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Messaggi del 02/03/2020

Sui Nobel per la medicina

Post n°2540 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

07 ottobre 2019

Il Nobel per la medicina ai sensori cellulari

per l'ossigenoIl premio Nobel per la medicina

o la fisiologia 2019 è stato assegnato

congiuntamente a William G. Kaelin Jr, Sir Peter J.

Ratcliffe e Gregg L. Semenza "per le loro

scoperte su come le cellule percepiscono e

si adattano alla disponibilità di ossigeno".

Il premio Nobel per la medicina o la fisiologia

2019 è stato assegnato congiuntamente a

William G. Kaelin Jr, Sir Peter J. Ratcliffe e

Gregg L. Semenza "per le loro scoperte su come

le cellule percepiscono e si adattano alla

disponibilità di ossigeno".

Sir Peter J. Ratcliffe è nato nel 1954 a Lancashire,

nel Regno Unito.

Ha studiato medicina all'Università di Cambridge

a al St Bartholomew's Hospital di Londra.

Ha iniziato la sua carriera di ricercatore

all'Università di Oxford nel 1978 studiando l'ossigena-

zione renale. Ma è a partire dal 1989 presso il

Wellcome Trust che i suoi studi si sono focalizzati

sui meccanismi cellulari di rilevazione dell'ossigeno

e in particolare sul ruolo dell'eritropoietina.

Dopo aver lavorato per diversi istituti di ricerca

britannici, dal 2016 è diventato direttore della ricerca

clinica presso il Francis Crick Institute. Gregg

Semenza è nato nel 1956 a New York, negli Stati

Uniti.

Ha studiato medicina alla Harvard University e

all'Università della Pennsulvania, conseguendo

il PhD nel 1984. Attualmente è professore della

Johns Hopkins University di Baltimore, nel Maryland. 

William Kaelin, Jr. è nato a New York nel 1957.

Si è laureato alla Duke University nel 1982,

dedicandosi poi all'oncologia presso la Johns

Hopkins e il Dana-Faber Cancer Institute di Boston.

Attualmente è professore alla Harvard University

e al Dana-Faber Cancer Institute.© The Nobel

Committee for Physiology or Medicine.

Ill. Mattias KarlénL'ossigeno è fondamentale

per la vita.

Se non fosse stato ampiamente disponibile

nell'atmosfera terrestre, non sarebbe stata

possibile l'evoluzione delle grandissima parte

degli animali.

Questo perché le cellule hanno bisogno di

ossigeno per sfruttare l'energia contenuta negli

alimenti, grazie all'azione di appositi organelli,

i mitocondri.

Ma questo è solo un piccolo pezzo di un complesso

macchinario biologico che permette a tutti i tessuti

del corpo di usufruire dell'ossigeno che respiriamo

e di far fronte anche alla sua scarsità.

Si tratta di adattamenti fisiologici di base, come

l'aumento del ritmo respiratorio mentre facciamo

uno sforzo, o molto più sottili, come la formazione

dei vasi sanguigni e della placenta. 

L'importanza di comprendere questi meccanismi

anche per la salute umana è stata sottolineata

più volte nel corso dei decenni dal Karolinska

Institutet, che ha attribuito il premio Nobel nel

1931 a Otto Warburg per aver scoperto le basi

della respirazione cellulare e nel 1938 a Corneille

Heymans per aver scoperto i recettori situati

nella carotidi che regolano il ritmo della respirazione

in funzione della disponibilità di ossigeno.

In questo lungo filone di ricerca s'inseriscono

i premi Nobel di quest'anno. 

A partire dalla fine degli anni ottanta, Gregg

Semenza ha avuto un ruolo di pioniere negli

studi su un meccanismo fondamentale di

adattamento alla mancanza di ossigeno basato

sull'aumento dei livelli di eritropoietina (EPO):

questo ormone innesca un incremento dei livelli

di globuli rossi, le cellule del sangue addette al

trasporto dell'ossigeno. Studiando i topi,

Semenza ha scoperto in particolare che la regola-

zione del gene che codifica per l'EPO si deve a

specifici tratti di DNA vicini a questo gene.

 A quel punto si doveva capire dove venisse

percepita dall'organismo la mancanza di ossigeno

che controlla la regolazione del gene per l'EPO.

Il gruppo di Semenza e quello di Peter Ratcliffe

hanno scoperto contemporaneamente che

questo avviene in tutti i tessuti, non solo nei

reni, dove è normalmente prodotto l'ormone

EPO. 

Per approfondire la questione, Semenza ha

cercato di scovare i meccanismi molecolari che

mediano la risposta alla mancanza di ossigeno

in cellule di fegato in coltura. Nel 1991 ha così

scoperto ha un complesso proteico che si lega,

con un meccanismo che dipende dall'ossigeno,

ai tratti di DNA precedentemente identificati:

il complesso proteico è stato chiamato fattore

indotto dall'ipossia (hypoxia-inducible factor, HIF).

Nel 1995, Semenza ha pubblicato diversi risultati

chiave, compresa l'identificazione dei geni che

codificano per HIF e di due proteine contenute

in HIF in grado di legarsi al DNA, i cosiddetti

fattori di trascrizione, denominati HIF-1α e

ARNT.

Un meccanismo fondamentale per il metabolismo

prevede che i livelli di HIF-1α nelle cellule si

abbassino quando il livello di ossigeno è alto,

e viceversa aumentino quando l'ossigeno

scarseggia.

Quando i livelli di ossigeno sono bassi (ipossia), l

a proteina HIF-1α è protetta dalla degradazione

e si accumula nel nucleo, dove si associa all'ARNT

e si lega a specifiche sequenze di DNA (HRE) nei

geni regolati dall'ipossia (1). Ai normali livelli di

ossigeno, HIF-1α viene rapidamente degradata dal

proteasoma (2). L'ossigeno regola il processo di

degradazione aggiungendo gruppi ossidrilici

(OH) all'HIF-1α (3).

La proteina VHL può quindi riconoscere e formare

un complesso con HIF-1α che porta alla sua degra-

dazione in modo dipendente dall'ossigeno.

(© The Nobel Committee for Physiology or Medicine.

Ill. Mattias Karlén)Un impulso inatteso alle ricerche

sugli adattamenti fisiologici alla mancanza di

ossigeno è arrivato dagli studi nel campo

dell'oncologia effettuati dal terzo premiato di

quest'anno, William Kaelin, Jr. Fin dal 1992, Kaelin

si è dedicato a una sindrome ereditaria: la malattia

di Von Hippel-Lindau (VHL), caratterizzata da una

predisposzione a diversi tipi di cancro. Kaelin ha

scoperto che questa predisposizione dipende da

un gene, chiamato anch'esso VHL, che codifica per

una proteina che protegge dal cancro.

