricerca ha mostrato che eventi

potenzialmente molto pericolosi come le piogge

estreme sono aumentati decennio dopo

decennio", dice Simon Papalexiou, idroclimatologo

della University of Saskatchewan e primo

autore dello studio. "Se il riscaldamento globale

continuerà a crescere come prevedono gli

ultimi modelli climatici, dobbiamo iniziare subito

a mettere in campo strategie per la gestione

di questi fenomeni che altrimenti possono

portare a conseguenze devastanti".
 
I PROTAGONISTI DELLO STUDIO

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista

"Water Resources Research" con il titolo

"Global and Regional Increase of Precipitation

Extremes under Global Warming".

Gli autori sono Simon Papalexiou della University

of Saskatchewan (Canada) e Alberto Montanari

del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica,

Ambientale e dei Materiali dell'Università di

Bologna.
 
La ricerca è stata finanziata dal programma 

Global Water Futures della University of

Saskatchewan e dai fondi per i "Dipartimenti

Eccellenti" assegnati al Dipartimento di Ingegneria

Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali

dell'Università di Bologna.

 
 
 

Un incredibile reperto fossile.

Post n°2251 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Un banco di pesci di 50 milioni di anni fa

Un incredibile reperto fossile cattura in

un istante eterno la fuga di 259 pesciolini.

E prova che gli spostamenti di massa sono,

per le creature acquatiche, una strategia

dalle origini antiche.

Un banco di 259 pesci intrappolati in

sedimenti calcarei: una capsula del tempo

direttamente dall'Eocene.

I pesci sanno muoversi come un singolo

organismo formato da milioni di individui:

ogni esemplare sa che, per sopravvivere,

dovrà nuotare accanto ai vicini, evitando

di rimanere isolato.

È così oggi e, a quanto pare, era così anche

nell'Eocene, come testimonia la scoperta di 

un banco di pesci fossile di 50 milioni di

anni fa.

Nobuaki Mizumoto, biologo della Arizona

State University, si è imbattuto nel raro reperto

nel 2016 mentre si trovava in vacanza in Giappone.

La lastra di pietra calcarea di 55 cm per 38 cm

che incornicia la scena, era conservata in un

piccolo museo della cittadina di Katsuyama.

I protagonisti sono 259 giovani esemplari di

una specie estinta, l'Erismatopterus levatus,

i cui individui adulti raggiungevano i 6,5 cm.

I pesciolini morirono in massa prima di rag-

giungere la maturità - molti non superano i 2 cm.

Mizumoto, esperto di comportamento animale,

ha raccolto le sue osservazioni in un articolo

pubblicato suProceedings of the Royal Society B

ACQUA DOLCE. 

La roccia proviene dalla Formazione del Green

River, una formazione geologica dell'Eocene

(56-34 milioni di anni fa) che ebbe origine dai

depositi sedimentari di un gruppo di laghi

intermontani del Nord America, lungo l'omonimo

fiume che attraversa Colorado, Wyoming e Utah.

 

Un dettaglio del fossile. | MIZUMOTO ET AL.

IN TRAPPOLA. Il fossile offre l'occasione di

studiare l'evoluzione di un comportamento

collettivo cristallizzato nel tempo da un evento

improvviso, che non diede modo ai pesci di

disperdersi per evitare la morte.

Forse, sul banco che nuotava in acque poco

profonde collassò improvvisamente una duna

di sabbia; è anche possibile - ma meno probabile

- che gli animali fossero già morti quando furono

catturati dai sedimenti, e che la bidimensionalità

della roccia faccia sembrare un banco quello che

un banco non è. 

CON ORDINE. 

Mizumoto ha condotto un migliaio di simulazioni

del movimento dei pesci che sembrano identificare

un banco di creature che nuotava nella stessa

direzione, seguendo le regole dell'attrazione e

della repulsione (cioè mantenere una certa vicinanza

o una certa distanza dai vicini), le stesse che

governano i movimenti dei banchi di pesci odierni.

Questa strategia avrebbe dunque radici lontane,

e proprio perché di successo si sarebbe sviluppata

tra specie molto diverse, incluse quelle senza

discendenti moderni.

 
 
 

Il gigantesco ologramma dell'universo

Post n°2250 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Fisica dell'incredibile

Secondo una teoria che prende il nome di principio

olografico, l'universo sarebbe simile ad un gigantesco

ologramma

Tre ricercatori bolognesi, Giulio Pozzi,

Gian Franco Missiroli e Pier Giorgio Merli,

utilizzarono un dispositivo (intensificatore

di immagine) così sensibile da poter

 visualizzare la traccia di un singolo

elettrone alla volta.

L'esperimento, pubblicato nel 1976, riuscì a

mettere in evidenza, nello stesso tempo, le

tracce dei singoli elettroni e la formazione,

su uno schermo posto dietro le fenditure, di

frange di interferenza a partire dall'accumulo

di queste tracce, un risultato previsto dalla

meccanica quantistica, ma mai sperimentato

prima a questo livello di precisione, peraltro

ritenuto dai più irraggiungibile (v. Fig.3). 

Qualora una delle due fenditure venisse chiusa,

si passa da una figura di interferenza ad una di

diffrazione, che, seppur strutturalmente diversa,

conferma anche in questo caso un

comportamento ondulatorio della materia (v. Figg. 4 e 5)

Una versione moderna (2008) di tale esperimento

è stata realizzata da Giulio Pozzi, e Stefano

Frabboni e Gian Carlo Gazzadi (Università di

Modena), con fenditure della dimensione di

alcune decine di nanometri (miliardesimi di metro),

risultato che sarebbe stato totalmente fuori dalla

portata delle tecnologie degli anni '70/'80.

In questo lavoro mi sono posto il problema di

calcolare la variazione di entropia nel passaggio

dalla configurazione della Fig.4 (interferenza) a

quella della Fig.5 (diffrazione).

In particolare si può dimostrare che l'entropia è

aumentata a causa di un maggiore grado di

imprevedibilità e di disordine del sistema.

Il disordine ha molte più configurazioni dei

pochi stati che chiamiamo "ordinati", e pertanto

risulta più imprevedibile.

La figura di interferenza (Fig.4c) mostra una maggiore

strutturazione a fronte della figura di diffrazione

(Fig.5c) più omogenea e quindi più imprevedibile

circa il punto di arrivo delle particelle sullo schermo.

Un risultato significativo che è emerso dai miei

calcoli è legato al fatto che tale variazione di

entropia dipende dalla superficie totale delle

due fenditure, inizialmente entrambe aperte.

Il sistema di fatto "ricorda" lo stato iniziale e ci

permette di verificare che, anche se l'impostazione

dell'esperimento è cambiata, l'informazione iniziale

si è conservata.

