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Messaggi del 02/03/2020
Post n°2540 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
07 ottobre 2019 per l'ossigenoIl premio Nobel per la medicina o la fisiologia 2019 è stato assegnato congiuntamente a William G. Kaelin Jr, Sir Peter J. Ratcliffe e Gregg L. Semenza "per le loro scoperte su come le cellule percepiscono e si adattano alla disponibilità di ossigeno". Il premio Nobel per la medicina o la fisiologia 2019 è stato assegnato congiuntamente a William G. Kaelin Jr, Sir Peter J. Ratcliffe e Gregg L. Semenza "per le loro scoperte su come le cellule percepiscono e si adattano alla disponibilità di ossigeno". Sir Peter J. Ratcliffe è nato nel 1954 a Lancashire, nel Regno Unito. Ha studiato medicina all'Università di Cambridge a al St Bartholomew's Hospital di Londra. Ha iniziato la sua carriera di ricercatore all'Università di Oxford nel 1978 studiando l'ossigena- zione renale. Ma è a partire dal 1989 presso il Wellcome Trust che i suoi studi si sono focalizzati sui meccanismi cellulari di rilevazione dell'ossigeno e in particolare sul ruolo dell'eritropoietina. Dopo aver lavorato per diversi istituti di ricerca britannici, dal 2016 è diventato direttore della ricerca clinica presso il Francis Crick Institute. Gregg Semenza è nato nel 1956 a New York, negli Stati Uniti. Ha studiato medicina alla Harvard University e all'Università della Pennsulvania, conseguendo il PhD nel 1984. Attualmente è professore della Johns Hopkins University di Baltimore, nel Maryland. William Kaelin, Jr. è nato a New York nel 1957. Si è laureato alla Duke University nel 1982, dedicandosi poi all'oncologia presso la Johns Hopkins e il Dana-Faber Cancer Institute di Boston. Attualmente è professore alla Harvard University e al Dana-Faber Cancer Institute.© The Nobel Committee for Physiology or Medicine. Ill. Mattias KarlénL'ossigeno è fondamentale per la vita. Se non fosse stato ampiamente disponibile nell'atmosfera terrestre, non sarebbe stata possibile l'evoluzione delle grandissima parte degli animali. Questo perché le cellule hanno bisogno di ossigeno per sfruttare l'energia contenuta negli alimenti, grazie all'azione di appositi organelli, i mitocondri. Ma questo è solo un piccolo pezzo di un complesso macchinario biologico che permette a tutti i tessuti del corpo di usufruire dell'ossigeno che respiriamo e di far fronte anche alla sua scarsità. Si tratta di adattamenti fisiologici di base, come l'aumento del ritmo respiratorio mentre facciamo uno sforzo, o molto più sottili, come la formazione dei vasi sanguigni e della placenta. L'importanza di comprendere questi meccanismi anche per la salute umana è stata sottolineata più volte nel corso dei decenni dal Karolinska Institutet, che ha attribuito il premio Nobel nel 1931 a Otto Warburg per aver scoperto le basi della respirazione cellulare e nel 1938 a Corneille Heymans per aver scoperto i recettori situati nella carotidi che regolano il ritmo della respirazione in funzione della disponibilità di ossigeno. In questo lungo filone di ricerca s'inseriscono i premi Nobel di quest'anno. A partire dalla fine degli anni ottanta, Gregg Semenza ha avuto un ruolo di pioniere negli studi su un meccanismo fondamentale di adattamento alla mancanza di ossigeno basato sull'aumento dei livelli di eritropoietina (EPO): questo ormone innesca un incremento dei livelli di globuli rossi, le cellule del sangue addette al trasporto dell'ossigeno. Studiando i topi, Semenza ha scoperto in particolare che la regola- zione del gene che codifica per l'EPO si deve a specifici tratti di DNA vicini a questo gene. A quel punto si doveva capire dove venisse percepita dall'organismo la mancanza di ossigeno che controlla la regolazione del gene per l'EPO. Il gruppo di Semenza e quello di Peter Ratcliffe hanno scoperto contemporaneamente che questo avviene in tutti i tessuti, non solo nei reni, dove è normalmente prodotto l'ormone EPO. Per approfondire la questione, Semenza ha cercato di scovare i meccanismi molecolari che mediano la risposta alla mancanza di ossigeno in cellule di fegato in coltura. Nel 1991 ha così scoperto ha un complesso proteico che si lega, con un meccanismo che dipende dall'ossigeno, ai tratti di DNA precedentemente identificati: il complesso proteico è stato chiamato fattore indotto dall'ipossia (hypoxia-inducible factor, HIF). Nel 1995, Semenza ha pubblicato diversi risultati chiave, compresa l'identificazione dei geni che codificano per HIF e di due proteine contenute in HIF in grado di legarsi al DNA, i cosiddetti fattori di trascrizione, denominati HIF-1α e ARNT. Un meccanismo fondamentale per il metabolismo prevede che i livelli di HIF-1α nelle cellule si abbassino quando il livello di ossigeno è alto, e viceversa aumentino quando l'ossigeno scarseggia. Quando i livelli di ossigeno sono bassi (ipossia), l a proteina HIF-1α è protetta dalla degradazione e si accumula nel nucleo, dove si associa all'ARNT e si lega a specifiche sequenze di DNA (HRE) nei geni regolati dall'ipossia (1). Ai normali livelli di ossigeno, HIF-1α viene rapidamente degradata dal proteasoma (2). L'ossigeno regola il processo di degradazione aggiungendo gruppi ossidrilici (OH) all'HIF-1α (3). La proteina VHL può quindi riconoscere e formare un complesso con HIF-1α che porta alla sua degra- dazione in modo dipendente dall'ossigeno. (© The Nobel Committee for Physiology or Medicine. Ill. Mattias Karlén)Un impulso inatteso alle ricerche sugli adattamenti fisiologici alla mancanza di ossigeno è arrivato dagli studi nel campo dell'oncologia effettuati dal terzo premiato di quest'anno, William Kaelin, Jr. Fin dal 1992, Kaelin si è dedicato a una sindrome ereditaria: la malattia di Von Hippel-Lindau (VHL), caratterizzata da una predisposzione a diversi tipi di cancro. Kaelin ha scoperto che questa predisposizione dipende da un gene, chiamato anch'esso VHL, che codifica per una proteina che protegge dal cancro. È per questo che se il gene è mutato in una famiglia, si evidenzia un alto tasso di tumori. Non solo: Kaelin ha scoperto anche che in cellule tumorali con un gene VHL non funzionante, i geni regolati dalla mancanza di ossigeno erano espressi in modo superiore alla norma. Tutti questi risultati hanno poi trovato un quadro coerente con una scoperta di Ratcliffe: VHL ha un'importante interazione con la proteina HIF-1α e con i meccanismi che la degradano quando i livelli di ossigeno sono normali. Nel 2001, infine, i gruppi di Ratcliffe e quello di Kaelin hanno scoperto le modifiche chimiche che avvengono in posizioni specifiche della struttura di HIF-1α che spiegano in che modo questa proteina viene rapidamente degradata grazie a enzimi sensibili all'ossigeno, chiamati prolil idrossilasi. Tutte le scoperte dei tre premiati di quest'anno costituiscono le basi di molte delle conoscenze sul ruolo dell'ossigeno e sugli adattamenti fisiologici alla sua mancanza. Conoscenze che potrebbero avere importanti ricadute in futuro anche per lo sviluppo di nuovi farmaci e terapie in grado di influenzare questo complesso macchinario biologico. |
