Creato da blogtecaolivelli il 04/03/2012

blogtecaolivelli

blog informazione e cultura della biblioteca Olivelli

 

Messaggi del 24/03/2020

Dall'asteroide Ryugu...

Post n°2640 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze

HOMESPAZIO E ASTRONOMIA

Asteroide Ryugu è una pila di macerie

attaccate ed è molto poroso e leggero

17 Marzo 2020 Spazio e astronomiaTop newsAsteroide Ryugu (credito: JAXA, University of Tokyo,

Kochi University, Rikkyo University, Nagoya University,

Chiba Institute of Technology, Meiji University, University

of Aizu, AIST, Kobe University, Auburn University)

L'asteroide 162173 Ryugu, obiettivo della missione giapponese

Hayabusa2 durante il 2018 e il 2019, è sostanzialmente una pila

di materiali attaccati l'uno all'altro, così come teorizzato in precedenza.

La conferma arriva su un nuovo studio apparso su Nature, ricerca

che si rifà sostanzialmente ai dati raccolti dalla navicella Hayabusa2,

soprattutto alle immagine ad infrarossi.

Questa pila di macerie cosmica ha un diametro di quasi un chilometro

ed è fatta da materiale molto poroso.

Si tratta di frammenti, molto probabilmente, provenienti da un

corpo "genitore" il quale deve essere stato frantumato da degli

impatti con altri corpi.

Lo studio conferma inoltre che si tratta di un asteroide di tipo C

(detti anche "asteroidi carbonacei") ricco di carbonio.

Si tratta di asteroidi che, anche quando sono relativamente grandi,

non sono molto pericolosi per quanto riguarda eventuali impatti

sulla Terra.

Proprio perché così "friabili" e composti da materiali molto

porosi e leggeri, asteroidi come questi, una volta entrati nell'atmosfera

terrestre, si distruggono, frantumandosi in moltissimi piccoli pezzettini,

o si incendiano letteralmente.

Questo è tra l'altro uno dei motivi per i quali i resti degli asteroidi di

tipo C difficilmente vengono reperiti sulla Terra.

Una conferma di questa caratteristica dell'asteroide arrivata anche

dalle misurazioni delle temperature della superficie dell'asteroid

e eseguite con la telecamera ad infrarossi a bordo della navicella

Hayabusa2.

Queste misurazioni indicano che la superficie dell'asteroide si

riscalda dopo l'alba da circa -43 °C a più di 27 °C.

Questo suggerisce che i pezzi che costituiscono l'asteroide hanno

una bassa densità e un'elevata porosità.

Inoltre gli astronomi che hanno redatto lo studio credono che

questo asteroide possa essere considerato come uno degli stati

iniziali che portano poi alla formazione degli enormi corpi celesti

come i pianeti o i loro satelliti, come spiega Matthias Grott

dell'Istituto di ricerca planetaria DLR, uno degli autori dello

studio: "Questo colma una lacuna nella nostra comprensione

della formazione planetaria, poiché non siamo quasi mai stati

in grado di rilevare tale materiale nei meteoriti trovati sulla

Terra."

 
 
 

Post N° 2639

Post n°2639 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

 Dalle Scienze

24 aprile 2019

Il riscaldamento globale aumenta le disuguaglianze economiche

Il riscaldamento globale aumenta le disuguaglianze economiche (Credit: N. Diffenbaugh e M Burke)

L'aumento delle temperature globali accresce le

disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri.

Lo dimostra una nuova analisi che ha incrociato i

dati sugli effetti del riscaldamento globale nelle

diverse regioni della Terra con quelli della variazione

del prodotto interno lordo pro capite

climaeconomiaIl riscaldamento globale tende ad

accentuare le disuguaglianze economiche tra le nazioni.

È la conclusione di uno studio pubblicato sui "Proceedings

of the National Academy of Sciences" da Noah S.

Diffenbaugh e Marshall Burke, entrambi della

Stanford University.

Lo studio si inserisce in una corrente di ricerca che

nell'ultimo decennio ha effettuato diverse analisi per

quantificare l'impatto dell'aumento delle temperature

globali medie su agricoltura, ecosistemi e salute umana.

Particolarmente complessa ma di grande importanza,

poi, è la valutazione dell'impatto economico del

riscaldamento globale e dei suoi effetti sulle disuguaglianze

tra paesi ricchi e paesi poveri.