È per questo che se il gene è mutato in una famiglia,

si evidenzia un alto tasso di tumori. Non solo: Kaelin

ha scoperto anche che in cellule tumorali con un

gene VHL non funzionante, i geni regolati dalla

mancanza di ossigeno erano espressi in modo

superiore alla norma.

 Tutti questi risultati hanno poi trovato un quadro

coerente con una scoperta di Ratcliffe: VHL ha

un'importante interazione con la proteina HIF-1α e

con i meccanismi che la degradano quando i livelli

di ossigeno sono normali.

 Nel 2001, infine, i gruppi di Ratcliffe e quello di Kaelin

hanno scoperto le modifiche chimiche che avvengono

in posizioni specifiche della struttura di HIF-1α

che spiegano in che modo questa proteina viene

rapidamente degradata grazie a enzimi sensibili

all'ossigeno, chiamati prolil idrossilasi. 

Tutte le scoperte dei tre premiati di quest'anno

costituiscono le basi di molte delle conoscenze sul

ruolo dell'ossigeno e sugli adattamenti fisiologici alla

sua mancanza.

Conoscenze che potrebbero avere importanti

ricadute in futuro anche per lo sviluppo di nuovi

farmaci e terapie in grado di influenzare questo

complesso macchinario biologico.

 
 
 

Le pandemie

Post n°2539 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Il mondo non è pronto per una pandemia

Se scoppiasse un'epidemia globale i morti potrebbero essere molte decine di milioni, e ci sarebbero pesanti conseguenze per l'economia mondiale - che porterebbero ad altri morti ancora.Pandemic è un gioco cooperativolo scopo è debellare quattro malattie potenzialmente letali che imperversano in altrettante regioni della Terra, trovando la giusta modalità di collaborazione tra i giocatori. O si vince tutti o è la fine, quasi come nella realtà - che però non è un gioco.|DAN GUEST / SHUTTERSTOCK

Un virus sconosciuto, simile all'influenza spagnola del s

ecolo scorso, che si propaga in tutto il mondo per via aerea

nel giro di 36 ore, seminando il panico e uccidendo 80 milioni

di persone... Non è il trailer di un film apocalittico, ma uno

scenario possibile, prospettato dalGlobal Preparedness

Monitoring Board (GPMB), una commissione indipendente

di quindici esperti internazionali convocata da OMS eBanca

Mondiale. Sarebbe una catastrofe anche sul fronte dell'economia:

le conseguenze si farebbero sentire anche sul PIL globale,

che potrebbe calare anche di 5 punti percentuali, innescando

un'altra catena di eventi che porterebbe altre morti, forse

a milioni. Insomma, sembra che siamo totalmente impreparati

a gestire una pandemia.

A World at Risk: la copertina del rapporto del Global Preparedness

Monitoring Board.

SCENARIO POSSIBILE.

Aumento del numero di conflitti regionali, migrazione, crisi

climatica, urbanizzazione, sistemi sanitari inadeguati: sono tutti

fattori che contribuiscono a creare un terreno fertile per la

diffusione transnazionale di epidemie (ossia pandemie).

Secondo Gro Harlem Brundtland, ex primo ministro della Norvegia

e copresidente della GPMB, è inutile farsi prendere dal panico a

ogni annuncio di una nuova epidemia per poi dimenticarsi del

problema una volta passato: «È il momento di agire», afferma,

«bisogna aumentare i fondi delle comunità, a livello nazionale

e internazionale, per predisporre misure di difesa sanitaria che

permettano di contenere e disinnescare minacce di questo genere».

La GPMB riconosce che qualche progresso è stato fatto, con 59

paesi che si sono dotati di un piano nazionale di sicurezza

sanitaria, ma - si sottolinea - nessuno di questi è stato

totalmente finanziato.



LE OMBRE DELL'OCCIDENTE. 

La recente epidemia di Ebola in Congo è un esempio di come la

mancanza di un rapporto di fiducia tra comunità, autorità e

operatori delle missioni internazionali possa avere conseguenze

gravi: «La fiducia della comunità va conquistata con il tempo,

non all'ultimo momento per fare fronte a un'emergenza.

Le autorità devono esserci prima, durante e dopo», afferma Elhadj

As Sy, segretario generale della Federazione internazionale delle

società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC). Al contrario,

un esempio virtuoso viene dall'Uganda, dove le autorità politiche

e sanitarie hanno lavorato insieme per fare fronte all'emergenza

Ebola, consolidando la fiducia della popolazione nel loro

operato e riducendo così il contagio a qualche caso isolato.

Per l'epidemia di influenza spagnola che si è trasformata in

pandemia nel biennio 1918-19 si sono stimati 25 milioni di

morti nel mondo. Nella foto: al Walter Reed Army Medical

Center (Washington) i contagiati erano stipati dappertutto. |

EVERETT HISTORICAL / SHUTTERSTOCK

NATURALI E NON. Il rapporto del GPMB considera diverse

tipologie di minacce, come lemalattie emergenti e quelleriemergenti

 (ossia che riappaiono dopo essere state date per vinte).

Molte sono già tristemente note: Ebola, 

Escherichia coliO104:H4 (che nel 2011 causò un'epidemia in Europa),

lamalattia di Creutzfeldt-Jakob(CJD),

l'encefalopatia spongiforme bovina (il cosiddetto morbo

della mucca pazza).

Alle minacce naturali, si aggiungono poi quelle che possono essere

scatenate dall'uomo come armi batteriologiche - come l'antrace,

un'infezione causata dal batterioBacillus Anthracis, o altri agenti

creati o modificati per essere armi genetiche.

Probabilmente non saremo mai per davvero "pronti" a guardare

in faccia senza paura un'epidemia che improvvisamente si

trasforma in pandemia viaggiando a cavallo di aerei e navi, souvenir,

prodotti tipici, banconote, strette di mano...

Tuttavia, la comprensione del problema è già di per sé uno strumento

utile per focalizzare la nostra attenzione sulla strada da seguire, che

per alcune potenziali minacce deve necessariamente passare dal

rafforzamento dell'educazione sanitaria nei Paesi dove la povertà

la fa da padrone.

Mentre per altre potenziali minacce, meno naturali, occorre invece

arrivare alla condivisione di unsolido codice etico che aiuti gli scienziati,

i governanti e l'industria dei Paesi più sviluppati a scegliere tra

che cosa è lecito fare e che cosa no.