Post n°2539 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Il mondo non è pronto per una pandemia Se scoppiasse un'epidemia globale i morti potrebbero essere molte decine di milioni, e ci sarebbero pesanti conseguenze per l'economia mondiale - che porterebbero ad altri morti ancora.Pandemic è un gioco cooperativolo scopo è debellare quattro malattie potenzialmente letali che imperversano in altrettante regioni della Terra, trovando la giusta modalità di collaborazione tra i giocatori. O si vince tutti o è la fine, quasi come nella realtà - che però non è un gioco.|DAN GUEST / SHUTTERSTOCKUn virus sconosciuto, simile all'influenza spagnola del s ecolo scorso, che si propaga in tutto il mondo per via aerea nel giro di 36 ore, seminando il panico e uccidendo 80 milioni di persone... Non è il trailer di un film apocalittico, ma uno scenario possibile, prospettato dalGlobal Preparedness Monitoring Board (GPMB), una commissione indipendente di quindici esperti internazionali convocata da OMS eBanca Mondiale. Sarebbe una catastrofe anche sul fronte dell'economia: le conseguenze si farebbero sentire anche sul PIL globale, che potrebbe calare anche di 5 punti percentuali, innescando un'altra catena di eventi che porterebbe altre morti, forse a milioni. Insomma, sembra che siamo totalmente impreparati a gestire una pandemia. A World at Risk: la copertina del rapporto del Global Preparedness Monitoring Board. SCENARIO POSSIBILE. Aumento del numero di conflitti regionali, migrazione, crisi climatica, urbanizzazione, sistemi sanitari inadeguati: sono tutti fattori che contribuiscono a creare un terreno fertile per la diffusione transnazionale di epidemie (ossia pandemie). Secondo Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro della Norvegia e copresidente della GPMB, è inutile farsi prendere dal panico a ogni annuncio di una nuova epidemia per poi dimenticarsi del problema una volta passato: «È il momento di agire», afferma, «bisogna aumentare i fondi delle comunità, a livello nazionale e internazionale, per predisporre misure di difesa sanitaria che permettano di contenere e disinnescare minacce di questo genere». La GPMB riconosce che qualche progresso è stato fatto, con 59 paesi che si sono dotati di un piano nazionale di sicurezza sanitaria, ma - si sottolinea - nessuno di questi è stato totalmente finanziato.
LE OMBRE DELL'OCCIDENTE. La recente epidemia di Ebola in Congo è un esempio di come la mancanza di un rapporto di fiducia tra comunità, autorità e operatori delle missioni internazionali possa avere conseguenze gravi: «La fiducia della comunità va conquistata con il tempo, non all'ultimo momento per fare fronte a un'emergenza. Le autorità devono esserci prima, durante e dopo», afferma Elhadj As Sy, segretario generale della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC). Al contrario, un esempio virtuoso viene dall'Uganda, dove le autorità politiche e sanitarie hanno lavorato insieme per fare fronte all'emergenza Ebola, consolidando la fiducia della popolazione nel loro operato e riducendo così il contagio a qualche caso isolato. Per l'epidemia di influenza spagnola che si è trasformata in pandemia nel biennio 1918-19 si sono stimati 25 milioni di morti nel mondo. Nella foto: al Walter Reed Army Medical Center (Washington) i contagiati erano stipati dappertutto. | EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK NATURALI E NON. Il rapporto del GPMB considera diverse tipologie di minacce, come lemalattie emergenti e quelleriemergenti (ossia che riappaiono dopo essere state date per vinte). Molte sono già tristemente note: Ebola, Escherichia coliO104:H4 (che nel 2011 causò un'epidemia in Europa), lamalattia di Creutzfeldt-Jakob(CJD), l'encefalopatia spongiforme bovina (il cosiddetto morbo Alle minacce naturali, si aggiungono poi quelle che possono essere scatenate dall'uomo come armi batteriologiche - come l'antrace, un'infezione causata dal batterioBacillus Anthracis, o altri agenti creati o modificati per essere armi genetiche. Probabilmente non saremo mai per davvero "pronti" a guardare in faccia senza paura un'epidemia che improvvisamente si trasforma in pandemia viaggiando a cavallo di aerei e navi, souvenir, prodotti tipici, banconote, strette di mano... Tuttavia, la comprensione del problema è già di per sé uno strumento utile per focalizzare la nostra attenzione sulla strada da seguire, che per alcune potenziali minacce deve necessariamente passare dal rafforzamento dell'educazione sanitaria nei Paesi dove la povertà la fa da padrone. Mentre per altre potenziali minacce, meno naturali, occorre invece arrivare alla condivisione di unsolido codice etico che aiuti gli scienziati, i governanti e l'industria dei Paesi più sviluppati a scegliere tra che cosa è lecito fare e che cosa no. 03 OTTOBRE 2019 | CHIARA GUZZONATO |
Post n°2538 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Saturno ha 20 nuove lune, arriva a 82 e supera GioveIl gigante del Sistema Solare ne ha 79 Redazione ANSA 08 ottobre 201916:26 Rappresentazione artistica di Saturno con alcune delle sue lune (fonte: NASA/JPL/Space Science Institute) - RIPRODUZIONE RISERVATA Saturno ha 20 nuove lune. Con questa scoperta, verificata dal Minor Planet Center dell'Unione Astronomica Internazionale, il pianeta degli anelli ha complessivamente 82 lune e supera il record di Giove, che di lune ne ha 79. Il risultato si deve al gruppo della Carnegie Institution for Science di Washington guidato da Scott Sheppard. Lo stesso centro di ricerca ha indetto un concorso online per dare un nome ai nuovi satelliti naturali di Saturno. Le nuove lune hanno il diametro di circa cinque chilometri e 17 di esse orbitano in senso opposto rispetto alla rotazione del pianeta sul proprio asse, ossia hanno un'orbita retrograda, e una di esse è la luna più lontana mai vista intorno a Saturno. Le altre tre nuove lune orbitano nella stessa direzione di Saturno. Le orbite delle 20 nuove Lune di Saturno (fonte: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute) La scoperta è stata possibile grazie al telescopio Subaru che fa parte dell'Osservatorio di Mauna Kea alle Hawaii. "Utilizzando alcuni dei più grandi telescopi del mondo, stiamo completando l'inventario delle piccole lune attorno ai pianeti giganti", ha detto Sheppard. Queste lune, ha aggiunto, "hanno un ruolo cruciale nell'aiutarci a determinare come si sono formati e si sono evoluti i pianeti del Sistema Solare". Studiarne le orbite, ha spiegato l'esperto, "può rivelare le loro origini, nonché informazioni sulle condizioni che circondavano Saturno al momento della sua formazione". Le orbite delle nuove lune di Saturno hanno permesso di escoprire, per esempio, che due fra quelle che orbitano nella stessa direzione del pianeta fanno parte di un gruppo di lune esterne chiamato Inuit, che potrebbero essere i frammenti di una luna più grande che in passato è stata frantumata da una collisione. Allo stesso modo, le lune retrograde appena scoperte hanno inclinazioni simili ad altre lune con orbite analoghe, indicando che sono probabilmente anch'esse i frammenti di una luna madre. "Questo tipo di raggruppamento di lune esterne - ha rilevato Sheppard - indica che si sono verificate violente collisioni tra le lune di Saturno o tra le lune e oggetti arrivati dall'esterno come asteroidi o comete" |