I risultati degli studi effettuati finora confermano

quello che si può facilmente intuire da considerazioni

generali: i paesi più poveri hanno maggiore probabilità

di subire gli effetti negativi del riscaldamento globale,

in termini ambientali, e i loro abitanti in termini di

qualità di vita, economia e salute.

Questo avviene in parte perché questi paesi e i loro

cittadini hanno scarsi strumenti per difendersi dal

fenomeno del riscaldamento globale e in parte perché

vivono tendenzialmente nelle zone più calde della Terra,

dove un ulteriore incremento della temperatura media

può mettere in crisi la produttività lavorativa, in

particolare quella agricola, e le condizioni di vita.

Inoltre, i paesi più ricchi sono quelli che storicamente

hanno emesso più gas serra, quindi sono i principali

responsabili del riscaldamento globale in atto.

La mitigazione delle emissioni è dunque da considerare

anche una questione di equità sociale.

Cambiamento nella media annuale della temperatura mediaIl riscaldamento globale aumenta le disuguaglianze economiche

superficiale nelle diverse regioni del mondo dovuto

alle attività umane. (Credit: N. Diffenbaugh e M Burke

)Diffenbaugh e Burke hanno raccolto i dati sulla crescita

economica e sulle fluttuazioni delle temperature per

quantificarel'impatto del riscaldamento globale dovuto

alle attività umane sulla distribuzione del prodotto

interno lordo pro capite per le varie nazioni.

Hanno poi considerato i modelli climatici più condivisi

dalla comunità scientifica per stimare quale sarebbe

stata l'evoluzione climatica della Terra in assenza di

emissioni di gas serra.

L'analisi dei due autori ha dimostrato che tra i paesi

più poveri il prodotto interno lordo pro capite si è ridotto

tra il 17 e il 31 per cento nel periodo 1961-2010 a

causa del riscaldamento globale.

E se si dividono tutti i paesi in dieci gruppi in base alla

ricchezza, si vede che tra il primo e l'ultimo gruppo il

divario economico è del 25 per cento più grande di

quello che si avrebbe senza il contributo umano

all'aumento delle temperature.

L'effetto, secondo i ricercatori, è duplice perché il riscalda-

mento globale aumenta la crescita economica nei paesi

più freddi e la diminuisce in quelli più caldi.

Secondo gli autori, quindi, anche se negli ultimi

cinquant'anni le disuguaglianze tra le nazioni sono

andate tendenzialmente diminuendo, c'è una

probabilità del 90 per cento che il riscaldamento

globale abbia rallentato questa diminuzione.

In altri termini, anche se non è chiaro se i paesi più

ricchi abbiano beneficiato dell'aumento delle temperature,

c'è una probabilità superiore al 90 per cento che i paesi

più poveri abbiano raggiunto un prodotto interno lordo

inferiore a quello che avrebbero avuto senza il

riscaldamento globale. (red)

 
 
 

Dalle Supernove.....

Post n°2638 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze.

28 gennaio 2020

Una nana bianca dietro la supernova da record

Un'immagine ai raggi X della supernova (in alto

a destra) vicino alla galassia NGC 1260

(©NASA/CXC/UC Berkeley/N.Smith et al.) Un nuovo

studio ha ricostruito l'origine di SN 2006gy, una delle

supernove più luminose mai osservate: all'origine

dell'evento ci sarebbe l'esplosione di una nana bianca

che ha interagito con un involucro di materiali espulsi

un secolo prima dalla sua stella compagna gigante.

Nel settembre del 2006, nel cielo notturno fece la sua

comparsa un bagliore di potenza insolita.

Gli strumenti confermarono l'eccezionalità dell'evento:

quella luce era prodotta da una supernova superluminosa,

una delle esplosioni stellari più brillanti mai scoperte

e studiate, poi battezzata SN 2006gy, situata nella

galassia NGC 1260, a circa 238 milioni di anni luce

da noi.

Ora sulla rivista "Science", Anders Jerkstrand del

Max-Planck-Institut per l'astrofisica a Garching e colleghi

di una collaborazione internazionale rivelano l'origine

di tanta energia.

Si tratta infatti di una supernova abbastanza comune,

in cui però l'esplosione ha interagito con un guscio di

materiale stellare espulso in precedenza dal sistema

binario di origine.

Le supernove superluminose sono fino a 100 volte più

luminose di quelle normali.