03 OTTOBRE 2019 | CHIARA GUZZONATO

 
 
 

Saturno e le 20 lune

Post n°2538 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

 

Saturno ha 20 nuove lune, arriva a 82 e supera GioveIl gigante del Sistema Solare ne ha 79

Redazione ANSA  

08 ottobre 201916:26

Rappresentazione artistica di Saturno con alcune delle sue lune

(fonte: NASA/JPL/Space Science Institute) -

RIPRODUZIONE RISERVATA

Saturno ha 20 nuove lune. Con questa scoperta, verificata dal

Minor Planet Center dell'Unione Astronomica Internazionale,

il pianeta degli anelli ha complessivamente 82 lune e supera

il record di Giove, che di lune ne ha 79.

Il risultato si deve al gruppo della Carnegie Institution for

Science di Washington guidato da Scott Sheppard.

Lo stesso centro di ricerca ha indetto un concorso online per

dare un nome ai nuovi satelliti naturali di Saturno.

Le nuove lune hanno il diametro di circa cinque chilometri e

17 di esse orbitano in senso opposto rispetto alla rotazione

del pianeta sul proprio asse, ossia hanno un'orbita retrograda,

e una di esse è la luna più lontana mai vista intorno a Saturno.

Le altre tre nuove lune orbitano nella stessa direzione di

Saturno.

Le orbite delle 20 nuove Lune di Saturno

(fonte: NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute)

La scoperta è stata possibile grazie al telescopio Subaru

che fa parte dell'Osservatorio di Mauna Kea alle Hawaii.

"Utilizzando alcuni dei più grandi telescopi del mondo,

stiamo completando l'inventario delle piccole lune attorno

ai pianeti giganti", ha detto Sheppard. Queste lune, ha

aggiunto, "hanno un ruolo cruciale nell'aiutarci a determinare

come si sono formati e si sono evoluti i pianeti del Sistema

Solare". Studiarne le orbite, ha spiegato l'esperto,

"può rivelare le loro origini, nonché informazioni sulle

condizioni che circondavano Saturno al momento della

sua formazione".

Le orbite delle nuove lune di Saturno hanno permesso di

escoprire, per esempio, che due fra quelle che orbitano nella

stessa direzione del pianeta fanno parte di un gruppo di lune

esterne chiamato Inuit, che potrebbero essere i frammenti

di una luna più grande che in passato è stata frantumata da

una collisione.

Allo stesso modo, le lune retrograde appena scoperte hanno

inclinazioni simili ad altre lune con orbite analoghe, indicando

che sono probabilmente anch'esse i frammenti di una luna madre.

"Questo tipo di raggruppamento di lune esterne - ha rilevato

Sheppard - indica che si sono verificate violente collisioni tra

le lune di Saturno o tra le lune e oggetti arrivati dall'esterno

come asteroidi o comete"

 
 
 

Su Europa

Post n°2537 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

27 giugno 2019


Acqua su Europa, con un pizzico di sale

di Shannon Hall/Scientific American

La superficie di Europa in un'immagine

ripresa dalla sonda Galileo negli anni

novanta (NASA/JPL-Caltech/SETI Institute)

 Proprio come i mari della Terra, l'oceano al

di sotto della superficie ghiacciata di questo

satellite di Giove contiene cloruro di sodio,

il componente principale del sale da cucina.

Ma sarà nella quantità giusta per sostenere

lo sviluppo della vita?Il mare che si agita

sotto la superficie ghiacciata della luna

gioviana Europa è potenzialmente il miglior

incubatore di vita extraterrestre nel nostro

sistema solare.

Però è nascosto sotto il gelido guscio esterno

del satellite e quindi rappresenta una sfida per

gli astrobiologi, ai quali piacerebbe tanto scrutarne

l'interno. Per fortuna, possono averne almeno un

assaggio dando un'occhiata alla superficie del

corpo celeste. E i risultati sono salati.

Uno studio pubblicato su "Science Advances"

nei giorni scorsi ipotizza infatti l'esistenza di

cloruro di sodio (sale da cucina) sulla superficie

di Europa.

Poiché l'esterno del satellite è formato in massima

parte da acqua marina congelata, la scoperta

suggerisce che il mare nascosto di Europa sia

ricco di sale, un fatto cruciale, che pone specifici

vincoli alle possibilità di vita su quel mondo alieno.

Il mare liquido che ribolle sotto i ghiacci di Europa

Certo, gli scienziati non hanno assaggiato un

pezzetto di quella luna lontana.

Per analizzare la composizione di Europa, gli

astronomi studiano la luce emanata dalla sua

superficie e la scompongono in spettri simili ad

arcobaleni, alla ricerca di qualsiasi riga di assorbi-

mento o di emissione che ne riveli la composizione

chimica.

C'è solo un problema: il normale sale da cucina è

bianco e quindi produce uno spettro privo di

elementi distintivi.

Tuttavia, le intense radiazioni che raggiungono

la superficie di Europa, possono aggiungere un

tocco di colore, come hanno ipotizzato nel 2015

due planetologi della NASA, Kevin Hand e Robert

Carlson in uno studio nel quale sostenevano

che la sostanza giallo-brunastra osservata su

Europa potesse essere sale da cucina "cotto"

dalle radiazioni.

Prove di laboratorioPer arrivare a quella

conclusione, Hand e Carlson avevano ricreato le

condizioni di Europa all'interno di camere

sottovuoto, o per usare le parole di Hand, "lucidi

oggetti di acciaio inossidabile che ronzano e

sibilano".

Dopo avervi inserito del sale da cucina, hanno

abbassato pressione e temperatura per simulare

la superficie di Europa, e quindi bombardato i

campioni di sale con un cannone elettronico per

ricreare le forti radiazioni.

I molti elettroni rimasti catturati negli spazi

vuoti all'interno della struttura cristallina, hanno

conferito al sale un colore giallo-brunastro che

ricordava da vicino quello del materiale misterioso

che riempie le fessure e le fratture di cui è 

ricoperta la superficie di Europa.

Ma una corrispondenza di colore non è una

dimostrazione; la prova poteva arrivare invece

da elementi di rilievo nell'analisi spettroscopica

, in particolare sotto forma di una riga di assorbi-

mento a 450 nanometri nella porzione visibile

dello spettro elettromagnetico.

"Uno dei risultati di questa irradiazione è che può

aiutare a rendere visibile ciò che prima era

invisibile", afferma Hand.

Così, Samantha Trumbo, dottoranda al California

Institute of Technology, il suo relatore Michael

Brown, e Hand (che oggi lavora anche lui al Caltech)

hanno rivolto il telescopio spaziale Hubble verso

il lontano satellite, cercando proprio quella traccia

distintiva.