Post n°2537 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
27 giugno 2019 di Shannon Hall/Scientific American La superficie di Europa in un'immagine ripresa dalla sonda Galileo negli anni novanta (NASA/JPL-Caltech/SETI Institute) Proprio come i mari della Terra, l'oceano al di sotto della superficie ghiacciata di questo satellite di Giove contiene cloruro di sodio, il componente principale del sale da cucina. Ma sarà nella quantità giusta per sostenere lo sviluppo della vita?Il mare che si agita sotto la superficie ghiacciata della luna gioviana Europa è potenzialmente il miglior incubatore di vita extraterrestre nel nostro sistema solare. Però è nascosto sotto il gelido guscio esterno del satellite e quindi rappresenta una sfida per gli astrobiologi, ai quali piacerebbe tanto scrutarne l'interno. Per fortuna, possono averne almeno un assaggio dando un'occhiata alla superficie del corpo celeste. E i risultati sono salati. Uno studio pubblicato su "Science Advances" nei giorni scorsi ipotizza infatti l'esistenza di cloruro di sodio (sale da cucina) sulla superficie di Europa. Poiché l'esterno del satellite è formato in massima parte da acqua marina congelata, la scoperta suggerisce che il mare nascosto di Europa sia ricco di sale, un fatto cruciale, che pone specifici vincoli alle possibilità di vita su quel mondo alieno. Il mare liquido che ribolle sotto i ghiacci di Europa Certo, gli scienziati non hanno assaggiato un pezzetto di quella luna lontana. Per analizzare la composizione di Europa, gli astronomi studiano la luce emanata dalla sua superficie e la scompongono in spettri simili ad arcobaleni, alla ricerca di qualsiasi riga di assorbi- mento o di emissione che ne riveli la composizione chimica. C'è solo un problema: il normale sale da cucina è bianco e quindi produce uno spettro privo di elementi distintivi. Tuttavia, le intense radiazioni che raggiungono la superficie di Europa, possono aggiungere un tocco di colore, come hanno ipotizzato nel 2015 due planetologi della NASA, Kevin Hand e Robert Carlson in uno studio nel quale sostenevano che la sostanza giallo-brunastra osservata su Europa potesse essere sale da cucina "cotto" dalle radiazioni. Prove di laboratorioPer arrivare a quella conclusione, Hand e Carlson avevano ricreato le condizioni di Europa all'interno di camere sottovuoto, o per usare le parole di Hand, "lucidi oggetti di acciaio inossidabile che ronzano e sibilano". Dopo avervi inserito del sale da cucina, hanno abbassato pressione e temperatura per simulare la superficie di Europa, e quindi bombardato i campioni di sale con un cannone elettronico per ricreare le forti radiazioni. I molti elettroni rimasti catturati negli spazi vuoti all'interno della struttura cristallina, hanno conferito al sale un colore giallo-brunastro che ricordava da vicino quello del materiale misterioso che riempie le fessure e le fratture di cui è ricoperta la superficie di Europa. Ma una corrispondenza di colore non è una dimostrazione; la prova poteva arrivare invece da elementi di rilievo nell'analisi spettroscopica , in particolare sotto forma di una riga di assorbi- mento a 450 nanometri nella porzione visibile dello spettro elettromagnetico. "Uno dei risultati di questa irradiazione è che può aiutare a rendere visibile ciò che prima era invisibile", afferma Hand. Così, Samantha Trumbo, dottoranda al California Institute of Technology, il suo relatore Michael Brown, e Hand (che oggi lavora anche lui al Caltech) hanno rivolto il telescopio spaziale Hubble verso il lontano satellite, cercando proprio quella traccia distintiva. E dopo quattro osservazioni, condotte tra maggio e agosto 2017, l'hanno trovata. La superficie di Europa è colpita da radiazioni che "cucinano" il sale (NASA/JPL-Caltech)" La corrispondenza tra i dati di laboratorio e quelli del telescopio è stata una cosa bellissima", racconta Hand. Dimostra che la superficie di Europa è davvero ricoperta di cloruro di sodio, almeno in una zona chiamata Tara Regio, dove si trovano ghiacci nuovi che si ritiene siano emersi dall'oceano in epoca piuttosto recente. "Se qualcuno leccasse la superficie di Europa, almeno in quel punto, la sentirebbe salata", afferma Trumbo.. Reggie Hudson, astrochimico al Cosmic Ice Laboratory del Goddard Space Flight Center della NASA, che non ha collaborato allo studio, è colpito dall'immagine d'insieme e afferma: "È una bella sintesi di lavoro in laboratorio, dati provenienti da Hubble, chimica delle radiazioni e planetologia". Per anni gli astronomi hanno sostenuto che sulla superficie di Europa fosse prevalente un altro tipo di sale, il solfato di magnesio: l'ipotesi era che l'oceano nascosto della luna gioviana fosse simile a un bagno in cui sia stato disciolto del sale inglese. Invece il nuovo studio suggerisce che sia più simile ad acqua di rubinetto con l'aggiunta di sale da cucina, come la soluzione che alcuni preparano per curare il mal di gola o quella che si trova negli oceani terrestri. "È davvero un cambiamento rispetto a quello che abbiamo creduto negli ultimi vent'anni circa", afferma Trumbo. "Se questo cloruro di sodio [...] è davvero rap- presentativo della composizione dell'oceano, allora l'oceano sarebbe, almeno a livello salino, più simile a ciò che vediamo sulla Terra". Questo potrebbe aumentare le possibilità che la vita vi abbia origine e si evolva. Ciò nonostante, i ricercatori non sono ancora in grado di affermare quanto sale sia presente sotto il ghiaccio. Alla fine, i mari di Europa potrebbero rivelarsi troppo salati perché vi possa esistere la vita come la conosciamo noi D'altra parte una soluzione più adeguata di sale e acqua potrebbe permettere alla vita di fiorire, soprattutto se quell'oceano fosse attivo quanto il nostro. Sulla Terra, attorno alle bocche idrotermali sottomarine (sorgenti che emettono acqua ad altissime temperature sui fondali marini) l'acqua viene trascinata dentro il fondale marino, per poi essere espulsa di nuovo attraverso quelle stesse bocche. Nel corso di questo processo il magnesio rimane intrappolato nelle rocce, mentre il sodio e il cloro sfuggono. In teoria, la superficie coperta di sale da