Gli astrofisici hanno proposto diversi possibili modelli

per spiegare questi eventi transitori rari e brillanti,

ma l'origine della loro energia e la natura delle stelle

che li producono sono ancora poco chiare.

Nel caso di SN 2006gy, ci sono voluti anni per

ricostruire il puzzle dei fenomeni fisici sottostanti.

I primi dati raccolti hanno fatto ipotizzare che si trattasse

di una supernova di tipo II, cioè di una supernova

formatasi dal collasso e dalla conseguente violenta

esplosione di una stella massiccia, con massa di almeno

nove volte quella del Sole.

Tuttavia, poco più di un anno dopo l'esplosione, SN

2006gy ha prodotto uno spettro di radiazione insolito,

con linee di emissione non identificate.

Col tempo, Jerkstrand e colleghi sono riusciti a realizzare

diversi possibili modelli spettrali di supernova, identificando

infine le misteriose linee di emissione come dovute

a una grande quantità di ferro.

Gli autori si sono poi dedicati alla ricerca dei meccanismi

che avrebbero potuto produrre i tre elementi rilevanti

di SN2006gy: estrema luminosità, spettro peculiare e

presenza di linee spettrali del ferro.

L'unico scenario coerente con le osservazioni è quello

di una supernova di tipo Ia, frutto dell'esplosione di

una nana bianca, una tipologia di stella di massa

medio-piccola giunta al termine del ciclo di fusione

nucleare.

L'ipotesi è che in origine la nana bianca facesse parte

di un sistema binario con una stella gigante da cui è

poi stata inghiottita, finendo per esplodere una volta

raggiunto il nucleo della compagna più grande.

La luminosità estrema è stata poi prodotta dall'intera-

zione dell'onda d'urto della supernova con un denso

guscio di materiale circumstellare, probabilmente

espulso dalla stella gigante circa un secolo prima

dell'esplosione della nana bianca.

I ricercatori sottolineano che anche altre supernove

superluminose condividono proprietà simili a quelle

osservate per SN 2006gy: si può dunque ipotizzare

che i meccanismi fisici sottostanti siano gli stessi.

 (red)

 
 
 

Notzie dai Quasar, dagli spazi siderali..

Post n°2637 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze

10 marzo 2020Comunicato stampa

Quasar in bilico tra venti potentissimi e radiazioni energetiche

Fonte: InafRappresentazione artistica di un quasar  (© ESO/ M. Kornmesser) Lo studio,

appena uscito sul sito web della rivista "Astronomy &

Astrophysics Letters",  getta nuova luce sulla complessa

relazione che c'è tra la radiazione emessa dai quasar, potenti

sorgenti cosmiche, e i venti di materia calda che vengono

espulsi da esse.

Il lavoro è stato guidato da Luca Zappacosta, ricercatore dell'Istituto

Nazionale di Astrofisica

I quasar superluminosi, sono la manifestazione più estrema dei buchi

neri supermassicci al centro delle galassie, essendo brillanti come

centomila miliardi di stelle pari al Sole.

Sono considerati laboratori ideali sia per lo studio dei processi fisici

responsabili della loro straordinaria luminosità, sia per investigare

i meccanismi che legano quest'ultima all'accelerazione di potenti

flussi di materia, i cosiddetti "venti".
 
Lo studio pubblicato online oggi sulla rivista Astronomy &

Astrophysics Letters e guidato da Luca Zappacosta, ricercatore

dell'Istituto Nazionale di Astrofisica a Roma getta nuova luce sulla

complessa relazione che c'è tra la radiazione emessa da queste

potenti sorgenti cosmiche e i venti di materia calda che vengono

espulsi da esse.
 
Le attuali teorie descrivono un quasar come un buco nero

supermassiccio di massa tra i cento milioni e i dieci miliardi di volte

quella del Sole, alimentato da un disco di gas caldo, il cosiddetto

disco di accrescimento, che spiraleggia vorticosamente ed emette

radiazione principalmente nei raggi ultravioletti.

Parte della luce ultravioletta emessa viene ulteriormente trasformata

in raggi X in una regione popolata da elettroni caldi - chiamata corona

- sovrastante il disco di accrescimento.
 
"Finora sapevamo che i quasar più luminosi hanno un'emissione nei

raggi X più bassa di quella attesa sulla base della loro emissione

ultravioletta" dice Zappacosta. "Noi abbiamo

scoperto che, almeno tra i quasar più luminosi, esiste una terza

variabile, data dai potenti venti nucleari emessi nei pressi del disco

di accrescimento.