E dopo quattro osservazioni, condotte tra maggio

e agosto 2017, l'hanno trovata.

La superficie di Europa è colpita da radiazioni che

"cucinano" il sale (NASA/JPL-Caltech)"

La corrispondenza tra i dati di laboratorio e quelli

del telescopio è stata una cosa bellissima", racconta

Hand.

Dimostra che la superficie di Europa è davvero

ricoperta di cloruro di sodio, almeno in una zona

chiamata Tara Regio, dove si trovano ghiacci

nuovi che si ritiene siano emersi dall'oceano in

epoca piuttosto recente. "Se qualcuno leccasse

la superficie di Europa, almeno in quel punto,

la sentirebbe salata", afferma Trumbo..

Reggie Hudson, astrochimico al Cosmic Ice

Laboratory del Goddard Space Flight Center

della NASA, che non ha collaborato allo studio,

è colpito dall'immagine d'insieme e afferma:

"È una bella sintesi di lavoro in laboratorio, dati

provenienti da Hubble, chimica delle radiazioni

e planetologia".

Per anni gli astronomi hanno sostenuto che

sulla superficie di Europa fosse prevalente un

altro tipo di sale, il solfato di magnesio: l'ipotesi

era che l'oceano nascosto della luna gioviana fosse

simile a un bagno in cui sia stato disciolto del sale

inglese.

Invece il nuovo studio suggerisce che sia più

simile ad acqua di rubinetto con l'aggiunta di 

sale da cucina, come la soluzione che alcuni

preparano per curare il mal di gola o quella che

si trova negli oceani terrestri.

"È davvero un cambiamento rispetto a quello che

abbiamo creduto negli ultimi vent'anni circa", afferma

Trumbo.

"Se questo cloruro di sodio [...] è davvero rap-

presentativo della composizione dell'oceano,

allora l'oceano sarebbe, almeno a livello salino,

più simile a ciò che vediamo sulla Terra".

Questo potrebbe aumentare le possibilità che

la vita vi abbia origine e si evolva.

Ciò nonostante, i ricercatori non sono ancora in

grado di affermare quanto sale sia presente

sotto il ghiaccio.

Alla fine, i mari di Europa potrebbero rivelarsi

troppo salati perché vi possa esistere la vita

come la conosciamo noi D'altra parte una soluzione

più adeguata di sale e acqua potrebbe permettere

alla vita di fiorire, soprattutto se quell'oceano

fosse attivo quanto il nostro.

Sulla Terra, attorno alle bocche idrotermali

sottomarine (sorgenti che emettono acqua

ad altissime temperature sui fondali marini) l'acqua

viene trascinata dentro il fondale marino, per poi

essere espulsa di nuovo attraverso quelle stesse

bocche.

Nel corso di questo processo il magnesio rimane

intrappolato nelle rocce, mentre il sodio e il cloro

sfuggono.

In teoria, la superficie coperta di sale da cucina

di Europa potrebbe suggerire l'esistenza di un

ciclo simile nei mari del satellite e persino indicare

la presenza di bocche idrotermali; è una prospettiva

allettante, dato che sulla Terra le zone delle sorgenti

sottomarine di solito pullulano di vita. Però sia Hand

che Hudson mettono in guardia da un salto logico

così audace. "Non sono convinto al 100 per cento

che il cloruro di sodio sulla superficie di Europa

significhi che c'è un'attività idrotermale nelle

profondità, ma le due cose non si escludono a

vicenda", afferma Hudson.
Se non altro, la scoperta dimostra che Tara Regio è

un buon posto da studiare con la missione Europa

Clipper della NASA, una sonda il cui lancio è

previsto negli anni venti di questo secolo e che

orbiterà attorno a Giove, passando accanto a

Europa 45 volte.

Trumbo, in particolare, vorrebbe cercare tracce

organiche che potrebbero essere arrivate in

superficie assieme al sale.

E forse i ricercatori potrebbero avvicinarsi ab-

bastanza alla superficie di Europa da assaggiarla

(da remoto) per mezzo di un lander robotico.

"Avendo studiato la chimica della superficie di

Europa da circa vent'anni, devo ammettere che

non c'è niente di meglio di un lander per un

incontro ravvicinato", afferma Hudson.

Un'opinione condivisa anche da Hand.

"È un ottimo lavoro, ma dubito che sia la parola

definitiva in proposito", commenta Hudson.

"Come gran parte della buona ricerca scientifica,

non chiude una porta, ma la apre per gli studi futuri."


(L'originale di questo

articolo è stato pubblicato su "Scientific American

" il 12 giugno 2019. Traduzione di Francesca

Bernardis, editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Sulle lumache CRISP

Post n°2536 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Svolta a sinistra per le lumache CRISPR

di Anna Meldolesi/CRISPerMANIA

Un gruppo di ricerca giapponese ha spento

un gene chiave in lumache degli stagni,

facendo nascere piccoli con conchiglia avvi-

tata a sinistra da madri con conchiglia avvitata

a destra e rendendo la caratteristica ereditabile

È un piccolo passo per una lumaca, ma un

grande passo per la biologia.

Il codice molecolare dell'orientamento delle

conchiglie è stato finalmente decifrato con

l'aiuto di CRISPR.

L'editing genetico, dunque, ci avvicina alla

soluzione di una delle questioni più affascinanti

con cui i naturalisti si confrontano da secoli:

capire perché la vita predilige un verso tra destra

e sinistra.

Se la dea Vishnu viene rappresentata con una

conchiglia sinistrorsa di Turbinellain mano, per

esempio, è perché gli esemplari con avvitamento

a sinistra sono molto rari e ricercati in questa

specie.

In generale, come ha raccontato Stephen Jay

Gould, i gasteropodi sono per lo più orientati

a destra, tanto che Aristotele riteneva i

sinistrorsi "impossibili".

Chissà che direbbe ora il grande biologo evoluzionista,

se sapesse che il gruppo di Reiko Kuroda ha

saputo trasformare l'eccezione nella regola,

lavorando con la lumaca degli stagni Lymnaea

stagnalis. La chimica della Tokyo University of

Science e i suoi collaboratori hanno spento un

gene chiave, facendo nascere piccoli di sinistra

da madri di destra e rendendo la caratteristica

ereditabile.  

Prima dell'esperimento cruciale, pubblicato

sulla rivista "Development", i ricercatori si erano

muniti di pazienza, incrociando le lumache come

Mendel aveva fatto con i piselli.