cucina di Europa potrebbe suggerire l'esistenza di un ciclo simile nei mari del satellite e persino indicare la presenza di bocche idrotermali; è una prospettiva allettante, dato che sulla Terra le zone delle sorgenti sottomarine di solito pullulano di vita. Però sia Hand che Hudson mettono in guardia da un salto logico così audace. "Non sono convinto al 100 per cento che il cloruro di sodio sulla superficie di Europa significhi che c'è un'attività idrotermale nelle profondità, ma le due cose non si escludono a vicenda", afferma Hudson. un buon posto da studiare con la missione Europa Clipper della NASA, una sonda il cui lancio è previsto negli anni venti di questo secolo e che orbiterà attorno a Giove, passando accanto a Europa 45 volte. Trumbo, in particolare, vorrebbe cercare tracce organiche che potrebbero essere arrivate in superficie assieme al sale. E forse i ricercatori potrebbero avvicinarsi ab- bastanza alla superficie di Europa da assaggiarla (da remoto) per mezzo di un lander robotico. "Avendo studiato la chimica della superficie di Europa da circa vent'anni, devo ammettere che non c'è niente di meglio di un lander per un incontro ravvicinato", afferma Hudson. Un'opinione condivisa anche da Hand. "È un ottimo lavoro, ma dubito che sia la parola definitiva in proposito", commenta Hudson. "Come gran parte della buona ricerca scientifica, non chiude una porta, ma la apre per gli studi futuri."
articolo è stato pubblicato su "Scientific American " il 12 giugno 2019. Traduzione di Francesca Bernardis, editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°2536 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Svolta a sinistra per le lumache CRISPR di Anna Meldolesi/CRISPerMANIA Un gruppo di ricerca giapponese ha spento un gene chiave in lumache degli stagni, facendo nascere piccoli con conchiglia avvi- tata a sinistra da madri con conchiglia avvitata a destra e rendendo la caratteristica ereditabile È un piccolo passo per una lumaca, ma un grande passo per la biologia. Il codice molecolare dell'orientamento delle conchiglie è stato finalmente decifrato con l'aiuto di CRISPR. L'editing genetico, dunque, ci avvicina alla soluzione di una delle questioni più affascinanti con cui i naturalisti si confrontano da secoli: capire perché la vita predilige un verso tra destra e sinistra. conchiglia sinistrorsa di Turbinellain mano, per esempio, è perché gli esemplari con avvitamento a sinistra sono molto rari e ricercati in questa specie. In generale, come ha raccontato Stephen Jay Gould, i gasteropodi sono per lo più orientati a destra, tanto che Aristotele riteneva i sinistrorsi "impossibili". Chissà che direbbe ora il grande biologo evoluzionista, se sapesse che il gruppo di Reiko Kuroda ha saputo trasformare l'eccezione nella regola, lavorando con la lumaca degli stagni Lymnaea stagnalis. La chimica della Tokyo University of Science e i suoi collaboratori hanno spento un gene chiave, facendo nascere piccoli di sinistra da madri di destra e rendendo la caratteristica ereditabile. sulla rivista "Development", i ricercatori si erano muniti di pazienza, incrociando le lumache come Mendel aveva fatto con i piselli. È così che è stato identificato un gene candidato, dettoLsdia1. Proprio questo è diventato il bersaglio contro cui il gruppo giapponese ha diretto le forbici molecolari di CRISPR per la dimostrazione finale. I neogenitori solitamente si commuovono sentendosi dire "è una femmina" o "è un maschio". Per Kuroda e il suo collega Masanori Abe, il fatidico annuncio è stato invece: "Sono sinistrorsi". "Development", la scienziata ha ricordato il momento della schiusa: "Mi sono resa conto che le conchiglie erano avvitate a sinistra! I neonati non mostravano altre anomalie oltre a questa inversione e si muovevano vigorosamente sulla piastra Petri". La rottura della simmetria negli embrioni è precocissima, riconoscibile sin dallo stadio a singola cellula. Poi il ribaltamento si manifesta a livello intercellulare, a partire dalla terza divisione, e porta all'espressione asimmetrica di altri geni detti nodal e Pitx, che sono noti per il loro ruolo nella chiralità dei vertebrati. Infine i destini cellulari si specializzano allo stadio di 24 cellule e il gioco è fatto. meccanismi differenti, riteniamo probabile che esista una via comune, conservata nel corso dell'evoluzione", ha dichiarato la scienziata annunciando di voler proseguire gli esperimenti per chiarire i dettagli molecolari. Allevare i molluschi mutanti e incrociarli non è semplice, ma editare per la prima volta il DNA di Lymnaea stagnalis è stato abbastanza facile. chiromorfologi ma anche i neurobiologi: le lumache hanno un sistema nervoso semplice e sono usate comunemente per studiare i meccanismi di apprendimento e memoria, c'è da scommettere dunque che anche questo filone di ricerca si avvarrà presto del contributo di CRISPR. Le lumache vanno proverbialmente piano, ma l'editing corre. blog CRISPerMANIA il 28 maggio 2019. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°2535 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
10 luglio 2019 La longevità è scritta nei telomeri i telomeri (Science Photo Library / AGF) una correlazione tra la longevità media degli individui e la rapidità con cui si accorciano le estremità dei cromosomi La longevità è scritta nel DNA. Non nei geni come si potrebbe pensare, anche se essi hanno un'influenza fondamentale nel determinare la salute dell'individuo, ma nelle estremità dei cromosomi che non codificano per proteine, i telomeri, e più precisamente nella rapidità con cui si accorciano nei ripetuti cicli di replicazione cellulare. È quanto emerge da uno studio pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" da Maria A. Blasco, e colleghi dell'Università di Barcellona, che hanno analizzato diverse specie di animali. I telomeri sono le parti terminali dei cromosomi e sono costituiti dalla ripetizione continua di brevi sequenze di nucleotidi, le unità di base del DNA. Nel caso dei telomeri umani, per esempio, la sequenza che si ripete, per un numero di volte variabile tra 100 e 1000, è formata da sei nucleotidi: TTAGGG (dove T, A e G indicano rispettivamente le basi timina, adenina e guanina). I telomeri hanno la funzione di proteggere i geni dall'erosione, che si verifica nei cicli di replicazione del DNA. C'è anche un meccanismo basato sull'azione dell'enzima telomerasi, che compensa l'accorciamento progressivo dei telomeri, ag- giungendo nuove sequenze ripetute. La telomerasi però è attiva solo nelle cellule germinali (spermatozoi e cellule uovo), nelle cellule staminali e in modo patologico nelle cellule tumorali, non quindi nelle cellule somatiche, che costituiscono quasi del tutto un organismo. Nella maggior parte degli organismi pluricellulari, in sostanza, i telomeri vanno via via accorciandosi nel corso della vita, per questo