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Messaggi del 08/07/2019

La Grande Muraglia Cinese.

Post n°2284 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

« LA GRANDE MURAGLIADalla Cina »
DALLA CINA

La Muraglia cinese e la storia di un'impresa epocale

Tra i più vasti progetti mai realizzati, la Muraglia cinese conserva con sé tutto il fascino di una storia sopravvissuta ai secoli. Ecco tutto quello che c'è da sapere

Forse il simbolo più riconoscibile della Cina e della sua storia lunga e vivace, la Grande Muraglia cinese in realtà è costituita da numerose mura e fortificazioni, molti in esecuzione parallela tra loro. Originariamente concepita dall'imperatore Qin Shi Huang (c. 259-210 aC), nel terzo secolo a.C. come un mezzo per prevenire incursioni da parte di nomadi barbari nell'Impero cinese.

Il muro è uno dei più vasti progetti di costruzione mai completati. La sezione più nota e meglio conservata della Grande Muraglia è stata costruita durante la dinastia Ming (1368-1644). Anche se la Muraglia cinese non ha impedito efficacemente agli invasori di entrare in Cina, ha funzionato più come una barriera psicologica tra la civiltà cinese e il mondo, e rimane un potente e duraturo simbolo di forza.

 

La lunghezza

Molte persone sono curiose di sapere la lunghezza complessiva della Grande Muraglia cinese. La lunghezza totale della Grande Muraglia cinese è di 21,196.18 chilometri, annunciata ufficialmente all'Administration of Cultural Relics della Cina nel 2012.

Prima di questo sondaggio archeologico, a questa domanda era difficile rispondere, poiché molte dinastie hanno partecipato allacostruzione del muro e molte sezioni si trovano in remote montagnepraterie o deserti che per tempo hanno reso la misurazione complessiva un grosso problema.

L'altezza

La Grande Muraglia cinese varia in altezza da pochi piedi a oltre 30 piedi (cioè più di 9 metri). Dal momento che alcune parti del muro sono costruite sulle cime e le alte creste delle montagne, la Muraglia sembra ancora più alta.

Pechino e la Grande muraglia

Pechino non è solo il centro politico della Cina, ma anche la città più strategica del nord del paese. Molte dinastie della storia cinese contribuirono a costruire attivamente la Muraglia cinese qui. In totale, lasezione di Pechino misura circa 600 chilometri.

Le sezioni costruite durante la dinastia Ming (1368-1644) ammontano a circa 550 chilometri, e le sezioni delle altre dinastie aggiunsero altri 40 chilometri. Essi sono distribuiti nel distretto Pinggu, nella contea di Miyun, nel distretto di Huairou, Yanqing County, nel distretto diChangping e in quello di Mentougou.

Uscendo dalle semi-rovine di una sezione della Grande Muraglia cinese, vi sembrerà di camminare sulle orme del passato. Lontano dallefolle di turisti, è possibile percepire un grande senso della altezza e della maestosità di questo straordinario pezzo di ingegneria, costruito nel corso di secoli.

Alcune delle attrazioni principali di questo itinerario sono nei posti più piccoli attraverso i quali si cammina, luoghi che la maggioranza degli altri turisti non vedono. Esistono itinerari di trekking lungo varie sezioni contrastanti del muro, che consentono al visitatore di avvicinarsi giorno per giorno alla vita della Cina rurale, prima di tornare aPechino, una città ricca di storia che si sta tuffando a capofitto nella modernità.

L'esercito di terracotta

L'esercito di terracotta (Guerrieri e cavalli di terracotta) sono i piùsignificativi scavi archeologici del 20° secolo. Il lavoro è ancora in corso in questo sito, che è a circa 1,5 chilometri in direzione est rispetto al Mausoleo dell'Imperatore Qin Shi Huang in Lintong, Xi'an, Shaanxi. Si tratta di uno spettacolo da non perdere per qualsiasi visitatore in Cina.

Salendo al trono all'età di 13 anni (nel 246 a.C.), Qin Shi Huang, imperatore di tutta la Cina, iniziò a lavorare per il suo mausoleo. Ci sono voluti 11 anni per terminare. Si dice che molti tesori sepolti e oggetti sacrificali avessero accompagnato l'imperatore nella sua vita ultraterrena.

Un gruppo di contadini ha scoperto alcune ceramiche scavando un pozzo nei pressi della sua tomba nel 1974. Ciò catturò immediatamente l'attenzione degli archeologi di tutto il mondo, che sono arrivati a Xian in massa per studiare ed estendere gli scavi. I loro studi stabilirono senza ombra di dubbio che questi manufatti erano stati associati alladinastia Qin (211-206 a.C.).

 
 
 

Le città del Neolitico.