È così che è stato identificato un gene candidato,

dettoLsdia1. Proprio questo è diventato il bersaglio

contro cui il gruppo giapponese ha diretto le

forbici molecolari di CRISPR per la dimostrazione

finale.

I neogenitori solitamente si commuovono

sentendosi dire "è una femmina" o "è un maschio".

Per Kuroda e il suo collega Masanori Abe, il fatidico

annuncio è stato invece: "Sono sinistrorsi".

Nell'intervista concessa alla stessa rivista

"Development", la scienziata ha ricordato il

momento della schiusa:

"Mi sono resa conto che le conchiglie erano

avvitate a sinistra! I neonati non mostravano

altre anomalie oltre a questa inversione e si

muovevano vigorosamente sulla piastra Petri".

La rottura della simmetria negli embrioni è

precocissima, riconoscibile sin dallo stadio a

singola cellula. Poi il ribaltamento si manifesta

a livello intercellulare, a partire dalla terza

divisione, e porta all'espressione asimmetrica

di altri geni detti nodal e Pitx, che sono noti per

il loro ruolo nella chiralità dei vertebrati.

Infine i destini cellulari si specializzano allo stadio

di 24 cellule e il gioco è fatto.

"Anche se per phyla diversi sono stati proposti

meccanismi differenti, riteniamo probabile che

esista una via comune, conservata nel corso

dell'evoluzione", ha dichiarato la scienziata annunciando

di voler proseguire gli esperimenti per chiarire

i dettagli molecolari.

Allevare i molluschi mutanti e incrociarli non è

semplice, ma editare per la prima volta il DNA di 

Lymnaea stagnalis è stato abbastanza facile.

Una buona notizia, che interessa non solo i

chiromorfologi ma anche i neurobiologi: le

lumache hanno un sistema nervoso semplice e sono

usate comunemente per studiare i meccanismi di

apprendimento e memoria, c'è da scommettere

dunque che anche questo filone di ricerca si avvarrà

presto del contributo di CRISPR. Le lumache vanno

proverbialmente piano, ma l'editing corre.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato nel 

blog CRISPerMANIA il 28 maggio 2019. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Sulla longevità

Post n°2535 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

10 luglio 2019

La longevità è scritta nei telomeri

Illustrazione di un cromosoma con evidenziati

i telomeri (Science Photo Library / AGF) 
In diverse specie di mammiferi e di uccelli c'è

una correlazione tra la longevità media degli

individui e la rapidità con cui si accorciano le

estremità dei cromosomi

La longevità è scritta nel DNA.

Non nei geni come si potrebbe pensare, anche

se essi hanno un'influenza fondamentale nel

determinare la salute dell'individuo, ma nelle

estremità dei cromosomi che non codificano

per proteine, i telomeri, e più precisamente nella

rapidità con cui si accorciano nei ripetuti cicli di

replicazione cellulare. È quanto emerge da uno

studio pubblicato sui "Proceedings of the National

Academy of Sciences" da Maria A. Blasco, e

colleghi dell'Università di Barcellona, che hanno

analizzato diverse specie di animali.

I telomeri sono le parti terminali dei cromosomi e

sono costituiti dalla ripetizione continua di brevi

sequenze di nucleotidi, le unità di base del DNA.

Nel caso dei telomeri umani, per esempio, la sequenza

che si ripete, per un numero di volte variabile tra

100 e 1000, è formata da sei nucleotidi: TTAGGG

(dove T, A e G indicano rispettivamente le basi timina,

adenina e guanina).

I telomeri hanno la funzione di proteggere i geni

dall'erosione, che si verifica nei cicli di replicazione

del DNA. C'è anche un meccanismo basato

sull'azione dell'enzima telomerasi, che compensa

l'accorciamento progressivo dei telomeri, ag-

giungendo nuove sequenze ripetute.

La telomerasi però è attiva solo nelle cellule

germinali (spermatozoi e cellule uovo), nelle cellule

staminali e in modo patologico nelle cellule tumorali,

non quindi nelle cellule somatiche, che costituiscono

quasi del tutto un organismo.

Nella maggior parte degli organismi pluricellulari, in

sostanza, i telomeri vanno via via accorciandosi

nel corso della vita, per questo in passato si è i

potizzato che la loro lunghezza fosse correlata alla l

ongevità, ma finora, come sottolineano gli autori,

non era stata stabilita la validità universale di questa

ipotesi per le specie.

Blasco e colleghi hanno misurato la lunghezza dei

telomeri in diverse specie di uccelli e mammiferi,

con un'ampia gamma di dimensioni corporee e di

longevità, tra cui topo comune (Mus musculus),

capra (Capra hircus),  gabbiano corso (Larus audouinii),

renna (Rangifer tarandus), grifone (Gyps fulvus),

delfino tursiope (Tursiops truncatus), fenicottero

(Phoenicopterus ruber) ed elefante di Sumatra

(Elephas maximus sumatranus). I ricercatori hanno

poi confrontato i dati raccolti con la lunghezza media

della vita delle stesse specie, scoprendo che

quest'ultima è correlata non con la lunghezza dei

telomeri, ma con la rapidità con cui essi si accorciano

nell'arco della vita: più è rapido l'accorciamento,

minore è la longevità.
Il risultato supporta l'idea che sia proprio l'accorcia-

mento dei telomeri e il conseguente danno al DNA a

determinare la senescenza delle cellule e quindi la

longevità dell'individuo. 

 
 
 

Altre news sul DNA....

Post n°2534 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Sequenziato per la prima volta

l'intero genoma del drago di

Komodo

Fonte: Università di Padova

Drago di Komodo 

Ricostruita la storia evolutiva della più grande lucertola

vivente al mondo. Su "Nature Ecology & Evolution" studio

internazionale realizzato con il contributo delle Università

di Firenze e di Padova

Sopporta la fatica quasi fosse un mammifero, ha un olfatto

migliore di qualsiasi altro rettile e una saliva velenosa che lo

colloca non troppo distante dai serpenti.

Sono queste alcune delle evidenze che hanno trovato riscontro

nel sequenziamento e nell'analisi dell'intero genoma del drago

di Komodo, la più grande lucertola al mondo confinata su

cinque isole del sudest indonesiano.

L'identikit del DNA del super rettile - in età adulta può raggiun-

gere una lunghezza di 3 metri e un peso di oltre ottanta chilogrammi

-  è stato ricostruito per la prima volta da un team internazionale

di ricercatori del quale hanno fatto parte Claudio Ciofi, Alessio

Iannucci. Renato Fani, Marco Fondi, e Valerio Orlandini

dell'Università di Firenze, Tomaso Patarnello e Massimo Milan

dell'Università di Padova. I risultati del lavoro, coordinato

dall'Università della California (Stati Uniti), sono stati pubblicati

sulla rivista scientifica "Nature Ecology & Evolution" ed

evidenziano i possibili adattamenti genomici di questo rettile

assimilabile nell'immaginario a un drago per taglia e aggressività.