Ancora una volta emerge un risultato relativo

all'entropia la quale dipende da una superficie

bidimensionale che, in qualche modo, nasconde

un volume: nella fattispecie lo spazio tridimensionale

che si trova tra le fenditure e lo schermo.

In sostanza si ripresenta un principio olografico in

ambito quantistico.

La tridimensionalità non è l'unica caratteristica

 interessante degli ologrammi: se l'ologramma di

una mela viene tagliato a metà e poi illuminato da

un laser, si scopre che ciascuna metà contiene

ancora l'intera immagine della mela.

Anche continuando a dividere le due metà, vedremo

che ogni minuscolo frammento di pellicola conterrà

in sé (-gramma) sempre una versione più piccola,

ma intatta, di tutte le informazioni dell'intera (olo-)

immagine. Si riscontra pertanto una proprietà di

 self - similarità della figura ottenuta.

E' interessante notare che tale proprietà è tipica

dei frattali.

In una mia altra pubblicazione, sempre su questa

rivista, dimostrai che, partendo dalle immagini

bidimensionali delle mappe dell'universo neonato

inviate dal satellite Planck, le micro perturbazioni

termiche presenti ad un'epoca di circa 380000 anni

dopo il big bang, mostravano la stessa dimensione

frattale delle strutture cosmiche che si sarebbero

poi andate a formare nello spazio tridimensionale.

Spingendoci oltre, possiamo notare come queste

stesse strutture formate da ammassi e superammassi

di galassie mostrino un'impressionante somiglianza

con la conformazione delle cellule cerebrali di un

uomo (Fig.6), al punto da apparire quasi indistinguibili. 

Il cervello umano contiene oltre 10^11 neuroni,

stesso ordine di grandezza del numero di galassie

stimato nell'universo osservabile.

Molti di tali neuroni hanno migliaia di connessioni

con altri neuroni esattamente come avviene per le

galassie a livello cosmologico con una serie di filamenti 

di collegamento, tenendo comunque presente che un

ammasso galattico è circa 10^28volte più grande del 

soma (parte centrale) di un neurone.

Una sorta di principio olistico in cui sembra che, sia

a livello microscopico che a livello macroscopico,

ogni frammento dell'universo abbia in sé l'immagine

del "tutto", in buona sostanza come se tutto facesse

parte di un unico grande ologramma in cui tutto

compenetra tutto.

Sebbene la natura umana cerchi di categorizzare,

classificare e suddividere i vari fenomeni, ogni

suddivisione risulterebbe necessariamente artificiale e

tutta la natura non sarebbe altro che una immensa rete

ininterrotta di informazioni.

 
 
 

Altre novitą scientifiche....

Post n°2249 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Ecco come le maree possono innescare i

terremoti lungo le dorsali oceaniche.

A indurre il movimento della faglia "sarebbe

infatti la camera magmatica che respira, si

espande e contrae per via delle maree"

www.ansa.it

Dopo anni di ricerche e' arrivata la

conferma che i terremoti che avvengono

lungo le dorsali oceaniche sono collegati

alle maree.

A spiegare il meccanismo, rimasto un

mistero per decenni, i ricercatori della

Columbia University sulla rivista Nature

Communications.

A indurre il movimento della faglia "e'

infatti la camera magmatica che respira,

si espande e contrae per via delle maree",

spiega Christopher Scholz, coordinatore

dello studio insieme a Yen Joe Tan.

Da tempo si era capito che i terremoti lungo

queste montagne sottomarine che si trovano

sul ciglio delle placche tettoniche sono collegate

alle maree, ma nessuno era riuscito a capire

perche' i terremoti avvenissero nella fase di

bassa marea, visto che secondo le teorie

attuali questi terremoti avrebbero dovuto

verificarsi con l'alta marea.

Per risolvere il mistero, gli studiosi hanno

studiato l'Axial Seamount, il vulcano sottomarino

che si trova nella Dorsale di Juan de Fuca

nell'oceano Pacifico, che si risveglia ogni

dieci anni e sulla quale sono stati raccolti

molti dati.

E' stato possibile cosi' individuare una

componente che nessuno aveva considerato

prima: la camera magmatica del vulcano,

cioe' una tasca morbida e pressurizzata

sotto la superficie.

Quando la marea e' bassa, c'e' meno acqua

sulla cima della camera, che cosi' si espande.

Quando si gonfia, tira le rocce vicine, forzando

il blocco inferiore a scivolare sopra la faglia,

causando cosi' il terremoto.

Tenendo traccia dei terremoti e della pressione

sulla faglia, i ricercatori hanno capito che anche

la piu' minuscola tensione puo' innescare un

terremoto.

La forza che genera il fenomeno puo' essere

scatenata in molti modi, come le onde sismiche

di un altro terremoto

 
 
 

Le migrazioni che guidarono l'evoluzione dei cavalli

Post n°2248 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze
10 febbraio 2017

Le migrazioni che guidarono l'evoluzione dei cavalli

L'analisi dei fossili di oltre 7000 specie di

equini estinti e viventi mostra che gli eventi

di proliferazione di nuove specie sono stati

stimolati dalle migrazioni degli animali.

Cade così l'ipotesi che fosse la comparsa di

nuovi tratti a stimolare la colonizzazione

di nuovi spazi.

evoluzioneanimali

L'evoluzione dei cavalli è stata guidata in

primo luogo dalle loro migrazioni. 

A stabilirlo è uno studio condotto da ricercatori

del Museo di scienze naturali di Berlino e del

Museo di storia naturale di Madrid nel quale

Juan L. Cantalapiedra e colleghi che hanno

analizzato le caratteristiche fossili di 138 specie

equine rappresentative di un albero evolutivo

che copre circa 18 milioni di anni.

Lo studio è illustrato su "Science".

L'esistenza di uno stretto legame tra i tassi

di evoluzione e la diversificazione dei tratti

all'interno di una specie - diversificazione

che alla fine puo condurre alla comparsa di

una specie nuova - è un dato assodato.

Tuttavia, di fronte a fenomeni di forte

moltiplicazione delle specie non è sempre

chiaro se si sono evoluti prima i nuovi tratti

che hanno facilitato la dispersione in

nuovi ambienti, o se al contrario è stata

la dispersione in nuovi ambienti a guidare

lo sviluppo di nuovi tratti, e quindi la

speciazione.

Le migrazioni che guidarono l'evoluzione dei cavalli

Le tre specie di Hipparion nell'immagine,

che 8 milioni di anni fa convissero nella

penisola iberica, esemplificano l'elevata

diversità di dimensioni che ha caratterizzato

la storia evolutiva degli equini (Cortesia

Mauricio Antón)Cantalapiedra e colleghi

hanno cercato di valutare i tassi di specia-

zione (ossia di nascita di nuove specie) di

ognuno dei lignaggi in cui possono essere

suddivise le 7131 specie di equini prese in

esame (circa il 95 per cento delle quali

estinte).