in passato si è i potizzato che la loro lunghezza fosse correlata alla l ongevità, ma finora, come sottolineano gli autori, non era stata stabilita la validità universale di questa ipotesi per le specie. Blasco e colleghi hanno misurato la lunghezza dei telomeri in diverse specie di uccelli e mammiferi, con un'ampia gamma di dimensioni corporee e di longevità, tra cui topo comune (Mus musculus), capra (Capra hircus), gabbiano corso (Larus audouinii), renna (Rangifer tarandus), grifone (Gyps fulvus), delfino tursiope (Tursiops truncatus), fenicottero (Phoenicopterus ruber) ed elefante di Sumatra (Elephas maximus sumatranus). I ricercatori hanno poi confrontato i dati raccolti con la lunghezza media della vita delle stesse specie, scoprendo che quest'ultima è correlata non con la lunghezza dei telomeri, ma con la rapidità con cui essi si accorciano nell'arco della vita: più è rapido l'accorciamento, minore è la longevità. mento dei telomeri e il conseguente danno al DNA a determinare la senescenza delle cellule e quindi la longevità dell'individuo. |
Post n°2534 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Sequenziato per la prima volta l'intero genoma del drago di Komodo Fonte: Università di Padova Drago di Komodo Ricostruita la storia evolutiva della più grande lucertola vivente al mondo. Su "Nature Ecology & Evolution" studio internazionale realizzato con il contributo delle Università di Firenze e di Padova Sopporta la fatica quasi fosse un mammifero, ha un olfatto migliore di qualsiasi altro rettile e una saliva velenosa che lo colloca non troppo distante dai serpenti. Sono queste alcune delle evidenze che hanno trovato riscontro nel sequenziamento e nell'analisi dell'intero genoma del drago di Komodo, la più grande lucertola al mondo confinata su cinque isole del sudest indonesiano. L'identikit del DNA del super rettile - in età adulta può raggiun- gere una lunghezza di 3 metri e un peso di oltre ottanta chilogrammi - è stato ricostruito per la prima volta da un team internazionale di ricercatori del quale hanno fatto parte Claudio Ciofi, Alessio Iannucci. Renato Fani, Marco Fondi, e Valerio Orlandini dell'Università di Firenze, Tomaso Patarnello e Massimo Milan dell'Università di Padova. I risultati del lavoro, coordinato dall'Università della California (Stati Uniti), sono stati pubblicati sulla rivista scientifica "Nature Ecology & Evolution" ed evidenziano i possibili adattamenti genomici di questo rettile assimilabile nell'immaginario a un drago per taglia e aggressività. il sequenziamento e la mappatura ottica del genoma di singole molecole di DNA con l'utilizzo di citometria a flusso, una tecnica che consente la separazione e il successivo sequenzia- mento dei singoli cromosomi. "Siamo arrivati così a produrre un genoma ad alta definizione e a identificare alcune caratteristiche fisiologiche e metaboliche molto peculiari per un rettile - spiega Ciofi - il DNA ha rivelato l'elevata resistenza aerobica dei varani di Komodo, oltre a carat- teristiche del metabolismo e della fisiologia cardiovascolare che spiegano la capacità di sostenere sforzi fisici prolungati, rispetto agli altri rettili, nella caccia alle prede o nei combattimenti tra maschi durante il periodo dell'accoppiamento". Un altro aspetto emerso dallo studio riguarda l'evoluzione, in termini genetici, di alcuni recettori degli organi vomeronasali (legati all'olfatto). "Un processo che è iniziato 5 milioni di anni fa - aggiunge Ciofi - e permette oggi ai varani di localizzare prede e carcasse, e altri varani, di sesso opposto, a diversi chilometri di distanza". una saliva con proprietà anticoagulanti che ne rendono il morso micidiale per la cattura delle prede. Ciò nonostante, sembra che i varani stessi siano immuni dagli effetti della propria saliva, un fenomeno documentato durante gli scontri tra maschi, e questo probabilmente proprio grazie alle pressioni selettive che abbiamo individuato durante il nostro lavoro". |
Post n°2533 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Spazio, caccia agli esopianeti: arriva un "Espresso" dal Ci Paranal (askanews) - La caccia ai pianeti rocciosi extrasolari entra in una nuova avanzatissima fase grazie a uno strumento innovativo che promette rivelazioni sensazionali. Si chiama "Espresso" acronimo inglese che sta per Spettrografo echelle per osservazioni di esopianeti rocciosi e spettroscopia ad alta preci- sione ed è installato sul telescopio Vlt dell'Eso, all'Osservatorio del Paranal, nel Cile settentrionale. "Espresso" è uno spettrografo di terza generazione e sarà il successore dello strumento Harps dell'Eso installato all'Osservatorio di La Silla e, il 27 novembre 2017, ha già visto la sua prima luce. Secondo gli esperti, il salto in avanti rispetto al predecessore è enorme, con una precisione di appena pochi centimetri al secondo. Per la prima volta in assoluto, "Espresso" sarà in grado di combinare la luce di tutti e quattro i telescopi principali del telescopio cileno, raggiungendo il potere di raccolta della luce equivalente a quella di un singolo telescopio da 16 metri di diametro. Il progetto vede un importante contributo italiano attraverso l'Istituto Nazionale di Astrofisica. "'Espresso' è uno strumento fuori dal comune - ha spiegato Filippo Maria Zerbi, direttore scientifico dell'Inaf - e fuori dal comune è stata la sfida decennale per concepirlo, realizzarlo e portarlo pienamente funzionale al telescopio". Il nuovo spettrografo rivela minuscoli cambiamenti nello spettro della stella dovuti al movimento del pianeta che le orbita intorno. Questo metodo, detto delle velocità radiali, funziona perché l'attrazione gravitazionale del pianeta influenza la stella madre, facendola oscillare leggermente. Meno massiccio è il pianeta e più piccola è l'oscilla- zione: di conseguenza, per trovare pianeti rocciosi, che abbiano anche la possibilità di ospitare la vita, è necessario uno strumento di altissima precisione. Con questo metodo, "Espresso" sarà in grado di rivelare alcuni dei pianeti più leggeri mai trovati. |