Il lavoro si distingue per le tecniche d'avanguardia, che integrano

il sequenziamento e la mappatura ottica del genoma di singole

molecole di DNA con l'utilizzo di citometria a flusso, una

tecnica che consente la separazione e il successivo sequenzia-

mento dei singoli cromosomi.

"Siamo arrivati così a produrre un genoma ad alta definizione

e a identificare alcune caratteristiche fisiologiche e metaboliche

molto peculiari per un rettile  - spiega Ciofi - il DNA ha rivelato

l'elevata resistenza aerobica dei varani di Komodo, oltre a carat-

teristiche del metabolismo e della fisiologia cardiovascolare che

spiegano la capacità di sostenere sforzi fisici prolungati, rispetto

agli altri rettili, nella caccia alle prede o nei combattimenti tra

maschi durante il periodo dell'accoppiamento".

Un altro aspetto emerso dallo studio riguarda l'evoluzione, in

termini genetici, di alcuni recettori degli organi vomeronasali

(legati all'olfatto). "Un processo che è iniziato 5 milioni di anni fa

- aggiunge Ciofi - e permette oggi ai varani di localizzare prede e

carcasse, e altri varani, di sesso opposto, a diversi chilometri di

distanza".
 
 "I varani di Komodo - afferma Patarnello - sono caratterizzati da

una saliva con proprietà anticoagulanti che ne rendono il morso

micidiale per la cattura delle prede.

Ciò nonostante, sembra che i varani stessi siano immuni dagli

effetti della propria saliva, un fenomeno documentato durante gli

scontri tra maschi, e questo probabilmente proprio grazie alle

pressioni selettive che abbiamo individuato durante il nostro

lavoro".

 
 
 

Nello spazio...

Post n°2533 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Spazio, caccia agli esopianeti:

arriva un "Espresso" dal Ci

Paranal (askanews) - La caccia ai pianeti rocciosi

extrasolari entra in una nuova avanzatissima

fase grazie a uno strumento innovativo che

promette rivelazioni sensazionali.

Si chiama "Espresso" acronimo inglese che sta

per Spettrografo echelle per osservazioni di

esopianeti rocciosi e spettroscopia ad alta preci-

sione ed è installato sul telescopio Vlt dell'Eso,

all'Osservatorio del Paranal, nel Cile settentrionale.

"Espresso" è uno spettrografo di terza generazione

e sarà il successore dello strumento Harps dell'Eso

installato all'Osservatorio di La Silla e, il 27 novembre

2017, ha già visto la sua prima luce.

Secondo gli esperti, il salto in avanti rispetto al

predecessore è enorme, con una precisione di appena

pochi centimetri al secondo.

Per la prima volta in assoluto, "Espresso" sarà in

grado di combinare la luce di tutti e quattro i telescopi

principali del telescopio cileno, raggiungendo

il potere di raccolta della luce equivalente a

quella di un singolo telescopio da 16 metri di

diametro.

Il progetto vede un importante contributo

italiano attraverso l'Istituto Nazionale di Astrofisica.

"'Espresso' è uno strumento fuori dal comune

- ha spiegato Filippo Maria Zerbi, direttore

scientifico dell'Inaf - e fuori dal comune è stata

la sfida decennale per concepirlo, realizzarlo e

portarlo pienamente funzionale al telescopio".

Il nuovo spettrografo rivela minuscoli cambiamenti

nello spettro della stella dovuti al movimento del

pianeta che le orbita intorno.

Questo metodo, detto delle velocità radiali,

funziona perché l'attrazione gravitazionale del

pianeta influenza la stella madre, facendola

oscillare leggermente.

Meno massiccio è il pianeta e più piccola è l'oscilla-

zione: di conseguenza, per trovare pianeti rocciosi,

che abbiano anche la possibilità di ospitare la vita,

è necessario uno strumento di altissima precisione.

Con questo metodo, "Espresso" sarà in grado di

rivelare alcuni dei pianeti più leggeri mai trovati.

 
 
 

Altra astronomia

Post n°2532 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Quel disco che non t'aspetti

attorno al buco nero

Un tenue disco di materia attorno al buco nero supermassiccio

della galassia Ngc 3147 è stato scoperto da Stefano

Bianchi della Università Roma Tre insieme, tra gli altri,

a colleghi dell'Istituto Nazionale di Astrofisica e

dell'Agenzia

 Spaziale Italiana, grazie alle osservazioni del

telescopio spaziale Hubble.

Un tenue disco di materia è stato individuato dove non avrebbe

dovuto esserci, ovvero attorno al buco nero supermassiccio nel

centro della poco luminosa galassia NGC 3147, distante 130

milioni di anni luce da noi.

A scoprirlo è stato un team internazionale di ricercatori guidato

da Stefano Bianchi, dell'Università degli Studi Roma Tre e a cui

hanno partecipato anche colleghe e colleghi dell'Istituto

Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell'Agenzia Spaziale Italiana

(ASI), grazie alle riprese del telescopio spaziale Hubble di NASA

ed ESA. Il lavoro che descrive la scoperta viene pubblicato

oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical

Society.

La scoperta di un disco di materia attorno al buco nero centrale

di una galassia a bassa luminosità come NGC 3147 ha sorpreso

gli astronomi.

I buchi neri in certi tipi di galassie come NGC 3147 sono infatti

considerati "affamati", in quanto attorno a loro non vi è sufficiente

materiale catturato gravitazionalmente che possano ingurgitare e

grazie al quale sono in grado di emettere enormi quantità di energia,

sotto forma di getti e radiazione elettromagnetica, come la luce,

ma anche più energetica, fino ai raggi X e gamma.

La tenue struttura individuata nel cuore della galassia NGC 3147,

che può essere considerata a tutti gli effetti una copia sbiadita

dei luminosi dischi attorno ai buchi neri centrali delle galassie attive,

è una novità assoluta per chi studia questi oggetti celesti estremi.

"Questo è il primo, affascinante sguardo che abbiamo ottenuto

di un disco così debole, tanto vicino al buco nero che le velocità

della materia che lo compone e l'eccezionale forza di attrazione

gravitazionale del buco nero che orbita influenzano notevolmente

il modo in cui vediamo la luce emessa da questo sistema finora

unico nel suo genere" dice Stefano Bianchi, che è anche ricercatore

associato all'INAF.