I ricercatori si sono concentrati in particolare

sulle dimensioni del corpo e la dimensione

e complessità dei denti, un tratto particolar-

mente importante perché l'evoluzione di

denti più grandi, per esempio, può permettere

ai cavalli di nutrirsi con tipi di vegetazione

precedentemente preclusi.

L'analisi della documentazione fossile ha

mostrato che la spinta alla diversificazione

in questi due tratti ricorre più volte nel corso

dell'evoluzione degli equini, ma che queste

spinte non sono correlate a una rapida

evoluzione di nuove specie.

I dati raccolti indicano invece che nel corso

della storia evolutiva di questi animali la

moltiplicazione delle specie si è sistematica-

mente impennata poco dopo la loro disper-

sione geografica in nuove regioni dell'Eurasia

e dell'Africa, per poi raggiungere un plateau

e quindi rallentare.

 
 
 

I fossili raccontano l'inizio della catastrofe che cancellņ i dinosauri

Post n°2247 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

05 aprile 2019

I fossili raccontano l'inizio della catastrofe che cancellò i dinosauri

I fossili raccontano l'inizio della catastrofe che cancellò i dinosauri

Un deposito di fossili scoperto negli Stati Uniti, a

3000 chilometri dal punto in cui cadde l'asteroide

che 66 milioni di anni fa portò all'estinzione dei

dinosauri, ha permesso di ricostruire che cosa

accadde nei minuti immediatamente successivi

all'evento, quando le scosse sismiche dovute

all'impatto rovesciarono sulla terraferma le acque

del mare interno che occupava la parte centrale

del Nord America

paleontologiascienze della terra

Un eccezionale deposito fossilifero scoperto

negli Stati Uniti, nello stato del North Dakota, ha

permesso di ricostruire con una straordinaria

risoluzione temporale gli eventi catastrofici che

avvennero 66 milioni di anni fa nei minuti successivi

all'impatto con la Terra dell'asteroide che, caduto

in corrispondenza di Chicxulub, nel Messico

meridionale, portò alla fine dei dinosauri.

Situato a Tanis, nella Hell Creek Formation,

non lontano dalla cittadina di Bowman, il deposito

è un vero e proprio cimitero fossile di massa.

È stato scoperto nel 2013 da ricercatori diretti da

Robert A. DePalma, dell'Università del Kansas, e

Jan Smit, della Vrije Universiteit di Amsterdam,

che ora hanno pubblicato i risultati di una loro

analisi sui "Proceedings of the National Academy

of Sciences".

Alla ricerca ha collaborato anche Walter Alvarez,

che quarant'anni anni fa circa, insieme al padre

Luis Alvarez, premio Nobel per la fisica nel 1988,

ipotizzò per la prima volta che l'estinzione dei

dinosauri fosse stata causata da un asteroide.

I fossili raccontano l'inizio della catastrofe che cancellò i dinosauri

Raffigurazione dell'onda di tsunami generata nel mare

interno del Nord America dalle onde sismiche provocate

dall'impatto dell'asteroide, a 3000 chilometri di distanza

(Cortesia Robert DePalma)Alla luce della datazione e

dell'enorme quantità di fossili - prevalentemente pesci,

ma anche resti di un mosasauro (un rettile marino), di

un triceratopo, di piccoli mammiferi e di conifere - fin

dalla sua scoperta il deposito era stato collegato

all'evento di Chicxulub; ora il collegamento è stato

confermato dalla presenza di strati di roccia con

un elevato tenore di iridio, un elemento chimico

rarissimo sulla Terra, ma di cui invece sono ricchi

gli asteroidi.

Il fatto che nel giacimento fossile la fauna ittica fosse

fittamente accatastata, con una singolare compresenza

di pesci d'acqua dolce e di mare, tutti immersi in una

matrice di fango, ha subito fatto pensare che gli animali

fossero stati travolti da un'immensa onda di tsunami.

Un'attenta analisi della successione degli strati di roccia

e delle loro caratteristiche ha mostrato che quell'onda di

tsunami si era formata localmente, nel mare interno che

all'epoca occupava la parte centrale del Nord America;

l'onda dunque non era risalita fino a Tanis dal golfo del

Messico, circa 3000 chilometri più a sud, dove si era

verificato l'impatto dell'asteroide.

Il muro d'acqua che travolse il sito di Tanis, invece,

era stato generato da un'enorme onda sismica stazionaria

legata a una sorta di fenomeno di battimento delle onde

sismiche provenienti da Chicxulub in seguito al terremoto

di magnitudo 10-11.5 provocato dall'impatto del corpo

celeste.

Secondo i calcoli dei ricercatori, quelle onde sismiche

devono essere arrivate a Tanis nel giro di soli dieci minuti,

l'altezza dell'onda stazionaria deve essere stata compresa

fra i 10 e i 100 metri e quella del muro d'acqua abbattutosi

sulla terraferma, esponendo parte del fondale marino,

fra i due e i 10 metri.

I fossili raccontano l'inizio della catastrofe che cancellò i dinosauri

I pesci fossili accatastati uno sopra l'altro sono stati

gettati sulla terraferma dall'onda di tsunami, dove sono

rimasti intrappolati nel fango e nella sabbia dopo che

l'onda si è ritirata. (Cortesia Robert DePalma)Il fatto che

il fondale sia stato esposto è provato dalla presenza di

particolari cavità a imbuto provocate dalla ricaduta delle

tectiti - sferule di materiale vetroso proiettate in aria dalla

polverizzazione dell'asteroide - che non avrebbero lasciato

quei segni se il fondale fosse stato coperto dall'acqua.

Molte di queste sferule sono state ritrovate anche nelle

branchie di moltissimi pesci fossili, aspirate dagli animali

mentre venivano travolti dalla catastrofe. 

 
 
 

Una proteina contro la siccitą

Post n°2246 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

EVOLUZIONE  MICROBIOLOGIA  FISICA

TEORICA ARCHEOLOGIA  POLITICHE DELLA

RICERCA 11 giugno 2019

Comunicato stampa Piante: scoperta proteina

che genera resistenza alla siccitàFonte:

Università degli studi di Padova ©

victimewalker/iStock Si chiama cMCU ed è

in grado di regolare il flusso di ioni calcio

nell'organello deputato alla fotosintesi

PIANTE CLIMARiso e grano resistenti alla siccità?

Un futuro possibile grazie a un gruppo di

ricercatori dell'Università di Padova che ha

identificato una nuova proteina che ha un

ruolo fondamentale nella risposta delle

piante agli stimoli esterni.