Post n°2532 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Quel disco che non t'aspetti attorno al buco nero Un tenue disco di materia attorno al buco nero supermassiccio della galassia Ngc 3147 è stato scoperto da Stefano Bianchi della Università Roma Tre insieme, tra gli altri, a colleghi dell'Istituto Nazionale di Astrofisica e dell'Agenzia Spaziale Italiana, grazie alle osservazioni del telescopio spaziale Hubble. Un tenue disco di materia è stato individuato dove non avrebbe dovuto esserci, ovvero attorno al buco nero supermassiccio nel centro della poco luminosa galassia NGC 3147, distante 130 milioni di anni luce da noi. A scoprirlo è stato un team internazionale di ricercatori guidato da Stefano Bianchi, dell'Università degli Studi Roma Tre e a cui hanno partecipato anche colleghe e colleghi dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell'Agenzia Spaziale Italiana (ASI), grazie alle riprese del telescopio spaziale Hubble di NASA ed ESA. Il lavoro che descrive la scoperta viene pubblicato oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. di una galassia a bassa luminosità come NGC 3147 ha sorpreso gli astronomi. I buchi neri in certi tipi di galassie come NGC 3147 sono infatti considerati "affamati", in quanto attorno a loro non vi è sufficiente materiale catturato gravitazionalmente che possano ingurgitare e grazie al quale sono in grado di emettere enormi quantità di energia, sotto forma di getti e radiazione elettromagnetica, come la luce, ma anche più energetica, fino ai raggi X e gamma. La tenue struttura individuata nel cuore della galassia NGC 3147, che può essere considerata a tutti gli effetti una copia sbiadita dei luminosi dischi attorno ai buchi neri centrali delle galassie attive, è una novità assoluta per chi studia questi oggetti celesti estremi. "Questo è il primo, affascinante sguardo che abbiamo ottenuto di un disco così debole, tanto vicino al buco nero che le velocità della materia che lo compone e l'eccezionale forza di attrazione gravitazionale del buco nero che orbita influenzano notevolmente il modo in cui vediamo la luce emessa da questo sistema finora unico nel suo genere" dice Stefano Bianchi, che è anche ricercatore associato all'INAF. materia, radiazione elettromagnetica e gravità nel cuore di NGC 3147 è di estremo interesse per testare le teorie della relatività di Albert Einstein, come conferma Marco Chiaberge, In forza all'STScI e alla Johns Hopkins University, anche lui nel team che ha realizzato la scoperta: "non avevamo mai visto gli effetti della Relatività generale e speciale sulla luce visibile con un'accuratezza simile". Spectrograph) di Hubble hanno permesso di raccogliere preziose informazioni sulla velocità con cui ruota la materia del disco attorno al buco nero, pari a oltre il 10 per cento di quella della luce. Con questi valori così estremi, il gas sembra risultare più brillante mentre si sposta verso la Terra e al contrario perde luminosità mentre si allontana da noi. Questo effetto è noto come Doppler boosting o relativistic beaming. Le osservazioni di Hubble mostrano inoltre che la materia del disco è così profondamente dominata dalla forza di gravità del buco nero, la cui massa stimata è di 250 milioni di volte quella del Sole, che anche la luce prodotta dal gas che lo compone fa fatica a sfuggirgli, e ci arriva con lunghezze d'onda grandi e ci appare più arrossata. "Grazie agli effetti di distorsione della luce proveniente dal disco di gas siamo riusciti a misurare la sua distanza dal buco nero, che corrisponde a 30 miliardi di km, pari a circa 6 volte la distanza tra il Sole e Nettuno" aggiunge Andrea Marinucci, ricercatore dell'ASI, che ha partecipato allo studio. 3147 proprio per verificare gli attuali modelli teorici che descrivono le proprietà delle galassie attive con bassa luminosità, ovvero quelle che ospitano nel loro centro buchi neri di grande massa ma "affamati". Questi modelli suggeriscono che i dischi di materiale dovrebbero formarsi quando grandi quantità di gas vengono catturate dalla formidabile attrazione gravitazionale prodotta da un buco nero supermassiccio, emettendo così una enorme quantità di luce, come un potentissimo faro: quello che gli astronomi chiamano quasar. ci aspettavamo potesse esistere", sottolinea Alessandro Capetti dell'INAF a Torino, anch'egli nel team di Bianchi. "È lo stesso tipo di disco che vediamo negli oggetti che sono 1000 o anche 100.000 volte più luminosi. È quindi evidente che le previsioni degli attuali modelli per galassie attive molto deboli in questo caso falliscono". |
Post n°2531 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Lo spazio di ieri, oggi e domani Dal 29 giugno, "L'avventura dell'uomo nello spazio", una collana in otto volumi con uscita settimanale, a richiesta con la rivista o altre testate GEDI Ne abbiamo fatta di strada da quel 20 luglio 1969. A voler essere epici, si potrebbe dire che quella prima impronta di un essere umano lasciata sulla Luna rappresenta nella storia della nostra specie qualcosa di simile alla prima uscita dei nostri antenati dal continente africano, la culla dell'umanità, avvenuta circa 70.000 anni fa. Da quel momento in poi abbiamo colonizzato ogni continente della Terra, oggi cerchiamo di spingerci sempre più in profondità nello spazio. Abbiamo costruito una gigantesca casa comune in orbita attorno alla Terra: la Stazione spaziale internazionale. Le sonde robotiche hanno già raggiunto tutti i pianeti del sistema solare, alcune loro lune, asteroidi e una cometa. Le missioni umane invece si sono fermate alla Luna, dove è dal 1972 che non mettiamo più piede. Nel frattempo sono comparsi nuovi protagonisti e obiettivi in quella che sembra essere una nuova corsa allo spazio. Oltre a Stati Uniti e Russia, erede dell'ex Unione Sovietica, oggi Europa, Cina, Giappone e India hanno un ruolo di primaria importanza nella nuova frontiera dell'umanità, che inizia a essere frequen- tata anche da numerose società private. E la colonizzazione di Marte è un traguardo tra i più citati e controversi. Per capire che cosa potrebbe riservarci il futuro e ripercorrere gli eventi che hanno segnato la nostra storia oltre le colonne d'Ercole dell'atmosfera terrestre, tra cui l'impresa di cinquant'anni fa dell'Apollo 11, a partire dal 29 giugno pubblichiamo L'avventura dell'uomo nello spazio. Dalla Luna a Marte, una collana in otto volumi con uscita settimanale, che include anche il racconto dei protagonisti di oggi dell'avventura spaziale. È possibile acquistare ciascun volume con «Le Scienze» o altre testate del gruppo GEDI, a 9,90 euro oltre il prezzo della rivista o della testata. Buona esplorazione! |
Post n°2530 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