Post n°2283 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

19 giugno 2019

L'alba delle città nel Neolitico

Migliaia di anni fa l'avvento dell'agricoltura

e della domesticazione di animali ha portato

non solo insediamenti stabili e sviluppo culturale,

ma anche maggior incidenza delle malattie

infettive e una primitiva forma di stress, che

poteva sfociare in conflitti violentiScorte di cibo

più sicure e insediamenti stabili.

Una vita a stretto contatto con gli altri membri

di una comunità numerosa, che garantiva

maggiori relazioni sociali e sviluppo culturale.

Ma anche maggiore esposizione alle malattie

infettive e a una primitiva forma di stress psico-

sociale, che poteva sfociare in conflitti anche

violenti.

Sono questi alcuni tratti delle società del

Neolitico sorte dopo il passaggio dalla sussistenza

basata sulla caccia e sulla raccolta a quella basata

sull'agricoltura e sull'allevamento.

Uno studio pubblicato sui "Proceedings of the

National Academy of Sciences" da Clark Spencer

Larsen, dell'Ohio State University a Columbus e

colleghi, aggiunge informazioni importanti per

comprendere questa svolta fondamentale della

storia umana, grazie a nuove analisi dei resti

rinvenuti nel sito neolitico di Çatalhöyük, in Anatolia,

Turchia.

Spencer Larsen e colleghi hanno analizzato 742

resti umani risalenti a un periodo tra il 7100 e il

5950 a.C., quindi successivo all'avvento dell'agricoltura

e della domesticazione degli animali.

I dati raccolti mostrano un notevole aumento dei

tassi di fecondità e di natalità rispetto ai secoli

passati, con una crescita della popolazione che poteva

arrivare a 3500-8000 individui.

La comunità assume sempre più i tratti di una

società complessa, caratterizzata dallo sviluppo

della cultura materiale, come testimoniano dipinti

murari e statuette di esseri umani e animali emersi

dagli scavi; e come suggeriscono anche gruppi di

abitazioni molto vicine tra loro, con sepolture sotto

i pavimenti delle case e resti di scheletri umani molto

ben preservati.

Queste modalità di sepoltura sono le stesse in tutto

il sito, e fanno pensare a un forte senso di comunità.

La straordinaria abbondanza di resti di vegetali e

animali getta una luce sulle coltivazioni e sulle

specie che erano la base alimentare degli abitanti

di Çatalhöyük. Le varietà agricole più consumate

sono farro dicocco (Triticum dicoccum) e piccolo

farro (Triticum monococcum), frumento, orzo, segale,

piselli, lenticchie e altre specie vegetali non

domesticate contenenti amido.

Gli allevamenti sono principalmente di ovini e caprini,

mentre le fonti di proteine animali non domesticate

sono lepri, cervi, pesce e crostacei.

Tutti questi sono elementi indicativi di miglioramenti

dell'alimentazione e delle condizioni di vita.

Ma il modello di vita proto-urbano di questi millenni è

anche fonte di problemi di salute.

Il maggior consumo di carboidrati determina un incremento

delle carie dentali, mentre l'elevata densità abitativa

contribuisce, insieme alla prossimità con gli animali

domestici, a una maggior incidenza delle malattie

infettive.

L'affollamento degli insediamenti stabili, infine, è

fonte di una maggiore competizione tra i membri

della comunità e di una forma primitiva di stress

psico-sociale: aumentano le occasioni di conflitti e

di violenza, come indicato dalla diffusione delle lesioni

craniche. (red)

 
 
 

Tre millenni di tecnologia tra i cebi brasiliani

Post n°2282 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

25 giugno 2019

Tre millenni di tecnologia tra i cebi brasiliani

Esemplare di Sapajus libidinosus 

L'analisi di un giacimento archeologico di

strumenti in pietra usati da animali non

umani ha dimostrato che i cebi usano pietre

per aprire gli anacardi almeno da 3000 anni

e che nel corso del tempo hanno cambiato

diverse volte peso e dimensioni dei percussori.

Scimpanzé, cebi e lontre sono tutti animali

che usano le pietre come strumenti per

aprire noci e conchiglie.

Un nuovo studio pubblicato su "Nature

Ecology & Evolution" da Tomos Proffitt dello

University College di Londra e colleghi dimostra

ora che i cebi striati, o cappuccini barbuti

(Sapajus libidinosus), usano questi strumenti

da almeno 3000 anni e che nel corso di questo

lungo arco temporale hanno cambiato più volte

la loro tecnologia.

Il risultato è importante per comprendere come

si è strutturato nel corso dell'evoluzione dei primati

l'uso di utensili di pietra, considerato uno dei passi

fondamentali dell'evoluzione umana, perché indicativo

di destrezza manuale e di capacità di elaborare

strategie complesse di adattamento all'ambiente.