Infatti abbiamo trovato che i venti più veloci, che soffiano anche

a 18-25 milioni di chilometri orari, vengono osservati nelle sorgenti

con emissione X più debole".
 
Questo risultato è stato ottenuto nell'ambito del progetto WISSH,

che studia i quasar più luminosi dell'intero universo.

Il proposito del progetto WISSH è indagare i fenomeni che

avvengono nei nuclei dei quasar superluminosi e il funzionamento

e il ruolo che i venti di materia hanno nell'ecologia del sistema

galassia/buco nero.
 
La sfida per gli scienziati ora è comprendere se sia l'emissione

debole di raggi X a provocare il lancio di venti veloci o se questi

ultimi siano la causa dell'emissione X indebolita.

"I modelli proposti per l'innesco dei venti di materia dal disco

di accrescimento, prevedono che i venti più veloci siano associati

ad una bassa emissione X," spiega Margherita Giustini, co-autrice

dello studio e ricercatrice al Centro de Astrobiología (CSIC-INTA)

di Madrid.

"D'altra parte è anche possibile che il vento stesso contribuisca

a schermare e quindi ridurre l'emissione X o anche che parte

di esso interagisca direttamente con la corona, inibendo la produzione

dei raggi X."
 
"Questo risultato conferma l'importanza di studiare i quasar più estremi

- aggiunge Enrico Piconcelli, anch'egli ricercatore INAF a Roma -

  per avere nuovi e cruciali indizi utili alla soluzione di uno dei

problemi più dibattuti dell'astrofisica moderna, ossia come l'attività

del buco nero centrale possa

centrale possa influenzare l'evoluzione delle galassia che lo ospita.

Su questo campo di ricerca infatti sono altissime le aspettative per

i risultati che verranno forniti dai grandi telescopi di nuova generazione

sia dallo spazio che da Terra, come JWST, ELT e Athena".
 
Lo studio è stato pubblicato online oggi sul sito web della rivista

Astronomy&Astrophyiscs nella lettera The WISSH quasars project

- VII. The impact of extreme radiative field in the accretion disc and

X-ray corona interplay di  L. Zappacosta, E. Piconcelli, M. Giustini,

G. Vietri, F. Duras, G. Miniutti, M. Bischetti, A. Bongiorno, M. Brusa,

M. Chiaberge, A. Comastri, C. Feruglio, A. Luminari, A. Marconi,

C. Ricci, C. Vignali e F. Fiore

 
 
 

Le applicazioni dell'intelligenza artificiale.

Post n°2636 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze.

23 gennaio 2020Comunicato stampa

Olografia digitale e intelligenza artificiale identificano

microplastiche in mare

Fonte: Cnr-IsasiRiconoscimento automatico di micro-plastiche da micro-

plankton in campioni marini  © Cnr Uno studio condotto

da ricercatori dell'Istituto di scienze applicate e sistemi

intelligenti del Cnr svela un nuovo metodo in grado di distinguere

le microplastiche dal microplankton in campioni marini.

Lo studio è stato pubblicato su "Advanced Intelligent Systems"

Un sensore olografico e un metodo innovativo di intelligenza

artificiale consentono di rilevare automaticamente la presenza

di microplastiche in campioni marini, distinguendole dal

microplankton: questo l'importante risultato di una ricerca

pubblicata su Advanced Intelligent Systems (Wiley).

Il lavoro ha coinvolto due gruppi dell'Istituto di Scienze

applicate e sistemi intelligenti del Consiglio nazionale delle

ricerche (Cnr-Isasi): il gruppo di Olografia digitale di Pozzuoli,

coordinato da Pietro Ferraro, in collaborazione con il gruppo di

Intelligenza artificiale di Lecce.

Tale attività di ricerca è svolta nell'ambito del progetto

interdisciplinare Pon "Sistemi di rilevamento dell'inquinamento

marino da plastiche e successivo recupero-riciclo (Sirimap)",

uno dei cui obiettivi è proprio lo sviluppo di tecniche automatiche

di monitoraggio delle plastiche in ambiente marino.

"L'inquinamento dei mari dovuto alla plastica è una delle maggiori

emergenze ambientali che ci troviamo ad affrontare.