La rinascita del tempo A richiesta con «Le Scienze» di luglio il libro di Lee Smolin A volte un attimo può durare un'eternità, ma è vero anche il contrario. Ogni persona ha una propria idea dello scorrere del tempo, che dipende dai contesti, dalle esperienze, dallo stato d'animo. Ma se c'è una caratteristica del tempo che mette tutti d'accordo è la sua esistenza. C'è solo un problema: per molti fisici il tempo non esiste, ma sarebbe una proprietà emergente, ovvero emergerebbe da elementi di base della realtà, qualunque essi siano. Certo, oggi i ricercatori sono in grado di costruire orologi così precisi che per rimettere a posto le loro lancette atomiche bisognerebbe attendere un tempo equivalente all'età del cosmo, ovvero 13,8 miliardi di anni. Eppure, se si considerano le due principali teorie con cui descrivere l'universo in termini scientifici, allora il tempo non ha più importanza. sfuma. Non c'è un singolo momento speciale e tutti i momenti sono ugualmente reali. Non è possibile stabilire un unico parametro temporale - in altre parole un orologio - per descrivere i fenomeni dell'universo alle grandi scale: sistemi planetari, galassie, ammassi di galassie e via dicendo. Lo stesso problema del tempo compare nella meccanica quantistica, che descrive la realtà alla scala atomica e subatomica, in particolare nel cosiddetto modello standard. Questo insieme di equazioni che descrive le particelle elementari da cui è composta la materia e le forze fondamentali che agiscono tra di esse, è quasi del tutto reversibile rispetto al tempo. Per inciso, tornando per un attimo alla scala macroscopica del mondo, anche le leggi sulla dinamica dei corpi elaborate da Isaac Newton nel XVII secolo sono indifferenti alla direzione presa dal tempo. flusso degli eventi, qual è il senso di parole come «passato», «presente» e «futuro»? Quella della teoria generale della relatività e della meccanica quantistica sembrerebbe una sentenza senza appello. Del resto, anche per filosofi del calibro di Platone ciò che è reale è atemporale. Eppure non tutti gli scienziati si arrendono. Come Lee Smolin, autore di La rinascita del tempo, il libro allegato a richiesta con «Le Scienze» di luglio. Fisico teorico statunitense, membro tra l'altro del Perimeter Institute for Theoretical Physics in Canada, Smolin si occupa anche della natura del tempo, e in questo libro propone di rimetterlo al centro della descrizione scientifica della realtà. Secondo l'autore sarà un passaggio necessario per colmare le lacune di relatività generale e meccanica quantistica nel tratteggiare lo scenario cosmico. Ancora nessuno sa come andrà finire. Ironicamente, sarà necessario del tempo prima che la disputa sulla sua realtà giunga a una conclusione definitiva. |
Post n°2529 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
La relatività generale supera un'altra prova Nuovo test superato per Einstein: il redshift - cioè lo spostamento verso il rosso - gravita- zionale della luce di una stella che orbita intorno al buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea è quello previsto dalla sua teoria Cento anni e gode ancora di ottima salute. La teoria generale della relatività di Einstein, pubblicata nel 1916, è stata verificata sperimental- mente con grande successo nel corso dei decenni, e non accenna a vacillare. sulla rivista "Science" da Tuan Do, dell'Università della California a Los Angels (UCLA) e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale, l'ha messa a dura prova grazie all'osservazione di una stella che orbita intorno al buco nero supermassiccio che si trova al centro della Via Lattea. E' lì infatti che si può osservare all'opera l'intera- zione fondamentale tra luce e forza gravitazionale, una delle previsioni più originali e inattese della teoria della relatività. Nella sua formulazione generale, la teoria non è altro che una formulazione moderna di quella della gravitazionale universale. Essa prevede che le tre dimensioni spaziali e la dimensione temporale formino un continuo quadri- dimensionale, lo spazio-tempo, che viene deformato, o meglio curvato, dalle masse propor- zionalmente alla loro entità. Questa curvatura, a sua volta, influenza i corpi dotati di massa, facendoli attrarre tra di loro. peculiare è il redshift - cioè lo spostamento verso il rosso - gravitazionale. Questo è un allungamento della lunghezza d'onda della radiazione, che così appare spostata verso la parte rossa dello spettro, quando è emessa da una sorgente posta in un campo gravitazionale molto intenso e osservata da un punto in cui il campo è meno intenso. L'effetto si combina con un altro contributo all'effetto Doppler, dovuto al rapido movimento orbitale della stella. Un secolo di relatività... sperimentale!di Emiliano Ricci L'effetto è particolarmente evidente nel caso della stella S0-2, che orbita, con un periodo di 16 anni circa, intorno al buco nero super- massiccio - dotato di una massa di circa quattro milioni di volte quella del Sole - che si trova al centro della nostra galassia. Usando agli strumenti dell'Osservatorio Keck, nelle Hawaii, Do e colleghi hanno raccolto lo spettro della radiazione emessa da S0-2, map- pando il suo moto orbitale in tre dimensioni e con una precisione senza precedenti e combi- nando i dati ottenuti con quelli raccolti negli ultimi 24 anni di osservazioni. Conclusione: il redshift presente nei dati spet- trografici è compatibile con le previsioni della relatività generale. "Stiamo imparando come funziona la gravità: è una delle quattro forze fondamentali e quella che abbiamo testato meno", ha commen- tato Andrea Ghez, professore di fisica e astronomia dell'UCLA e coautore dello studio. "Ci sono molte regioni in cui non ci siamo ancora chiesti: 'Come funziona la gravità qui?'". I dati in realtà erano già disponibili l'anno scorso, ma gli autori hanno controllato con cura la loro analisi. "È facile essere troppo sicuri di sé e ci sono molti modi per interpretare erroneamente i dati, molti modi in cui piccoli errori possono accumularsi in errori significativi, motivo per cui non abbiamo affrettato la nostra analisi", ha aggiunto Ghez. "I risultati hanno un profondo impatto sulla nostra comprensione dell'esistenza dei buchi neri supermassicci e dell'astrofisica dei buchi neri". |
Post n°2528 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Il collasso diretto dei buchi neri supermassicci Scott Woods, Western University) Questi oggetti estremi del cosmo erano presenti già nell'epoca primordiale dell'universo: per spiegarne l'origine, un nuovo modello prevede che si siano formati con un processo molto rapido, e non dal collasso di stelle Non c'è bisogno di una stella che collassa per avere un buco nero supermassiccio. E questo spiega perché questo tipo di oggetti potevano essere presenti anche nell'epoca primordiale dell'universo. Lo afferma un nuovo studio pubblicato sulle "Astrophysical Journal Letters" da Shantanu Basu e Arpan Das della University of Western Ontario, in Canada. caratterizzata da una massa molto elevata, che arriva a milioni o miliardi di volte la massa del Sole. Malgrado le loro caratteri- stiche estreme però non sono oggetti rari: si stima che ogni galassia o quasi ospiti nel proprio nucleo un buco nero supermassiccio. Sulla loro origine non c'è accordo tra gli astrofisici. Una prima ipotesi è che derivino dall'accrescimento di buchi neri di dimensioni normali, che a loro volta sono l'esito ultimo del collasso di stelle giunte al termine del loro ciclo vitale. Quando infatti le reazioni di fusione nucleare all'interno della stella hanno trasformato quasi tutto l'idrogeno in elio, la pressione di radiazione verso l'esterno non è più in grado di contrastare la forza gravitazionale che agisce in senso opposto, e tutta la massa tende a concentrarsi nel nucleo. si formino in seguito al collasso di particolari tipologie di stelle o di ammassi stellari. argomento si è arricchito di numerose osservazioni di buchi neri supermassicci estremamente lontani, che ci appaiono quindi com'erano poche centinaia di milioni di anni dopo l'origine dell'universo. Ciò depone a favore di una formazione molto rapida e diretta di questi oggetti. modello di formazione dei buchi neri supermassicci basato su un'idea di base molto semplice: la loro origine è un collasso molto rapido. breve per formarsi e crescere, e a un certo punto la loro produzione nell'universo è cessata", ha spiegato Basu. "È questo lo scenario del collasso diretto". osservazioni e i dati sperimentali dei buchi neri supermassicci già presenti in un'epoca primordiale dell'universo sono compatibili con un accrescimento esponenziale del buco nero, che inizia la sua vita con una massa compresa tra 10.000 e 100.000 masse solari. (red) |