Per questo, l'industria litica - cioè l'attività di scheg-

giatura delle pietre da usare a vari scopi, dalla

caccia alla macellazione delle carni - è ritenuta

caratteristica degli esseri umani.

Una rudimentale forma di uso di strumenti di

pietra come percussori, reperiti in modo fortuito

nell'ambiente, è però presente anche in diverse

specie di scimmie, e cioè scimpanzé, macachi e

cebi: è un segno che si tratta di un'attitudine

emersa tra i nostri antichi antenati, ancora

prima dell'avvento del genere Homo.

Per approfondire la questione, sono utili gli studi

dei resti archeologici non solo di ominidi, ma anche

dei primati.

Risultati interessanti erano stati ottenuti con uno

scavo condotto in Costa d'Avorio, da cui sono

emerse le prove dell'uso percussivo delle pietre

tra gli scimpanzé già 4300 anni fa.

Gli altri animali che usano strumenti

di Michael HaslamDi recente, si è però scoperto

il primo giacimento archeologico di strumenti in

pietra di animali non umani a parte gli scimpanzé:

è nel Parco Nazionale di Serra di Capirava, in Brasile,

dove i cebi striati usano le pietre per aprire gli anacardi.

Le analisi di Proffitt e colleghi, condotte anche

con la tecnica di datazione al radiocarbonio, mostrano

ora che le scimmie usano questa tecnica da 3000

anni, o 450 generazioni, con alcune varianti che si

sono succedute nel corso del tempo.

In una prima fase, a partire da circa 3000 anni fa,

hanno usato strumenti di pietra più piccoli e più leggeri.

Tra 2400 e 300 anni fa, sono passati a utensili più

grandi e pesanti; infine, sono tornati a strumenti

più piccoli, utilizzati fino a oggi.

Si tratta della prima documentazione archeologica

dell'evoluzione su un lungo periodo di una tecnologia

non umana, e può essere spiegata in vari modi.

La prima ipotesi è che nel corso del tempo diversi

gruppi di cebi abbiano usato differenti utensili in

pietra.

Ma è anche possibile che prima che gli anacardi

fossero facilmente raggiungibili, gli strumenti più

grossi e massicci servissero a trasformare altri tipi

di cibi. (red)

 
 
 

Le tante famiglie dei Denisova

Post n°2281 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze.

15 aprile 2019

Le tante famiglie dei Denisova

Le tante famiglie dei Denisova (Science Photo Library/AGF)

Il DNA delle popolazioni attuali di isole del Sudest

asiatico e di Papua Nuova Guinea porta le tracce di

diversi rami filogenetici dell'uomo di Denisova, la misteriosa

specie umana i cui primi resti fossili sono stati scoperti

anni fa nella grotta dei Monti Altai, in Siberia.

Le simulazioni, inoltre, indicano che uno dei rami denisoviani

si sarebbe estinto 30.000 anni fa e si tratterebbe quindi degli

ominidi arcaici sopravvissuti più a lungo tra quelli noti finora.

antropologiaevoluzionegenetica

Nel 2010, il completamento delle analisi del materiale genetico

recuperato da resti fossili scoperti in una grotta dei Monti

Altai, in Siberia, ha delineato l'identikit di una nuova specie

umana, l'uomo di Denisova, vissuto tra 70.000 e 40.000 anni fa.

È accertato ormai che questo ominide condivise il territorio sia

con la nostra specie, Homo sapiens, sia con i Neanderthal.

I contatti tra le diverse specie furono consistenti e con incroci,

tanto che una piccola percentuale del genoma delle attuali

popolazioni umane asiatiche è di origine denisoviana.

Ora un'analisi pubblicata su "Cell" da Murray Cox della

Massey University, in Nuova Zelanda, e colleghi di una

collaborazione internazionale ha rivelato che nel patrimonio

genetico di 161 individui appartenenti a 14 popolazioni

isolane del Sudest asiatico e di Papua Nuova Guinea ci sono

tracce di due distinti rami filogenetici denisoviani rispetto

al Denisova siberiano, il primo chiamato convenzionalmente

D1, geneticamente più vicino al Denisova di Altai, e il secondo

chiamato D2, geneticamente più distante.

Questi due rami sono rimasti separati l'uno dall'altro per circa

350.000 anni. Inoltre, le analisi hanno mostrato che le varianti

genetiche di D1 sono presenti solo nei papuani, mentre quelle

di D2 hanno una diffusione geografica molto più ampia,

dall'Asia all'Oceania.

Le tante famiglie dei Denisova

Ricostruzione dell'aspetto dell'uomo di Denisova diffuso

nel Sudest asiatico e in Oceania. (Science Photo Library/AGF

)Grazie a una simulazione basata sul tasso stimato di mutazioni,

gli autori hanno concluso che D1 si è separato dal ramo dei

Denisova di Altai circa 363.000 anni fa e che D2 si è separato

da questo stesso ramo circa 283.000 anni fa.