Quando questi inquinanti scendono fino a dimensioni

microscopiche, il problema è ancora più allarmante: le microplastiche

possono infatti essere ingeriti della fauna marina destinata al consumo

, entrando nella catena alimentare e causando effetti negativi

sulla salute anche umana.

Dimensioni ridotte degli inquinanti e vasta eterogeneità dei

campioni marini, finora, hanno impedito di effettuare uno screening

automatico ed accurato mirato a conoscere l'abbondanza delle

microplastiche", spiegano Vittorio Bianco e Pasquale Memmolo

del Cnr-Isasi.

"Il metodo da noi proposto utilizza le informazioni fornite da un

microscopio olografico a contrasto di fase, per estrarre da ciascun

elemento analizzato un'ampia e inedita gamma di parametri

altamente distintivi per questa classe di inquinanti.

Tali parametri hanno consentito di addestrare un'architettura di

intelligenza artificiale a distinguere le microplastiche da

microalghe di dimensione e forma in apparenza similari".

"L'unione di olografia digitale e intelligenza artificiale ci ha

consentito di riconoscere decine di migliaia di oggetti appartenenti

a diverse classi con accuratezza superiore al 99%.

Più in dettaglio, la segnatura di contrasto di fase, che dipende

dallo spessore ottico di ciascun oggetto illuminato, consente di

determinare un nuovo insieme di caratteristiche olografiche,

come ad esempio la support fractality o il fill ratio, che si

aggiungono a quelle tipicamente utilizzate nelle classificazioni.

Ciò ha consentito di definire un marcatore ottico, ovvero

un insieme di parametri morfologici univoci per un'ampia

classe di microplastiche, che include materiali, forme e

dimensioni vari" aggiunge Pierluigi Carcagnì, ricercatore

Isasi-Cnr. "Finora, il riconoscimento delle microplastiche

in campioni marini ha richiesto lunghe ispezioni di ogni

singolo oggetto al microscopio ottico da parte di personale

esperto, riducendo il numero di elemento analizzabili, poche

decine per ora di ispezione, e l'accuratezza del riconoscimento.

Il nuovo metodo di olografia digitale fornisce invece un

riconoscimento oggettivo di un numero statisticamente

rilevante di campioni, fino a centinaia di migliaia di oggetti

l'ora, con microscopi realizzabili in configurazioni portatili

per analisi in situ della qualità delle acque".

 
 
 

Editing genetico.

Post n°2635 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze

04 marzo 2020Comunicato stampa

Più riso per la popolazione africana,

grazie all'editing genetico

Fonte: Università degli studi di Milano

Uno studio dell'Università degli Studi di Milano,

in collaborazione con l'Università di Montpellier,

ha utilizzato la tecnica di editing genetico CRISPR-

Cas per poter migliorare la resa di questo cereale

e contribuire a contrastare la scarsità di cibo.

La pubblicazione su "Plos One".

Grazie alla tecnica di editing genetico CRISPR

(Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic

Repeats) - Cas sarà possibile produrre più riso e in

maniera controllata in zone soggette a condizioni

metereologiche e qualità del raccolto imprevedibili,

come ad esempio l'Africa, contribuendo in tal modo

a soddisfare la domanda di cibo della popolazione

mondiale.

La ricerca "CRISPR-Mediated Accelerated

Domestication of African Rice Landraces" è coordinata

da Martin Kater, docente di Genetica presso il

dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di

Milano, e svolta in collaborazione con l'Università di

Montpellier.

Lo stidio, pubblicato su Plos One, si basa sulla tecnica

di editing genetico CRISPR con l'impiego della proteina

Cas9, una sorta di forbici molecolari programmabili

per modificare il DNA di una cellula, in questo caso

del riso africano della specie Oryza glaberrima e

Oryza sativa.

Questi due cereali sono risorse agricole preziose per la

naturale capacità di adattamento alle condizioni

dell'ambiente e del terreno locale; presentano spesso

una maggiore resistenza a parassiti endemici, siccità

e carenza di nutrienti rispetto alle varietà importate

di riso asiatico ad alta intensità di produzione.

Purtroppo però queste caratteristiche (compresa la minore

dispersione e la maggiore resa dei semi, assieme alla

messa a dimora), non sono ben stabilizzate.

Per affrontare questa carenza il team di ricerca della

Statale sta sviluppando protocolli per la trasformazione

genetica degli ecotipi africani, per consentire l'uso di

approcci di miglioramento genico che sfruttino il sistema

di editing genetico CRISPR-Cas.