Post n°2527 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli
Così i buchi neri forgiano le galassie Fonte: INAF/Università di Tor Vergata Rappresentazione artistica di un outflow prodotto da un buco nero supermassiccio. (ESA/ATG medialab) Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale per raggi X XMM-Newton dell'ESA, un team di scienziati guidato da Roberto Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica ha mostrato come i buchi neri supermassicci modellino le loro galassie ospiti con venti potenti che spazzano via la materia interstellare rallentando il ritmo di formazione di nuove stelle Otto anni di osservazioni condotte con XMM-Newton sul buco nero che si trova nel cuore della galassia attiva PG 1114+445 hanno consentito di mostrare come i venti ultraveloci - outflows (deflussi) di gas emessi dal disco di accrescimento, nella regione prossima al buco nero stesso - interagiscano con la materia interstellare vicino al centro della galassia. Questi outflows erano già stati individuati in precedenza, ma il nuovo studio identifica chiaramente, per la prima volta, tre fasi della loro interazione con la galassia ospite. zioni note da anni ma che gli scienziati ancora non sono riusciti a giustificare», dice il primo autore dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics, Roberto Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica di Milano, che ha condotto la maggior parte della ricerca durante il suo dottorato all'Università degli Studi di Roma Tor Vergata. «Osserviamo, per esempio, una correlazione tra le masse di buchi neri supermassicci e la dispersione di velocità delle stelle presenti nelle regioni interne delle galassie ospiti. Questo però non può essere dovuto all'attrazione gravitazionale del buco nero, a causa dell'elevata distanza del gas dallo stesso. Il nostro studio, per la prima volta, mostra come i venti del buco nero abbiano sulla galassia un impatto su una scala più grande, fornendo probabilmente il collegamento mancante». Già gli astronomi avevano identificato due tipi di outflows negli spettri a raggi X emessi dai nuclei galattici attivi, le dense regioni centrali delle galassie con buchi neri supermassicci al centro. I cosiddetti outflows ultraveloci (UFO, ultra-fast outflow), fatti di gas altamente ionizzato, viaggiano a velocità che possono raggiungere il 40 per cento di quella della luce, e si osservano in prossimità del buco nero centrale. Gli outflows più lenti, chiamati anche "assorbitori tiepidi" (warm absorbers), viaggiano invece a velocità assai più basse, nell'ordine delle centinaia di km/s, e mostrano caratteristiche fisiche - come la densità delle particelle, o la loro ionizzazione - simili a quelle della materia interstellare circostante. Questi outflows più lenti hanno una probabilità più elevata di essere rilevati a distanze maggiori dal centro della galassia. di outflow che combina le caratteristiche dei due precedenti: la velocità di un UFO e le proprietà fisiche di un assorbitore tiepido. «Riteniamo che si tratti della zona in cui l'UFO entra in contatto la materia interstellare e la trascina via come fosse uno spazzaneve», spiega Serafinelli. «È ciò che chiamiamo un outflows ultraveloce "trascinato", perché l'UFO, in questa fase, sta penetrando nella materia interstellare. Un po' come il vento quando sospinge la vela di una barca». da decine a centinaia di anni luce. L'UFO sospinge gradualmente la materia interstellare allontanandola dalle regioni centrali della galassia, liberando queste zone dal gas e rallentando così l'accrescimento della materia attorno al buco nero supermassic- cio. Un processo, questo, già previsto dai modelli, ma mai prima d'ora osservato nelle sue tre fasi. distanze dal centro della galassia - materia ancora indisturbata dall'UFO proveniente dell'interno», osserva Francesco Tombesi, dell'Università di Roma Tor Vergata e del Goddard Space Flight Center della NASA, secondo autore dello studio. «Possiamo vedere anche nubi di gas a minor distanza dal buco nero, vicino al nucleo della galassia, dove l'UFO ha iniziato a interagire con la materia interstellare». che avviene a parecchi anni di distanza da quando l'UFO ha lasciato il buco nero. Ma l'energia dell'UFO consente al buco nero - un oggetto relativamente piccolo rispetto alla galassia - di estendere la sua influenza su materia che si trova ben oltre la portata della sua forza gravitazionale. supermassicci trasferiscono la loro energia nell'ambiente circostante, spazzando via gradualmente il gas dalle regioni centrali della galassia, che potrebbe quindi arrestare la forma- zione stellare. E, in effetti, oggi le galassie producono stelle a un ritmo assai inferiore rispetto a quanto non facessero nelle prime fasi della loro evoluzione. vengono rivelati», ricorda Serafinelli. «Dunque è tutta scienza nuovissima. Le fasi dell'outflows erano state osservate in precedenza, ma separatamente: questa è la prima volta in cui si riesce a chiarire come siano collegate l'un l'altra». outflows è la risoluzione energetica senza precedenti di XMM- Newton. In futuro, con nuovi e più potenti osservatori come Athena, l'Advanced Telescope for High ENergy Astrophysics dell'ESA, gli astronomi saranno in grado di osservare centinaia di migliaia di buchi neri supermassicci, rilevando gli outflows con grande facilità. Cento volte più sensibile di XMM-Newton, Athena dovrebbe essere lanciato nel 2030. scoprire che questo fenomeno è comune nell'universo», dice Norbert Schartel, project scientist di XMM-Newton all'ESA. «Anche con XMM-Newton, nel prossimo decennio, potremmo essere in grado di trovare altre sorgenti come questa». comprendere in dettaglio le complesse interazioni tra i buchi neri supermassicci e le loro galassie ospiti, e a capire le ragioni della riduzione - nel corso di miliardi di anni - del tasso di formazione stellare osservata dagli astronomi |
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