Questi risultati fanno seguito a quelli di uno studio che hanno

mostrato una terza discendenza di Denisova, indicata come D0,

di origine molto più recente, nei genomi dei siberiani moderni,

dei nativi americani e degli asiatici orientali.

I risultati in sostanza delineano un modello dell'albero genealogico

umano molto più complesso di quello ricostruito fino a pochi anni fa.

Questo mosaico di nuove scoperte nel continente asiatico, oltre

a quelle di Homo floresiensis e del recentissimo Homo luzonensis,

è frutto anche di un mutamento di prospettiva nella ricerca

paleoantropologica, che nei decenni passati ha dedicato molta

attenzione alle regioni europee e dell'Eurasia settentrionale,

sulla base della convinzione che i resti umani - e soprattutto il

DNA che contengono - potessero conservarsi solo al freddo.

"Pensavamo di essere solo noi umani moderni insieme con i

neanderthaliani", ha spiegato Cox.

"Ora sappiamo che c'era un'enorme varietà di gruppi simili agli

umani in tutto il pianeta, e per molto tempo i nostri antenati sono

venuti in contatto con gruppi che erano geograficamente isolati tra

loro".

"Si pensava che i Denisoviani vivessero sulla terraferma asiatica

e molto più a nord", dice Cox.

"Il nostro lavoro mostra invece che il centro della diversità arcaica

non era in Europa o nel nord ghiacciato, ma nell'Asia tropicale".

Un dato cruciale emerso dallo studio di Cox e colleghi è che il

ramo D1 dei Denisova è sopravvissuto fino a 30.000 anni fa,

forse anche fino a 14.500 anni fa.

Si tratterebbe quindi degli ominidi arcaici sopravvissuti più a

lungo tra quelli finora noti, considerato che i neanderthaliani si

estinsero circa 40.000 anni fa, l'uomo di Flores tra 60.000 e

50.000 anni fa e che i resti di H. luzonensis risalgono a prima

di 50.000 anni fa. (red)

 
 
 

Lo sviluppo delle società complesse

Post n°2280 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

29 marzo 2019

Gli dèi moralizzatori non c'entrano con lo sviluppo delle società complesse

Gli dèi moralizzatori non c'entrano con lo sviluppo delle società complesse

Le grandi religioni basate su figure divine moralizzatrici

si sono diffuse in un'epoca posteriore al sorgere delle

società umane complesse, e quindi non hanno avuto un

ruolo nel loro sviluppo.

E' quanto sostiene un nuovo studio condotto con metodi

quantitativi e statistici che mette in discussione la funzione

prosociale delle religionidi Marcus Woo/Scientific American

societàstoriaantropologia

Circa 12.000 anni fa le società umane s'ingrandirono; tribù e

villaggi si svilupparono in vaste città, regni e imperi nel giro

di pochi millenni.

Ma perché società così grandi e complesse potessero mettere

radici, era necessario mantenere coesione sociale e cooperazione,

anche tra estranei.

L'elemento che ha permesso questo, hanno sostenuto molti ricercatori,

è stata la religione.

Secondo questo punto di vista, una religione funziona

particolarmente bene [a questo scopo] se stabilisce standard

di moralità e comportamento e li impone con la minaccia

di una punizione soprannaturale.

Questo può coinvolgere i cosiddetti grandi dèi che si preoccupano

di chi si comporta bene o male, come nelle religioni abramitiche.

Oppure, come nel concetto buddista del karma, le religioni possono

imporre la moralità attraverso la cosiddetta "punizione

soprannaturale dffusa", con conseguenze spontanee che

avvengono senza l'intervento di grandi dèi convenzionali.

Ma un nuovo studio, pubblicato su "Nature" mette in dubbio

il ruolo di questo tipo di religione "prosociale" nel favorire

società di ampie dimensioni.

"Non è il principale motore della complessità sociale, come

avevano previsto alcune teorie", afferma Harvey Whitehouse,

antropologo dell'Università di Oxford e tra gli autori principali

dello studio.

Gli dèi moralizzatori non c'entrano con lo sviluppo delle società complesse

I simboli delle tre religioni mototeiste: islam, ebraismo e

cristianesimo (BSIP/AGF)Al contrario, lo studio suggerisce

che le religioni prosociali sono apparse dopo che erano già

emerse società complesse.

Anche se queste religioni possono aver contribuito a sostenere

e far crescere grandi società, l'analisi spiega che non erano

necessarie fin dall'inizio perché le società si espandessero.