Il cloroplasto è l'organello deputato alla

fotosintesi ed è fondamentale per la vita

delle piante.

L'importanza del cloroplasto risiede anche

nel suo ruolo emergente di sensore delle

condizioni ambientali avverse.

Come il mitocondrio, anche il cloroplasto

necessita di interloquire con il nucleo per

concertare quelle risposte, fisiologiche o

indotte, che permettono alle cellule e

all'organismo intero di crescere e riprodursi.

Questo processo si chiama "segnalazione

retrograda": l'organello segnala al nucleo

che è avvenuta una variazione nelle

condizioni esterne e così la cellula può

regolare i geni che permettono un'adeguata

risposta.

Come il cloroplasto riesca a comunicare con

il nucleo è ancora in gran parte ignoto.

Lo ione calcio (Ca2+) è noto per la sua funzione

di messaggero intracellulare, non solo negli

animali ma anche nelle piante.

I cloroplasti contengono un'alta concentrazione

di ione calcio, anche se per lo più in forma

complessata e non libera.

Si ritiene che i cloroplasti fungano da ac-

cumulatori dello ione calcio, che al momento

appropriato viene rilasciato nel citoplasma.

Tuttavia, le proteine canale responsabili di

tali spostamenti rimangono a tutt'oggi

sconosciute.

I ricercatori hanno identificato una nuova

proteina che appartiene alla famiglia MCU

(uniporto di calcio del mitocondrio) e

chiamata cMCU.

Questa proteina di membrana funge da

canale ionico che media il flusso di ioni

calcio nel cloroplasto in vivo.

Utilizzando tecniche di biochimica e biofisica,

i gruppi delle prof.sse Ildikò Szabò e Laura

Cendron (Dipartimento di Biologia dell'Università

di Padova) hanno caratterizzato le proprietà

strutturali e la localizzazione intracellulare di

questa proteina nella "pianta modello"

Arabidopsis thaliana (pianta autunnale comune-

mente detta "arabetta"). Utilizzando dei saggi

in vitro ed un modello batterico hanno dimostrato

la capacità di cMCU di veicolare il trasporto

dello ione calcio.

Lo studio A chloroplast-localized mitochondrial

calcium uniporter transduces osmotic stress in

Arabidopsis è stato pubblicato sulla prestigiosa

rivista «Nature Plants».

Quando le piante percepiscono una carenza

d'acqua nel terreno mettono in atto dei meccanismi

di difesa.

Tra questi la chiusura degli stomi (piccole aperture

sulla superficie delle foglie, che permettono gli

scambi gassosi con l'aria) per ridurre la perdita

d'acqua per traspirazione.

Utilizzando tecniche di biologia molecolare e

cellulare è stato possibile dimostrare che, in

assenza della proteina cMCU, le piante hanno

un difetto nella regolazione della chiusura

degli stomi.

Questa alterazione è visibile solo quando

i cloroplasti sono funzionali e quindi il mec-

canismo, studiato in dettaglio in collaborazione

con la prof.ssa Elide Formentin (Dip. Biologia),

è dipendente dai cloroplasti.

Una conseguenza della mancata espressione

del gene che codifica la proteina cMCU è

un'alterata apertura degli stomi che permette

una riduzione della perdita d'acqua durante la

siccità e che aiuta le piante a sopravvivere a

prolungati periodi di carenza idrica.

I risultati di questa ricerca aprono nuovi orizzonti

allo studio della resistenza delle piante alla

siccità.

In un prossimo futuro è ipotizzabile lo sfruttamento

del meccanismo qui scoperto per ottenere piante

di interesse agrario, come grano o riso, più

resistenti allo stress idrico.

«L'identificazione molecolare dell'uniporto del

calcio nei sistemi di mammiferi avvenuta sempre

nell'Ateneo patavino nel 2011 dal gruppo del Prof.

Rosario Rizzuto in collaborazione con noi, ha

permesso lo studio di questa proteina importante

anche in altri sistemi - dice la professoressa Ildikò

Szabò, docente di Biochimica e Coordinatore del

Corso di Dottorato in Bioscienze -.

Con sorpresa, uno dei sei membri di questa famiglia

presenti nelle piante, è stato localizzato nel

cloroplasto, dove svolge un ruolo importante nella

segnalazione fra l'organello e il nucleo. I risultati

ottenuti aprono moltissime domande di importanza

cruciale nella fisiologia vegetale e possibilmente

porteranno a implicazioni rilevanti per l'agricoltura».

«Questo studio contribuisce a chiarire il ruolo del

cloroplasto nella complessa rete di segnalazione

mediata dal calcio nella cellula vegetale, ambito

di cui mi occupo da molti anni - spiega Lorella

Navazio, docente di Botanica e Vice Prefetto del

Centro di Ateneo Orto Botanico -.

Partendo da una ricerca biologica di base, i

risultati ottenuti in questo lavoro aprono interes-

santi prospettive per potenziali risvolti applicativi,

mirati all'ottenimento di piante più resistenti agli

stress ambientali.

Emerge con sempre maggiore evidenza

l'importanza della ricerca sulle piante, in considera-

zione della loro estrema rilevanza per la vita

dell'uomo, per la sua nutrizione, salute, benes-

sere in senso lato».

«Lo studio di proteine trasportatrici, mirato a

determinarne attività e proprietà strutturali, è

di fondamentale importanza per comprendere

quali caratteristiche consentano loro di svolgere

la propria funzione e come siano finemente

regolate, per rispondere alle diverse condizioni

che la cellula sperimenta - dice Laura Cendron,

Ricercatrice di Biochimica -.

I meccanismi molecolari orchestrati da proteine

di questo tipo in risposta a stimoli esterni si

traducono in segnali di straordinaria efficacia e

complessità.

Il lavoro svolto dal nostro team di ricerca porta

un importante contributo nella comprensione

di come un organello fondamentale della

cellula vegetale quale il cloroplasto, sede

della fotosintesi, interloquisca con le altre

componenti cellulari ed adatti le proprie

attività grazie anche a proteine trasportatrici

quali cMCU.»

«Prima d'ora non era chiaro il ruolo del

calcio contenuto nei cloroplasti.

Si pensava fosse solo un luogo per accumularlo

- spiega Elide Formentin, Ricercatrice di Fisiologia

Vegetale -.  

Oggi sappiamo grazie alla nostra ricerca che

esso è necessario per la pianta quando si trova

in condizioni avverse che possono portare alla

disidratazione e alla morte.

Sarà interessante studiare lo stesso meccanismo

in piante di interesse agrario, come il riso o il

grano, per cercare soluzioni alla perdita di produt-

tività dovuta all'inasprimento delle condizioni

climatiche». 