Osservare e misurare gli effetti estremi legati all'interazione tra

materia, radiazione elettromagnetica e gravità nel cuore di NGC

3147 è di estremo interesse per testare le teorie della relatività di

Albert Einstein, come conferma Marco Chiaberge, In forza all'STScI

e alla Johns Hopkins University, anche lui nel team che ha

realizzato la scoperta: "non avevamo mai visto gli effetti della

Relatività generale e speciale sulla luce visibile con un'accuratezza

simile".

I dati raccolti dallo strumento STIS (Space Telescope Imaging

Spectrograph) di Hubble hanno permesso di raccogliere preziose

informazioni sulla velocità con cui ruota la materia del disco attorno

al buco nero, pari a oltre il 10 per cento di quella della luce.

Con questi valori così estremi, il gas sembra risultare più brillante

mentre si sposta verso la Terra e al contrario perde luminosità

mentre si allontana da noi.

Questo effetto è noto come Doppler boosting o relativistic beaming.

Le osservazioni di Hubble mostrano inoltre che la materia del disco

è così profondamente dominata dalla forza di gravità del buco nero,

la cui massa stimata è di 250 milioni di volte quella del Sole, che

anche la luce prodotta dal gas che lo compone fa fatica a sfuggirgli,

e ci arriva con lunghezze d'onda grandi e ci appare più arrossata.

"Grazie agli effetti di distorsione della luce proveniente dal disco

di gas siamo riusciti a misurare la sua distanza dal buco nero, che

corrisponde a 30 miliardi di km, pari a circa 6 volte la distanza tra

il Sole e Nettuno" aggiunge Andrea Marinucci, ricercatore dell'ASI,

che ha partecipato allo studio.

Il team ha deciso di studiare in dettaglio il cuore della galassia NGC

3147 proprio per verificare gli attuali modelli teorici che descrivono

le proprietà delle galassie attive con bassa luminosità, ovvero quelle

che ospitano nel loro centro buchi neri di grande massa ma "affamati".

Questi modelli suggeriscono che i dischi di materiale dovrebbero

formarsi quando grandi quantità di gas vengono catturate dalla

formidabile attrazione gravitazionale prodotta da un buco nero

supermassiccio, emettendo così una enorme quantità di luce, come

un potentissimo faro: quello che gli astronomi chiamano quasar.

"Il tipo di disco che vediamo è un quasar ridimensionato che non

ci aspettavamo potesse esistere", sottolinea Alessandro Capetti

dell'INAF a Torino, anch'egli nel team di Bianchi.

"È lo stesso tipo di disco che vediamo negli oggetti che sono 1000 o

anche 100.000 volte più luminosi. È quindi evidente che le previsioni

degli attuali modelli per galassie attive molto deboli in questo caso

falliscono". 

 
 
 

Lo spazio di ieri, oggi e domani

Post n°2531 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet 

Lo spazio di ieri, oggi e domani

Dal 29 giugno, "L'avventura dell'uomo nello

spazio", una collana in otto volumi con uscita

settimanale, a richiesta con la rivista o altre

testate GEDI

Ne abbiamo fatta di strada da quel 20 luglio

1969.

A voler essere epici, si potrebbe dire che quella

prima impronta di un essere umano lasciata

sulla Luna rappresenta nella storia della nostra

specie qualcosa di simile alla prima uscita dei

nostri antenati dal continente africano, la culla

dell'umanità, avvenuta circa 70.000 anni fa.

Da quel momento in poi abbiamo  colonizzato

ogni continente della Terra, oggi cerchiamo di

spingerci sempre più in profondità nello spazio.

Abbiamo costruito una gigantesca casa comune

in orbita attorno alla Terra: la Stazione spaziale

internazionale.

Le sonde robotiche hanno già raggiunto tutti i

pianeti del sistema solare, alcune loro lune,

asteroidi e una cometa.

Le missioni umane invece si sono fermate alla

Luna, dove è dal 1972 che non mettiamo più

piede.

Nel frattempo sono comparsi nuovi protagonisti

e obiettivi in quella che sembra essere una nuova

corsa allo spazio.

Oltre a Stati Uniti e Russia, erede dell'ex Unione

Sovietica, oggi Europa, Cina, Giappone e India

hanno un ruolo di primaria importanza nella nuova

frontiera dell'umanità, che inizia a essere frequen-

tata anche da numerose società private.

E la colonizzazione di Marte è un traguardo tra i

più citati e controversi.

Per capire che cosa potrebbe riservarci il futuro

e ripercorrere gli eventi che hanno segnato la

nostra storia oltre le colonne d'Ercole dell'atmosfera

terrestre, tra cui l'impresa di cinquant'anni fa

dell'Apollo 11, a partire dal 29 giugno pubblichiamo 

L'avventura dell'uomo nello spazio. Dalla Luna a Marte,

una collana in otto volumi con uscita settimanale,

che include anche il racconto dei protagonisti di

oggi dell'avventura spaziale.

È possibile acquistare ciascun volume con «Le

Scienze» o altre testate del gruppo GEDI, a

9,90 euro oltre il prezzo della rivista o della

testata. Buona esplorazione!

 
 
 

La rinascita del tempo

Post n°2530 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

La rinascita del tempo

A richiesta con «Le Scienze» di luglio il libro di Lee Smolin

A volte un attimo può durare un'eternità, ma è vero anche

il contrario.

Ogni persona ha una propria idea dello scorrere del tempo,

che dipende dai contesti, dalle esperienze, dallo stato d'animo.

Ma se c'è una caratteristica del tempo che mette tutti

d'accordo è la sua esistenza.

C'è solo un problema: per molti fisici il tempo non esiste, ma

sarebbe una proprietà emergente, ovvero emergerebbe da elementi

di base della realtà, qualunque essi siano.

Certo, oggi i ricercatori sono in grado di costruire orologi così

precisi che per rimettere a posto le loro lancette atomiche

bisognerebbe attendere un tempo equivalente all'età del cosmo,

ovvero 13,8 miliardi di anni. Eppure, se si considerano le due

principali teorie con cui descrivere l'universo in termini scientifici,

allora il tempo non ha più importanza.

Nella teoria generale delle relatività di Albert Einstein il tempo

sfuma.

Non c'è un singolo momento speciale e tutti i momenti sono

ugualmente reali.

Non è possibile stabilire un unico parametro temporale - in altre

parole un orologio - per descrivere i fenomeni dell'universo alle

grandi scale: sistemi planetari, galassie, ammassi di galassie e

via dicendo.

Lo stesso problema del tempo compare nella meccanica quantistica,

che descrive la realtà alla scala atomica e subatomica, in particolare

nel cosiddetto modello standard.