Le religioni prosociali possono dominare il mondo di oggi, ma

non l'hanno fatto in gran parte del passato dell'umanità, quando

le persone in genere cercavano di placare dèi volubili con la preghiera

e il sacrificio piuttosto che impegnarsi a essere buone.

Le religioni prosociali erano "davvero non comuni", dice Edward

Slingerland, storico e studioso religioso dell'Università della British

Columbia che non era coinvolto nel nuovo studio.

"Eppure quando emergono, poi si diffondono".

L'ipotesi delle religioni prosociali - che gli autori del nuovo studio

definiscono anche ipotesi degli "dèi moralizzatori" - prevede che si

siano diffuse perché hanno dato il via alle grandi società, che alla

fine sono arrivate a dominare ampie parti del mondo.

Le persone che vivevano in piccole tribù e villaggi spesso erano

imparentate biologicamente o comunque si conoscevano bene,

quindi era abbastanza facile sentirsi reciprocamente responsabili

quando si trattava di cooperare e scambiare favori reciproci.

Ma le grandi società richiedono la cooperazione tra estranei che

potrebbero interagire solo una volta, dice Slingerland.

Di conseguenza, un gruppo di ricercatori, tra cui Slingerland e Ara

Norenzayan, psicologo della UBC, aveva proposto che le religioni

prosociali - in particolare quelle con i "grandi dèi" - fossero state

necessarie per promuovere una cooperazione sufficiente a far

decollare le società complesse.

Alcuni esperimenti hanno scoperto che persone psicologicamente

predisposte a pensare alle religioni prosociali sono più collaborative.

Studi storici hanno anche suggerito che l'ascesa di quelle religioni

coincise con l'aumento della complessità sociale.

Monaci buddhisti (agefotostock / AGF)Ma altre prove sono

state contradditorie, trovando differenze tra i due tipi di religioni

prosociali.

Per esempio, uno studio del 2015 sulle società austronesiane ha

trovato grandi dèi emersi dopo l'ascesa di società complesse, anche

se il concetto di punizione soprannaturale diffusa era apparso prima.

Uno studio del 2017 sulla Scandinavia dell'era vichinga ha trovato

risultati simili.

Gli studi precedenti, tuttavia, si concentravano su regioni geografiche

specifiche, mentre quello pubblicato ora riguarda tutto il mondo:

si basa su una banca dati chiamata Seshat, che copre 414 società di

30 regioni geografiche attraverso 10.000 anni di storia.

Per costruire questo database, i ricercatori hanno esaminato la

letteratura scientifica disponibile relativa a diverse società.

Hanno stabilito quanto una società credeva nelle religioni prosociali,

insieme a vari indicatori di complessità sociale tra cui la popolazione,

le dimensioni del territorio e la presenza di codici legislativi e tribunali.

Gli autori hanno codificato queste informazioni in valutazioni

numeriche e hanno utilizzato tecniche statistiche per calcolare un

numero che riflettesse il livello di complessità di ciascuna società.

Quando i ricercatori hanno confrontato la crescita della complessità

sociale con la cronologia della comparsa delle religioni pro-sociali,

hanno scoperto che, nella grande maggioranza delle società, quelle

religioni erano emerse successivamente, dopo che le società si erano

espanse fino a raggiungere una popolazione di circa un milione di persone.

"Questo articolo ha portato danni sostanziali all'ipotesi dei grandi dèi,

che si adatta a ciò che era stato trovato in precedenza", dice Russell

Gray, evoluzionista del Max-Planck-Institut per la Scienza della

Storia umana, che faceva parte dello studio sull'Austronesia ma

non di quello nuovo.

I nuovi risultati indeboliscono anche l'idea che sia necessaria una

punizione soprannaturale diffusa per avere delle società complesse,

dice.

"Questa è di gran lunga la cosa migliore che ho visto arrivato finora

dal tanto pubblicizzato progetto Seshat".

Ma Slingerland è scettico. Sottolinea che molte delle voci del

database Seshat non riportano alcuna consultazione con esperti.

"Questo mi preoccupa", dice. Molti elementi del database, come

la fede nelle religioni prosociali, sono soggetti all'interpretazione

e al dibattito, anche tra esperti che hanno passato la carriera a studiare

specifiche società e periodi di tempo, osserva.

Senza esperti che controllino ogni inserimento di dati, aggiunge,

il database potrebbe sottostimare l'incertezza o caratterizzare in

modo errato una società.

"Non sto dicendo che i dati siano tutti sbagliati", dice.

"È solo che non lo sappiamo: in un certo senso, ciò è altrettanto

negativo, perché non conoscere significa non poter prendere sul

serio l'analisi".