 
 
 

Il rebus delle antichissime isole artificiali della Scozia

Post n°2245 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

La scoperta di vasellame databile al Neolitico nei

pressi dei caratteristici crannogobbliga gli archeologi

a ridatare molto prima di quanto si pensasse questi

particolari siti della Britannia preistorica

di Erin Blakemore

neolitico,scozia,mondo antico,popoli e culture,archeologia

Un sub mostra un vaso del Neolitico (Unstan ware, 3500

a.C. circa) scoperto nei pressi di un crannog, un'isola artificiale,

costruita nel loch scozzese di Arnish. Fotografia di C. Murray.

Quando si tratta di studiare la Britannia del Neolitico (4000-

2500 a.C.) c'è sempre da aspettarsi una dose di mistero archeologico.

Dato che gli agricoltori del Neolitico esistevano da ben prima che

la scrittura si affermasse nelle isole britanniche, le uniche

testimonianze delle loro vite sono rappresentate dagli oggetti che

ci hanno lasciato.

E se è vero che ci hanno lasciato monumenti la cui realizzazione

è stata impegnativa - come ad esempio Stonehenge o i cerchi di

pietre delle Orcadi - le loro pratiche culturali e il loro modo di

vivere questi luoghi rimangono in larga parte ignoti.

Ora pare che ci potrebbe essere un nuovo genere di monumenti

del Neolitico del tutto nuovi per gli archeologi e la cui

comprensione potrebbe essere un vero grattacapo: i crannog.

Isole artificiali comunemente conosciute con il nome di

crannog costellano centinaia di laghi scozzezi (loch) ed i

rlandesi (vedi foto in basso).

Sino ad ora i ricercatori ritenevano che fossero state

realizzate dai popoli dell'Età del Ferro (800-43 a.C.) per

ottenere strade rialzate e ricoveri nel centro degli

specchi d'acqua.

Ma un nuovo studio appena pubblicato su Antiquity 

suggerisceche, perlomeno alcuni di questi circa 600 crannog

scozzesi, siano molto, ma molto, più antichi, di circa 3 mila

anni, risalirebbero quindi al Neolitico.

E, cosa ancora più notevole, la scoperta, consentendoci di

retrodatare i crannog a un passato molto più lontano, ci

mostra un tipo di comportamenti che non sospettavamo

potesse risalire a questa fase preistorica.

La possibilità che i crannog potessero risalire al Neolitico

era stata già avanzata negli anni '80 quando gli archeologi

impegnati negli scavi di un'isolotto dell'Età del Ferro in un

loch della Scozia settentrionale si resero conto che il sito

risaliva in realtà al Neolitico. Successivamente altri scavi non

avevano però portato nessuna altra nuova prova a sostegno

di questa ipotesi.

Le cose hanno preso una piega diversa quando nel 2012 un

sub ha scoperto vasellame chiaramente risalente al Neolitico

attorno a dei crannog delle Ebridi Esterne.

I responsabili del locale museo e gli archeologi si sono uniti alle

ricerche arrivando ad individuare cinque isolotti realizzati

artificialmente risalenti al Neolitico, una certezza quest'ultima

acquisita grazie alle datazioni al radiocarbonio eseguite sul

vasellame e sul legname scoperto nei pressi delle rive delle

strutture artificiali.

Il riutilizzo di questi isolotti nel corso dei millenni ha reso difficile

l'individuazione di tracce di vita sui crannog nel periodo Neolitico.

L'acqua che le circonda racconta una storia diversa.

Per gli archeologi, soliti trovare solo frammenti di vasellame vecchio

di oltre seimila anni, lo stato di conservazione dei resti pressoché

intatti risalenti al Neolitico scoperti sott'acqua nei pressi dei

crannog è "stupefacente", dice Duncan Garrow, professore

associato di archeologia alla University of Reading e coautore

dello studio. "Non ho mai visto nulla di simile nell'

archeologia britannica", dice.

"Sembra quasi che questa roba sia stata gettata in acqua".

Ma perché le popolazioni del Neolitico avrebbero dovuto

buttare in acqua il loro "servizio buono"? Al riguardo è possibile

formulare solo delle ipotesi sul perché venissero realizzati i

crannog, su come venissero usati e su perché siano diventati

dei depositi di vasellame.


Una veduta aerea delle isole artificiali scozzesi dell'età della

pietra: 1) Arnish; 2) Bhorgastail; 3) Eilean Domhnuill; 4)

Lochan Duna; 5) Loch an Dunain; 6) Langabhat. Fotografia

di Getmapping Plc

Garrow e colleghi suppongono che fossero usate per delle

feste o per dei riti religiosi e sociali, o per entrambe le cose.

Vicki Cummings, una esperta di monumenti del Neolitico

della University of Central Lancashire che non ha preso parte

allo studio, sostiene che i crannog sembrano essere qualcosa di

estraneo dalla vita quotidiana del Neolitico (sono collocate

lontano dagli insediamenti abitativi) e dai suoi riti funebri (

mancano sia tombe che resti umani),

Le popolazioni britanniche del Neolitico amavano le costruzioni

costruite con grandi massi, ma i crannog erano diversi da tutti gli

altri insediamenti o monumenti.

"Che senso ha impiegare un sacco di tempo per sistemare delle

pietre dentro a un loch?", si chiede Cummings, sottolineando che

alcuni dei massi usati per costruire i crannog pesavano circa 250 chili.

Cummings suggerisce che l'isolamento di questi siti e il vasellame

che li circonda potrebbe indicare la pratica di rituali che segnavano

le fasi di passaggio della vita, come ad esempio dall'infanzia alla

maturità.

Quanti altri di questi "nuovi" monumenti del Neolitico restano

ancora da scoprire? Solo circa un 20% dei crannog scozzesi è stato

datato in maniera scientifica.

Cole Henley, un ex archeologo specializzato nei monumenti del

Neolitico, avverte che è prematuro dare per scontato che ne

esistano altri simili, magari in Irlanda. "Fare estrapolazioni è

rischioso", dice.

Vedute aeree dei crannogs in Loch Bhorgastail (in alto) e

Loch Langabhat (in basso). Fotografia di F. Sturt

Il coautore dello studio Garrow ammette che la ricerca è solo

all'inizio e il suo gruppo pensa di portare avanti indagini più

vaste, così da poter datare ulteriori crannog delle Ebridi Esterne.

Visti i costi di questi accertamenti scientifici e subacquei è

improbabile però che si riesca a esaminare la grande quantità

di crannog esistenti in tempi rapidi.

"Questa nuova ricerca ci dice comunque che dobbiamo

riconsiderare ciò che ritenevamo di sapere sino ad oggi".

Non sarà facile.