In questo lavoro è stata utilizzata la varietà di riso Kabre,

coltivata in Africa, con l'intento di modificare specifici loci

che sono stati selezionati attraverso il processo di

domesticazione delle varietà di riso asiatiche, con

l'intento di migliorare la resa nella varietà africana.

La trasformazione genetica con vettori contenenti la

forbice molecolare CRISPR-Cas9 ha generato

mutanti in singoli geni e in combinazioni multiple

selezionate di geni.

Attraverso la modificazione mirata del gene HTD1,

sono state generate piante con altezza ridotta per

diminuire l'allettamento delle piante, ossia il

ripiegamento degli steli in seguito all'azione di venti

e piogge.

Inoltre, tre loci noti che controllano la dimensione

del seme e / o la resa (GS3, GW2 e GN1A) sono

stati simultaneamente modificati utilizzando il

sistema multiplex CRISPR-Cas9.

Ciò ha prodotto piante di riso Kabre con una resa dei

semi significativamente migliorata.

"Il nostro studio - spiega Martin Kater - fornisce un

chiaro esempio di come le nuove tecnologie di

coltivazione possano accelerare lo sviluppo di varietà

di riso africano altamente produttive: si tratta di una

conquista molto importante se si considera che alcuni

continenti come l'Africa siano a un punto nevralgico

per quanto riguarda la crescita della popolazione

mondiale, perché più soggetti alla scarsità di cibo".

https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371

/journal.pone.0229782

 
 
 

Sui tumori..

Post n°2634 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze

20 gennaio 2020

Aggirare le difese del cervello per curare i tumori

linfocita T (in rosa) all'attacco di una cellula

tumorale (© Science Photo Library / AGF) In topi

di laboratorio è possibile trattare efficacemente un

tumore cerebrale grave come il glioblastoma con

l'immunoterapia, stimolando il drenaggio dei vasi

linfatici del cervello e lasciando inalterata la barriera

ematoencefalica

L'immunoterapia, una strategia terapeutica basata su

farmaci in grado di stimolare il sistema immunitario ad

attaccare i tumori, ha dimostrato enormi potenzialità

negli ultimi anni, aumentando la sopravvivenza dei malati

con diverse forme di neoplasie.

Ma nel caso del glioblastoma, un tumore cerebrale

mortale per il quale esistono pochi trattamenti efficaci,

l'immunoterapia non ha avuto successo.

Questo perché il cervello è protetto dalla barriera

ematoencefalica, che impedisce l'accesso nel cervello

agli agenti patogeni, interferendo però con le normali

funzioni del sistema immunitario.

In uno studio su topi, ora pubblicato sulla rivista "Nature",

Akiko Iwasaki e colleghi della Yale University hanno trovato

un nuovo modo di aggirare la barriera emato-encefalica,

sfruttando l'estesa rete di vasi linfatici meningei che

rivestono l'interno del cranio e hanno la funzione di

raccogliere i rifiuti cellulari e di smaltirli attraverso il

sistema linfatico del corpo.

Questi vasi si formano poco dopo la nascita, stimolati

in parte dal gene che codifica per il fattore di crescita

endoteliale vascolare C (VEGF-C).

L'idea di Iwasaki e colleghi era verificare se si potesse

sfruttare VEGF-C per aumentare il drenaggio linfatico

e stimolare così la risposta immunitaria, valutando

poi l'efficacia di questo intervento sui tumori cerebrali.
 
A questo scopo, i ricercatori hanno iniettato VEGF-C

nel liquido cerebrospinale di topi di laboratorio affetti

da glioblastoma e hanno osservato un aumento del

livello di risposta dei linfociti T, un gruppo di cellule

fondamentali del sistema immunitario, nei confronti

delle cellule tumorali.

La promessa della immunoterapia

di Alberto Mantovani
Il problema è però che alcuni tumori eludono l'attacco

delle cellule tumorali stimolando i checkpoint immunitari,

specifiche molecole che regolano il sistema immunitario,

impedendo che esso attacchi le cellule dello stesso

organismo.

Una strategia dell'immunoterapia consiste quindi nel som-

ministrare molecole denominate inibitori dei checkpoint

immunitari, rendendo vana la strategia di difesa del tumore.

Iwasaki e colleghi hanno perciò provato a combinare

la somministrazione di VEGF-C con inibitori del checkpoint

comunemente usati in immunoterapia, aumentando in

modo  significativo la sopravvivenza dei topi.