Gli autori dell'articolo di "Nature" si sono consultati con dozzine

di esperti, ma sarebbe stato impossibile reclutare studiosi per

controllare tutti i 47.613 documenti che hanno analizzato, dice

Patrick Savage, antropologo e statistico dell'Università Keio, in

Giappone, che ha guidato il nuovo studio insieme a Whitehouse

e a Pieter Francois, antropologo di Oxford.

Anche senza la verifica di ogni voce da parte di esperti, Savage

afferma che il gruppo rimane fiducioso sulla qualità dei suoi

dati e delle sue analisi.

Dove c'erano incertezze o discrepanze, aggiunge, l'analisi

statistica è stata ripetuta più volte con molteplici valori possibili

dei dati.

Ogni volta, si sono continuate a trovare religioni prosociali

emerse dopo società complesse.

Le conclusioni erano così forti e coerenti che discrepanze o errori

di sorta nel database non sarebbero stati abbastanza rilevanti da

fare molta differenza, dice.

Gli dèi moralizzatori non c'entrano con lo sviluppo delle società complesse

La pesa delle anime (dettaglio del Giudizio Universale, Saint-

Pierre-le-Jeune, Strasburgo; ©Godong/UIG/AGF)Se lo studio

resiste al controllo, non significa che gli dèi moralizzatori non

abbiano alcuna relazione con le società complesse: potrebbero

aver aiutato a rafforzare la coesione e la cooperazione, poiché

queste società ne conquistavano altre e via via abbracciavano

una popolazione più diversificata.

"Non sono tutte cattive notizie per l'ipotesi degli dèi moralizzatori",

dice Whitehouse.

A far crescere la complessità sociale potrebbero aver contribuito

anche altri aspetti della religione.

Per esempio, Whitehouse ipotizza che la standardizzazione dei

rituali religiosi potrebbe essere stata cruciale.

Secondo l'analisi del suo gruppo, le prove archeologiche dei rituali

corrispondono spesso alle epoche in cui le società sono diventate

grandi, prima che comparissero le religioni prosociali.

"Quando si tratta della nascita della complessità sociale", hanno

scritto gli autori dello studio, "il modo di adorare in definitiva

potrebbe essere più importante di che cosa si adora".

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Nature"

il 20 marzo 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Un nuovo biomateriale.

Post n°2279 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

Il nuovo biomateriale

creato sfruttando le

proprietà di organismi

marini unicellulari

Fonte: Università di Bologna

©Biosphoto Un gruppo di ricercatori è

riuscito ad arricchire lo scheletro di carbonato

di calcio prodotto naturalmente dalla foraminifera

 Amphistrigina lessoni con nano-particelle magnetiche.

Una nuova strategia che apre le porte a infinite

possibilità per la sintesi di nuovi materiali.

Un gruppo di ricercatori guidato da studiosi

dell'Università di Bologna è riuscito per la prima

volta a sintetizzare un nuovo biomateriale, a

base di carbonato di calcio e arricchito con nano

-particelle magnetiche, sfruttando le caratteristiche

naturali di un organismo marino unicellulare, la

foraminifera Amphistrigina lessoni.
 
Anche se negli anni sono stati fatti grandi

progressi per individuare i meccanismi da cui

nascono i materiali naturali e che ne regolano

le proprietà, infatti, in molti casi è ancora

impossibile riprodurli in laboratorio.

Per questo, gli studiosi autori della ricerca

hanno cambiato approccio: non tentare di

imitare i processi naturali, ma sfruttarli per

produrre nuovi materiali.

Una strategia innovativa - presentata sulla

rivista Materials Horizons - che potrebbe ora

essere replicata anche su altri organismi e

con altri "ingredienti", dando così origine a

infinite possibilità per la sintesi di nuovi materiali.
 
Un bioreattore naturale

Tutto parte dalla foraminifera Amphistrigina

lessoni, un organismo marino unicellulare capace

di produrre uno scheletro composto di carbonato

di calcio, materiale molto studiato e molto utile

soprattutto in campo biomedicale.

Sfruttando questa abilità naturale, i ricercatori

sono riusciti ad utilizzare la foraminifera come

bioreattore per produrre cristalli bionici di

carbonato di calcio arricchiti con nano-particelle

magnetiche.

Un ingrediente aggiuntivo che è in grado di dare

allo scheletro di questi organismi delle proprietà

magnetiche addizionali.
 
"Per produrre il loro scheletro, le foraminifere

assorbono l'acqua di mare attraverso vescicole",

spiega Giuseppe Falini, professore dell'Università

di Bologna che ha coordinato lo studio.

"Noi abbiamo voluto studiare se la presenza di

un additivo nel mezzo utilizzato per la crescita

degli organismi consentisse di sintetizzare cristalli

ibridi di calcite e additivo, con caratteristiche non

ottenibili tramite la sola sintesi chimica in laboratorio".
 