"Dobbiamo avere l'apertura mentale necessaria quando andiamo

in cerca di siti risalenti a questa epoca", aggiunge Cummings.

"Potrebbero trovarsi nei luoghi più bizzarri".

Nuovi siti neolitici potrebbero essere sepolti sotto quelli che gli

archeologi hanno sempre pensato fossero crannog dell'Età del

Ferro o medievali, oppure essere in bella vista nel bel mezzo di

un loch scozzese spazzato dal vento.

(13 giugno 2019)

 
 
 

Come nasce una Zona Morta

Post n°2244 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Un'enorme "Zona Morta" sta per formarsi

nel Golfo del Messico: provocherà una strage

di animali

A causa dei fertilizzanti e di altri inquinanti ricchi

di fosforo e nitrati trasportati dal Mississippi, nel

cuore del Golfo del Messico questa estate si

formerà una Zona Morta grande come la Toscana.

Si tratta di un'area priva del tutto o quasi di os-

sigeno, nella quale moriranno tutti gli animali

che non riusciranno a fuggire.

di Andrea Centini

scienze.fanpage.it

Nel cuore del Golfo del Messico questa estate

si formerà una delle peggiori "Zone Morte"

mai documentate, con un'estensione stimata

di circa 20mila chilometri quadrati, più o meno

quanto la Toscana o l'Emilia Romagna.

La Zona Morta - o zona ipossica - è un'area

che, a causa dell'inquinamento prodotto dall'uomo,

perde del tutto o quasi l'ossigeno al suo interno,

condannando a morte tutti gli animali che vi si

trovano e che non riescono a fuggire altrove.

Estate drammatica.

A stimare le colossali dimensioni della Zona

Morta del 2019, un fenomeno ciclico che si

presenta ogni estate e che varia in dimensioni

in base a diversi fattori, è stata l'Amministrazione

nazionale oceanica ed atmosferica (NOAA),

l'agenzia federale statunitense che si occupa

di oceanografia e fenomeni meteorologici e

climatici.

Come indicato, si tratta di una stima, e il dato

finale potrebbe essere ben peggiore.

L'estensione media degli ultimi anni è stata di

circa 15mila chilometri quadrati, ma nel 2017

è stato registrato il record negativo di 23mila

chilometri; quella di quest'anno, se le stime

saranno confermate, sarà la seconda peggiore

in assoluto.

http://www.greenreport.it/wp-content/uploads/2017/08/Zona-morta-Golfo-del-Messico-1024x576.jpg

 

Le Zone Morte si formano a causa del riversa-

mento di sostanze inquinanti nel mare trasportate

dai fiumi, principalmente nitrati e fosforo.

Questi nutrienti sono legati soprattutto alle acque

reflue ricchissime di fertilizzanti delle aziende

agricole e degli allevamenti, ma anche di quelle

cittadine, che vengono tutte trascinate fino al mare.

La Zona Morta del Golfo del Messico è innescata

dal Mississippi, un fiume inquinatissimo poiché

circondato da un numero enorme di attività ad

elevato impatto ambientale.

Nel solo mese di maggio si stima che nel Golfo

del Messico il fiume abbia riversato 156mila ton-

nellate di nitrato e 25.300 tonnellate di fosforo,

un quantità superiore alla media rispettivamente

del 18 percento e del 49 percento.

Ciò è dovuto alle abbondanti e costanti piogge

che si sono abbattute sul Midwest americano nelle

ultime settimane, che hanno letteralmente saturato

il Mississippi di inquinanti.

Proprio per queste circostanze le dimensioni della

Zona Morta del 2019 potrebbero essere sottistimate.

Come nasce una Zona Morta? Le sostanze inquinanti

quando giungono al mare determinano una vera e

propria esplosione di alghe, che quando muoiono

producono una gigantesca massa putrescente sul

fondale marino.

Il processo di decomposizione delle alghe strappa

l'ossigeno dall'acqua e trasforma l'ambiente circostante

nel deserto di un pianeta alieno.

Tutti i pesci, i crostacei, le stelle marine e gli altri

invertebrati che non riescono a sfuggire finiscono

per morire soffocati, alimentando questo turbine

di morte e desolazione.

Tutto ciò provoca anche immensi danni economici

al settore della pesca, facendo schizzare alle stelle

il prezzo di prodotti come i gamberetti.

L'obiettivo delle autorità americane è quello di

ridurre a 5mila chilometri quadrati l'estensione

della Zona Morta nel 2035, ma il traguardo, con

queste premesse, sembra ancora lontanissimo.

 
 
 

Le tante occupazioni della grotta di Denisova

Post n°2243 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

31 gennaio 2019

Le tante occupazioni della grotta di Denisova

Le tante occupazioni della grotta di Denisova

Denisoviani e Neanderthal hanno occupato

a più riprese la grotta che si trova nel sud

della Siberia e che ha dato il nome alla

specie umana denisoviana, ormai estinta,

strettamente imparentata proprio con i

neanderthaliani.

Lo hanno stabilito due studi che hanno

datato l'enorme mole di resti fossili disponibili

scoperti a Denisova.

antropologiaNeanderthalarcheologia

paleontologia

La grotta di Denisova, in una valle delle

montagne di Altai, nella Siberia del sud,

è un sito fondamentale per capire la

presenza delle varie specie di Homo in

Asia.

Ora su "Nature", due articoli hanno

ricostruito, grazie a nuove indagini

strumentali, l'alternarsi delle diverse

specie umane nell'occupazione della

grotta nel corso dei millenni.

La decifrazione dei segni umani lasciati

a Denisova è quanto mai complessa,

poiché riguarda un arco temporale

estremamente ampio, che copre sia il

Paleolitico medio, tra 340.000 e 45.000

anni fa, sia la parte iniziale del Paleolitico

superiore, tra 45.000 e 40.000 anni fa.

Le tante occupazioni della grotta di Denisova

Alcuni manufatti trovati nella grotta di

Denisova e analizzati nello studio: si

distinguono ossa appuntite e denti perforati.

(Credit: Katerina Douka)La scoperta di manufatti

ornamentali antichi, come pendagli fatti di ossa,

e altri oggetti di avorio di mammut erano stati

attribuiti inizialmente a H. sapiens.

Ma la svolta nelle ricerche archeologiche è

venuta nel 2010, quando l'analisi del DNA di

reperti ossei del Paleolitico medio hanno

identificato un ominide appartenente a un

ramo filogenetico diverso da quello di H. sapiens,

probabilmente vicino ai Neanderthal dal punto

di vista evolutivo e chiamato Uomo di Denisova.

Le stesse analisi del materiale genetico antico

hanno dimostrato la presenza di Denisova e

di Nenderthal durante il Paleolitico medio,

mentre non sono stati riscontrati segni

della presenza di H. sapiens.