Ciò significa che l'introduzione del VEGF-C, in combinazione

con i farmaci immunoterapici per il cancro, è una strategia

efficace per colpire i tumori cerebrali.

"Questi risultati sono di grande interesse", ha concluso

Iwasaki. "Vorremmo portare questo trattamento ai pazienti

con glioblastoma, che hanno una prognosi ancora molto

scarsa con le attuali terapie di chirurgia e chemioterapia.

(red)

 
 
 

La dieta dell'Homo sapiens.

Post n°2633 pubblicato il 24 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dalle Scienze.

03 gennaio 2020

I primi carboidrati nella dieta di Homo sapiens

Hypoxis angustifolia (Dr. Lyn Wadley) I nostri antichi antenati raccoglievano e cuocevano

le parti sotterranee di piante ricche di carboidrati già 170.000

anni fa.

Lo dimostra una datazione di resti carbonizzati di fibre vegetali

scoperti in Sudafrica, che testimonia una tappa importante

dell'evoluzione dell'alimentazione umana

Gli esseri umani hanno iniziato a raccogliere e cuocere il rizoma,

la parte di alcune specie vegetali che si trova sottoterra, almeno

170.000 anni fa. A quell'epoca infatti risalgono i resti fossili di fibre

vegetali ricche di amidi scoperte nella Border Cave, una grotta

situata sui monti Lebombo, in Sudafrica, secondo una nuova

datazione pubblicata su "Science" da Lyn Wadley dell'Università

del Witwatersrand a Johannesburg e colleghi.

Il risultato fa luce su una tappa fondamentale per l'evoluzione

dell'alimentazione umana.

Ossa e utensili litici sono i resti meglio preservati nei siti fossiliferi,

ed è per questo che le strategie di caccia e le abitudini alimentari

carnivore dei nostri antichi antenati sono ben documentate.

Nel caso della Borde Cave, famosa per la scoperta avvenuta negli

anni settanta di uno scheletro completo di un bambino e delle ossa

di almeno cinque ominini adulti, l'analisi di resti animali ha

dimostrato già da tempo che gli occupanti avevano una dieta a

base di carne di potamoceri (mammiferi simili ai suini), facoceri,

zebre e bufali.

Il primo barbecue

Intervista di Kate Wong

I resti di vegetali invece si deteriorano facilmente, ed è per questo

che i dati relativi alla dieta vegetariana di Homo sapiens scarseggiano.

I paleoantropologi sono comunque quasi certi che comprendesse

piante ricche di amido come per esempio le geofite.

Questa famiglia di vegetali, che comprende patate, cipolle e zenzero

immagazzina una notevole quantità di carboidrati nei rizomi, e

storicamente ha rappresentato una fonte di energia importante per

gli esseri umani.

Le documentazioni archeologiche, tuttavia, non permettono di

stabilire in quale epoca le geofite siano entrate nell'alimentazione

umana.

Le più recenti tecniche che permettono di analizzare i resti

carbonizzati di antichi fuochi di cottura offrono ora la possibilità di

trovare una testimonianza di fibre vegetali conservate.

Passando al setaccio le ceneri della Border Cave, Wadley e colleghi

hanno scoperto i resti di antichi rizomi carbonizzati, probabilmente

caduti nel fuoco durante la cottura e non più recuperati, risalenti fino

a 170.000 anni fa.

Dal confronto di rizomi attuali e fossili, gli autori hanno stabilito

trattarsi di piante del genere Hypoxis, molto diffuse in tutta l'Africa

sub-sahariana.

L'idea dei ricercatori è che i rizomi di Hypoxis abbiano rappresentato

una fonte di carboidrati dal sapore gradevole, ampiamente disponibile

e facilmente trasportabile per le prime popolazioni umane nomadi che

si spostavano nel continente africano. La cottura rappresentava poi un

modo agevole per rendere i rizomi meno coriacei. (red)

 
 
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

AREA PERSONALE

 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

ULTIME VISITE AL BLOG

prefazione09m12ps12vittorio.59dony686miriade159tirchio2000blogtecaolivelliellistar2012Draiostre.sa47bibanna545annamatrigianoLoneWolf1822Miele.Speziato0
 

CHI PUŅ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore puņ pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

TAG CLOUD

 
Citazioni nei Blog Amici: 1
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963