Scheletri magnetici

Una sfida che ha restituito un riscontro positivo:

l'additivo aggiunto dai ricercatori ha portato gli

organismi ad arricchire il loro scheletro con particelle

magnetiche, creando di fatto un nuovo biomateriale.

"Sfruttando il processo di biomineralizzazione

delle foraminifere - conferma Giulia Magnabosco,

prima autrice dello studio - siamo riusciti a fare in

modo che all'interno dello scheletro venissero

intrappolate particelle magnetiche.

In questo modo, è stato possibile sintetizzare

un nuovo materiale a base di carbonato di calcio

che può essere controllato applicando un campo

magnetico esterno".
 
Una nuova strategia che in questo caso ha

tratto vantaggio dalle abilità delle foraminifere,

ma, sottolineano gli autori, in linea di principio

può essere applicata anche ad altri organismi

calcificanti e ad altre classi di additivi.

Uno schema, insomma, da cui potrebbero

nascere infinite possibilità per la sintesi di

nuovi materiali.
 
I protagonisti dello studio
Lo studio - pubblicato sulla rivista Materials

Horizons con il titolo "Bionic synthesis of a

magnetic calcite skeletal structure through

living foraminifera" - è stato condotto da Giulia

Magnabosco, Simona Fermani, Matteo Calvaresi

e Giuseppe Falini del Dipartimento di Chimica

"Giacomo Ciamician" dell'Università di Bologna.
 
Hanno collaborato inoltre Vittorio Franco

Corticelli, Meganne Christian e Vittorio Morandi

dell'Istituto per la microelettronica e microsistemi

(IMM) del CNR di Bologna, con Cristiano Albonetti

dell'Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati

(ISMN) del CNR di Bologna e con Hagar Hauzer e

Jonathan Erez della Hebrew University of Jerusalem.

 
 
 

I più antichi faggi d'Europa.

Post n°2278 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

05 luglio 2019Comunicato stampa

I faggi più vecchid'Europa scopertinel Parco del Pollino

Fonte: Università della Tuscia

© Gianluca Piovesan Nel Parco Nazionale del

Pollino scoperti faggi di oltre 600 anni, le

latifoglie decidue di clima temperato più antiche

del mondo.

Il segreto di lunga vita è una crescita lenta ma

che aumenta nel corso dei secoli, una condizione

che sembra accomunare molti alberi longevi del

pianeta inclusi i pini loricati.Pubblicato in "Ecology"

l'articolo "Lessons from the wild:

Slow but increasing long-term growth allows for

maximum longevity in European beech"Scoprire,

studiare e preservare le foreste vetuste e i

vecchi alberi è una priorità assoluta per la

conservazione della natura in questa epoca

di cambiamenti globali. In questo studio

abbiamo utilizzato il metodo dendrocronologico,

ossia basato sulla misurazione degli anelli di

accrescimento, per ricostruire le storie di crescita

degli alberi in una faggeta vetusta altomontana

del Pollinello (Parco Nazionale del Pollino).

Due degli alberi datati con il metodo dendrocronologico

sono di oltre 620 anni, un'età che li distingue per

aver raggiunto una longevità massima nell'ambito

della foresta temperato decidua.

I due alberi sono stati chiamati Michele e Norman

in memoria del botanico Michele Tenore e del

viaggiatore e scrittore Norman Douglas che,

rispettivamente, nell'ottocento e nei primi del

novecento descrivono le fantastiche foreste

del Pollino rimarcando la naturalità diffusa degli

ecosistemi.

Per fortuna la faggeta del Pollinello è stata solo

marginalmente toccata dalle forti utilizzazioni

forestali del secolo scorso per cui, ancora oggi,

si rinvengono tratti praticamente primevi dove

gli alberi nascono, crescono e muoiono

seguendo un ciclo naturale.

Per le alte caratteristiche di naturalità e per i

caratteri ecologici unici di foresta decidua che

entra in contatto con le pinete oromediterranee

di pino loricato il popolamento è stato candidato

nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità

"Ancient and Primeval Beech Forests of the

Carpathians and Other Regions of Europe".

In queste foreste vetuste la storia della

crescita individuale è molto variabile; un albero

può impiegare da uno a oltre sette secoli per

raggiungere una grande dimensione (diametro

a petto d'uomo maggiore di 60 cm).

Va rimarcato che in questi boschi la carie,

ossia il marciume del legno, attacca spesso

i tronchi del faggio rendendo difficile la datazione.

Tuttavia, una ricostruzione delle età evidenzia

la possibilità che alcuni alberi con il tronco cariato

possano avere oltre 800 anni fino a sfiorare

il millennio.

La ricerca in corso con metodi integrati

dendrocronologia e radiocarbonio ha quindi

l'obiettivo di verificare scientificamente questa

proiezione basata per ora su modelli di crescita

basati sugli anelli misurati nella prima parte

(ossia la più antica) del legno sano.