Nel primo studio, Zenobia Jacobs e Richard

Roberts, dell'Università di Wollongong, in Australia,

e colleghi presentano ora i risultati della datazione

di 103 depositi di sedimenti che vanno da 300.000

a 20.000 anni fa, insieme con i resti di 27 specie

di grandi vertebrati, 100 specie di piccoli vertebrati,

soprattutto mammiferi e pesci, e 72 specie di piante.

L'analisi di questi reperti è stata effettuata con

una tecnica che misura l'ultima volta che alcuni

minerali sono stati esposti alla luce solare.

Ciò ha permesso di ricostruire l'ambiente

intorno alla grotta di Denisova, che è variato

notevolmente nel corso del tempo, passando

dall'essere prevalentemente una foresta di latifoglie,

nelle epoche più calde, a tundra e steppa, nelle

epoche più fredde.

Infine, gli autori sono arrivati a stime di quando

i Denisoviani (o Denisova) occuparono la grotta:

si tratta di un periodo compreso tra 287.000 e

55.000 anni fa, mentre per i Neanderthal varia

tra 193.000 e 97.000 anni fa.

Nel secondo studio, Katerina Douka, del Max-

Planck-Institut per la scienza della storia umana

a Jena, in Germania, e colleghi si sono concentrati

sui reperti trovati negli strati risalenti al Paeolitico

medio e superiore.

I loro risultati riguardano, in particolare, 50 nuove

datazioni con la tecnica del radiocarbonio, l'analisi

con la tecnica di zooarcheologia per spettrometria

di massa di più di 2000 fossili, che ha permesso

d'individuare tre nuovi frammenti ossei appartenuti

a Denisova, e infine l'analisi di tutti i frammenti

fossili di Denisova disponibili finora.

Gli autori hanno concluso che quest'ultima specie

era presente nella grotta già 195.000 anni fa,

mentre i resti più recenti sono datati a un periodo

compreso tra 76.000 e 52.000 anni fa.

Tutti i fossili relativi ai Neanderthal, invece, sono

datati a 140.000-80.000 anni fa, cioè un'epoca

intermedia tra le prime e le ultime testimonianze

di Denisoviani.

Per quanto riguarda manufatti, ovvero ciondoli

fabbricati con denti e punte di freccia fatte di ossa,

risalgono a 49.000-43.000 anni fa: si tratta quindi

dei più antichi manufatti scoperti in Eurasia nel nord.

Secondo quanto scrivono gli autori "sulla base delle

attuali prove archeologiche, si può ipotizzare che

questi manufatti siano associati alla popolazione

Denisova, mentre non si può determinare se

esseri umani anatomicamente moderni fossero

coinvolti nella loro produzione, poiché non sono

mai stati trovati finora fossili di esseri umani moderni

né prove genetiche, così antichi nella regione di Altai".

 
 
 

Homo di Denisova: completato il sequenziamento del DNA

Post n°2242 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

31 agosto 2012

Homo di Denisova: completato il sequenziamento del DNA

Homo di Denisova: completato il sequenziamento del DNA

Ricercatori del Max-Planck-Institut durante l'analisi dei

campioni (Cortesia Max-Planck-Institut per la Biologia

evoluzionistica a Leipzig)

Grazie a un nuovo metodo per trattare gli scarsi campioni

disponibili, è stato sequenziato il genoma dell'uomo di

Denisova, la specie arcaica scoperta pochi anni fa in Siberia.

L'analisi ha confermato che una piccola percentuale dei suoi

geni è in comune con gli umani moderni, ma secondo i

ricercatori l'incrocio non avvenne direttamente bensì

attraverso i neanderthaliani(red)

antropologiageneticaevoluzione

Un frammento di osso di un dito e due molari sono tutto

ciò che resta degli uomini di Denisova, una specie arcaica

strettamente imparentata con i neandertaliani e con gli

umani moderni.

Venuti alla luce nel 2008 nella caverna di Denisova, nelle

montagne di Altai, in Siberia, i reperti sono  stati analizzati

approfonditamente da Svante Pääbo e colleghi del Max-

Planck-Institut per l'Antropologia evoluzionistica a Lipsia

che ne hanno sequenziato interamente il genoma.

Secondo quanto riferito sull'ultimo numero della rivista "

Science", l'esiguità del campione disponibile ha portato i

ricercatori a sviluppare un nuovo metodo per separare le

due eliche della molecola di DNA in modo da poter

utilizzare ciascuna di esse per il sequenziamento, ottenendo

materiale di qualità simile a quella di campioni attuali.

"Si tratta di una sequenza genica di un'accuratezza mai

raggiunta finora per una specie estinta", ha spiegato

Matthias Meyer, che ha partecipato allo studio.

"Per la maggior parte del genoma, è possibile determinare

le differenze tra i cromosomi ereditati dal padre e quelli

ereditati dalla madre".

Homo di Denisova: completato il sequenziamento del DNA

Ciò che resta dell'osso di falange dell'Homo di Denisova

(Cortesia Max-Planck-Institut per la Biologia evoluzionistica

a Leipzig)Gli studi condotti finora hanno portato a ipotizzare

che i resti appartengano a un giovane individuo di sesso

femminile vissuto circa 41.000 anni fa, in una regione dove,

secondo le attuali conoscenze, nello stesso periodo abitavano

sia neanderthaliani sia esseri umani moderni.

Proprio la parentela tra le tre specie è uno dei motivi di interesse

e di dibattito: come già messo in luce dalle analisi condotte in

passato dallo stesso Pääbo sul DNA mitocondriale,  con tutta

probabilità denisovani, neanderthaliani ed esseri umani

moderni avevano un antenato comune.

Grazie alle analisi, si è arrivati a a concludere che i denisoviani 

avevano una variabilità genetica assai limitata, un fatto, questo,

spiegabile ipotizzando che la loro popolazione sia stata

inizialmente poco numerosa e che sia cresciuta via via che si

diffondevano in vaste regioni dell'Asia.

"Se le future ricerche sul genoma di Neanderthal dovessero

mostrare variazioni di popolazione simili a quelle dei denisoviani,

potrebbe essere un indizio del fatto che è stata uni'unica

popolazione originaria dell'Africa a dare origine alle due specie",

ha sottolineato Pääbo.

Homo di Denisova: completato il sequenziamento del DNA

Molare distale dell'Homo di Denisova: è il secondo reperto

oltre all'osso di falange (Cortesia Max-Planck-Institut per la

Biologia evoluzionistica a Leipzig)Il sequenziamento del

genoma ha ora ulteriormente confermato la vicinanza genetica

con Homo sapiens: i Denisovani sembrano condividere

molti più geni con individui della Papua Nuova Guinea

che con qualunque altra popolazione studiata.

Inoltre sono stati trovati più alleli di Denisova in Asia e

Sud America che nelle popolazioni europee: secondo i

ricercatori, questo probabilmente indica che l'incrocio è

avvenuto tra gli esseri umani moderni e i neanderthaliani,

parenti stretti dei Denisovani, invece di un incrocio diretto

con gli stessi Denisovani. 

Tra gli altri dati ricavati dal sequenziamento, l'analisi di alcuni

alleli consentono infine di trarre alcune conclusioni sui tratti

fenotipici dell'Homo di Denisova: con tutta probabilità, la

donna aveva la pelle scura, e occhi e capelli castani.

Ma l'aspetto che più intriga Pääbo è il "catalogo" quasi

completo delle differenze genetiche tra le diverse specie:

negli ultimi 100.000 anni, negli esseri umani moderni sono

cambiati più di 100.000 singoli nucleotidi, parte dei quali

sono implicati nella definizione dell'architettura e del

funzionamento del sistema nervoso: l'ipotesi degli studiosi

è che con l'emergere di Homo sapiens potrebbero essere

cambiati aspetti cruciali della trasmissione sinaptica.

 
 
 

Stonehenge: la provenienza dei megaliti

Post n°2241 pubblicato il 22 Giugno 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze
Stonehenge, confermata la scoperta

delle cave da cui provengono i

megaliti

Dopo le anticipazioni del 2015, il team di archeologi

britannici ha pubblicato ora lo studio in cui si dimostra

che i grandi blocchi di pietra del sito inglese provengono

da cave del Galles distanti 290 chilometri

di Nick Romeo

gran bretagna,neolitico,geologia,archeologia,popoli e culture

Fotografia di Sofia.D/Your Shot National Geographic

Vedi anche

Le scoperte fatte da un gruppo di archeologi britannici,

rese note in questi giorni attraverso la pubblicazione

sulla rivista Antiquity, gettano nuova luce su come

alcuni dei monoliti di Stonehenge furono estratti e

trasportati nel famoso complesso megalitico.


In un annuncio fatto lunedì scorso, il team (confermando 

quanto aveva anticipato in base ai primi risultati acquisiti

già nel 2015) ha spiegato di aver trovato prove in abbondanza

della presenza di due cave del periodo Neolitico nel Galles

da cui provenivano lebluestones, come vengono chiamate

le rocce di origine 'non locale' del monumento eretto a

Stonehenge circa 5000 anni fa.
Delle circa 80 stimate, sopravvivono ancora 43 bluestones

disposte a formare un ferro di cavallo attorno al quale

correva un cerchio di blocchi di arenaria molto più grandi.

Studiando e datando i reperti delle cave gli archeologi hanno

determinato quando e come le popolazioni preistoriche

estrassero per la prima volta queste bluestones.

Le cave gallesi si trovano sulle Preseli Hills, nel 

Pembrokeshiresettentrionale, a circa 290 chilometri

via terra da Stonehenge. Le bluestones pesano 1-2 ton-

nellate e sono alte fino a 2,4 metri.
Le rocce di queste cave sono di origine ignea e vulcanica

con precise caratteristiche geologiche che corrispondono

a quelle del semicerchio interno di Stonehenge.

I geologi hanno dimostrato che questa regione del Galles

è l'unica nelle isole britanniche che contiene il particolare

tipo di roccia, la diabase, di cui sono costituite le bluestones.

Gli archeologi hanno riportato alla luce strumenti litici,

rampe e piattaforme di terra, legno e carbone bruciato, e

un'antica strada interrata che costituiva probabilmente

l'uscita dalla cava.
"Sapevamo quali fossero le aree di origine delle rocce,

ma è stato davvero entusiasmante scoprire le cave vere

e proprie" da cui furono estratti i monoliti, spiegò a suo

tempo Mike Parker Pearson della University College London,

direttore del progetto.

"Qui vennero costruite vaste infrastrutture, come appunto piat-

taforme, rampe, zone di carico.

È ancora possibile vedere i punti in cui vennero inseriti i cunei

di legno nelle fessure dell'affioramento".

Le datazioni al radiocarbonio eseguite sulla carbonella e sulle

castagne bruciate trovate sul sito inquadrano l'attività neolitica

nella cava fra i 5.400 e i 5.200 anni fa.

I ricercatori ritengono che Stonehenge non sia stata costruita

prima del 2.900 a.C.

Ciò solleva un interrogativo: cosa è successo ai monoliti

durante quei 3-5 secoli trascorsi dall'estrazione?

"È una questione affascinante", spiegò Parker Pearson ai

tempi delle prime scoperte del 2015.

"È piuttosto improbabile che siano serviti cinque secoli

per trascinare le rocce dalle cave fino a Stonehenge; è più

credibile invece che le bluestones siano state prima utilizzate

per un monumento nella zona, e poi 'smontate' e trascinate

nel Wiltshire".

Spostare monoliti di due tonnellate

Estrarre i monoliti dalla cava era relativamente facile per

quegli operai preistorici.

"Bastava infatti inserire cunei di legno nelle fessure

dell'affioramento e lasciare che le piogge li gonfiassero,

spaccando la roccia e creando delle colonne naturali che

venivano calate su piattaforme di terra.

Da lì i monoliti venivano poi trascinati fuori dalla cava",

spiega Josh Pollard della University of Southampton.

Alla fine, un'ottantina di bluestones furono trasportate a

Stonehenge.

Spostare monoliti di due tonnellate per quasi 300 chilometri

fu certamente un'impresa straordinaria, ma altri casi avvenuti

in India dimostrano che pietre di quelle dimensioni possono

essere spostate su graticci di legno da gruppi non superiori

alle 60 persone.

Rimuovere le pietre dalla cava richiedeva un misto di forza e

ingegnosità. La stretta via d'uscita - larga solo circa 180

centimetri - non consentiva l'uso di tronchi su cui far

rotolare le pietre.

Gli archeologi ritengono che gli operai neolitici usasssero

una combinazione di funi, leve e di fulcri per posizionare

i monoliti su una serie di slitte di legno su sui venivano

poi fatti scivolare.

Nonostante la dieta degli operai fosse con ogni probabilità

costituita da carne, il suolo estremamente acido del sito non

ha consentito la conservazione di ossa o palchi.

Gli archeologi però hanno trovato resti di castagne arrostite,

uno 'spuntino' tipico del Neolitico. Secondo Parker Pearson,

nella cava lavorava un gruppo costituito da almeno 25 persone,

che probabilmente arrivavano ogni giorno nel sito estrattivo

da vari insediamenti nei dintorni. 

Le ricerche di Parker Pearson e del suo gruppo sono finanziate

da un fondo di ricerca National Geographic Science and Exploration

 
 
 

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