La regola che contraddistingue questi vecchi

faggi, i più antichi d'Europa, è quella di un

accrescimento lento ma crescente nel lungo

termine, una condizione che si sta confermando

sempre più nel mondo degli alberi quale prerequisito

per raggiungere longevità estreme.

Soppressione della crescita nelle prime fasi della

vita dovuta a competizione e condizioni climatiche

estreme sembrano così essere il segreto di una

vita lunga. Sempre a causa delle condizioni ambientali

severe gli alberi non sviluppano altezze importanti

ma mantengono una dimensione più ridotta intorno

ai 15-25 m che conferisce loro una maggiore

resistenza agli eventi climatici estremi.

Faggi di oltre 500 anni sono stati rinvenuti in

condizioni stazionali simili nelle boschi vetusti dei

Parchi Nazionali del Casentino e di Abruzzo, faggete

riconosciute patrimonio mondiale Unesco nel 2017.

Gli alberi habitat che racchiudono queste faggete

vetuste ospitano una biodiversità unica di tante

specie di vegetali e animali oggi a rischio di estinzione

perché l'uomo nel corso dei secoli ha distrutto

quasi dappertutto nel bioma temperato questi

ambienti di foresta vergine.

Grazie ai nuclei di foresta vetusta sopravvissuti

insieme ad la politica del rewilding attuata dai

Parchi Nazionali e dai Carabinieri Forestali nel

corso degli ultimi decenni oggi si sta cercando di

salvare questi scrigni di biodiversità e di servizi

ecosistemici per la collettività.

Si tratta di politiche ambientali e di ricerche di

lungo termine possibili grazie ad una collaborazione

tra Parchi Nazionali, in questo caso del Pollino

che ha finanziato lo studio, ed Università, nella

fattispecie di questo studio Dipartimento di

eccellenza Scienze Agrarie e Forestali dell'Università

della Tuscia.

La ricerca viene ora divulgata quale buona prassi

per la conservazione degli ecosistemi forestali

nell'ambito del progetto FISR-Miur Italian Mountain

Lab con la finalità di diffondere i contributi della

biologia della conservazione nella gestione

forestale per intraprendere la strada dello

sviluppo sostenibile in attuazione degli obiettivi

previsti nell'ambito dell'Agenda 2030.


 "Lessons from the wild: Slow but increasing

long-term growth allows for maximum longevity

in European beech" by Gianluca Piovesan, Franco

Biondi, Michele Baliva, Giuseppe De Vivo,

Vittoria Marchianò, Aldo Schettino, and Alfredo

Di Filippo published in Ecology. https://doi.org/

10.1002/ecy.2737

 
 
 

Scoperti i resti umani più antichi del Nord Italia

Post n°2277 pubblicato il 08 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte:Ansa

Scoperti i resti umani più antichi del Nord Italia

Di 300mila anni fa, scoperta di ateneo Ferrara nel Vercellese

Redazione ANSA FERRARA 

05 luglio 201906:19

L'incisivo inferiore di un giovane adulto e un osso

occipitale intero (la parte posteriore del cranio) risalenti

a circa 300mila anni fa: sono i resti umani più antichi del

Nord Italia e sono stati rinvenuti nel Vercellese, nella

Grotta di Ciota Ciara a Borgosesia.

La scoperta è avvenuta durante una campagna di scavi

condotta da docenti, ricercatori e studenti del Dipartimento

di Studi Umanistici dell'Università di Ferrara grazie alla

concessione del Mibac.

"I reperti che abbiamo rinvenuto, soprattutto l'osso occipitale,

sono davvero fondamentali per definire la storia evolutiva

dell'uomo in Europa", sottolinea Marta Arzarello, docente

di Scienze preistoriche e antropologiche a Ferrara: "Proprio

su di esso sono presenti delle strutture che definiscono la

specie Neandertaliana: il famoso 'chignon' (rigonfiamento)

occipitale e la sottostante fossa soprainiaca".

Ritrovamenti di questo genere sono molto rari in Europa,

spiegano i ricercatori, e permetteranno di documentare il

periodo cronologico che vede il passaggio dall'Homo heidelbergensis

all'Homo neanderthalensis.

La grotta fu probabilmente utilizzata in una prima fase solo

come rifugio durante la caccia e successivamente per delle

occupazioni più lunghe, probabilmente stagionali per poi finire

con un'ultima occupazione di breve durata.

La datazione, con metodi radiometrici, del sito è ancora in corso

presso il Muséum National d'Histoire Naturelle di Parigi ma i

risultati preliminari lasciano pensare che la parte centrale (in

termini di cronologia) del giacimento sia da attribuire a circa

300mila anni fa.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

 
 
 

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