Questo insieme di equazioni che descrive le particelle elementari

da cui è composta la materia e le forze fondamentali che agiscono

tra di esse, è quasi del tutto reversibile rispetto al tempo.

Per inciso, tornando per un attimo alla scala macroscopica del

mondo, anche le leggi sulla dinamica dei corpi elaborate da Isaac

Newton nel XVII secolo sono indifferenti alla direzione presa

dal tempo.

Ma allora, se è possibile invertire senza alcuna conseguenza il

flusso degli eventi, qual è il senso di parole come «passato»,

«presente» e «futuro»? Quella della teoria generale della relatività

e della meccanica quantistica sembrerebbe una sentenza senza appello.

Del resto, anche per filosofi del calibro di Platone ciò che è reale è atemporale.

Eppure non tutti gli scienziati si arrendono.

Come Lee Smolin, autore di La rinascita del tempo, il libro allegato a

richiesta con «Le Scienze» di luglio. Fisico teorico statunitense, membro

tra l'altro del Perimeter Institute for Theoretical Physics in Canada,

Smolin si occupa anche della natura del tempo, e in questo libro

propone di rimetterlo al centro della descrizione scientifica della

realtà.

Secondo l'autore sarà un passaggio necessario per colmare le lacune

di relatività generale e meccanica quantistica nel tratteggiare lo scenario

cosmico.

Ancora nessuno sa come andrà finire. Ironicamente, sarà necessario

del tempo prima che la disputa sulla sua realtà giunga a una conclusione

definitiva.

 
 
 

Sulla relatività generale.

Post n°2529 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

La relatività generale supera un'altra prova

Nuovo test superato per Einstein: il redshift

- cioè lo spostamento verso il rosso - gravita-

zionale della luce di una stella che orbita

intorno al buco nero supermassiccio al centro

della Via Lattea è quello previsto dalla sua

teoria

Cento anni e gode ancora di ottima salute.

La teoria generale della relatività di Einstein,

pubblicata nel 1916, è stata verificata sperimental-

mente con grande successo nel corso dei

decenni, e non accenna a vacillare.

L'ultimo risultato in ordine di tempo, pubblicato

sulla rivista "Science" da Tuan Do, dell'Università

della California a Los Angels (UCLA) e colleghi di

un'ampia collaborazione internazionale, l'ha messa

a dura prova grazie all'osservazione di una stella

che orbita intorno al buco nero supermassiccio che

si trova al centro della Via Lattea.

E' lì infatti che si può osservare all'opera l'intera-

zione fondamentale tra luce e forza gravitazionale,

una delle previsioni più originali e inattese della

teoria della relatività.

Nella sua formulazione generale, la teoria non è

altro che una formulazione moderna di quella

della gravitazionale universale.

Essa prevede che le tre dimensioni spaziali e la

dimensione temporale formino un continuo quadri-

dimensionale, lo spazio-tempo, che viene

deformato, o meglio curvato, dalle masse propor-

zionalmente alla loro entità. 

Questa curvatura, a sua volta, influenza i corpi

dotati di massa, facendoli attrarre tra di loro.

Ma ha influenza anche sulla luce: un effetto

peculiare è il redshift - cioè lo spostamento verso

il rosso - gravitazionale.

Questo è un allungamento della lunghezza d'onda

della radiazione, che così appare spostata verso

la parte rossa dello spettro, quando è emessa

da una sorgente posta in un campo gravitazionale

molto intenso e osservata da un punto in cui il

campo è meno intenso.

L'effetto si combina con un altro contributo

all'effetto Doppler, dovuto al rapido movimento

orbitale della stella.

Un secolo di relatività... sperimentale!

di Emiliano Ricci

L'effetto è particolarmente evidente nel caso

della stella S0-2, che orbita, con un periodo

di 16 anni circa, intorno al buco nero super-

massiccio - dotato di una massa di circa quattro

milioni di volte quella del Sole - che si trova

al centro della nostra galassia.

Usando agli strumenti dell'Osservatorio Keck,

nelle Hawaii, Do e colleghi hanno raccolto lo

spettro della radiazione emessa da S0-2, map-

pando il suo moto orbitale in tre dimensioni e

con una precisione senza precedenti e combi-

nando i dati ottenuti con quelli raccolti negli

ultimi 24 anni di osservazioni.

Conclusione: il redshift presente nei dati spet-

trografici è compatibile con le previsioni della

relatività generale.

"Stiamo imparando come funziona la gravità:

è una delle quattro forze fondamentali e

quella che abbiamo testato meno", ha commen-

tato Andrea  Ghez, professore di fisica e

astronomia dell'UCLA e coautore dello studio.

"Ci sono molte regioni in cui non ci siamo

ancora chiesti: 'Come funziona la gravità qui?'".

I dati in realtà erano già disponibili l'anno

scorso, ma gli autori hanno controllato con cura

la loro analisi.

"È facile essere troppo sicuri di sé e ci sono molti

modi per interpretare erroneamente i dati, molti

modi in cui piccoli errori possono accumularsi in

errori significativi, motivo per cui non abbiamo

affrettato la nostra analisi", ha aggiunto Ghez.

"I risultati hanno un profondo impatto sulla nostra

comprensione dell'esistenza dei buchi neri

supermassicci e dell'astrofisica dei buchi neri". 

 
 
 

Ancora sui buchi neri

Post n°2528 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Il collasso diretto dei buchi neri supermassicci

Scott Woods, Western University) 

Questi oggetti estremi del cosmo erano presenti già

nell'epoca primordiale dell'universo: per spiegarne l'origine,

un nuovo modello prevede che si siano formati con un

processo molto rapido, e non dal collasso di stelle

Non c'è bisogno di una stella che collassa per avere un buco

nero supermassiccio. E questo spiega perché questo tipo di

oggetti potevano essere presenti anche nell'epoca

primordiale dell'universo.

Lo afferma un nuovo studio pubblicato sulle "Astrophysical

Journal Letters" da Shantanu Basu e Arpan Das della

University of Western Ontario, in Canada.

I buchi neri supermassicci sono una tipologia di buchi neri

caratterizzata da una massa molto elevata, che arriva a milioni

o miliardi di volte la massa del Sole. Malgrado le loro caratteri-

stiche estreme però non sono oggetti rari: si stima che ogni

galassia o quasi ospiti nel proprio nucleo un buco nero

supermassiccio.

Sulla loro origine non c'è accordo tra gli astrofisici.

Una prima ipotesi è che derivino dall'accrescimento di

buchi neri di dimensioni normali, che a loro volta sono l'esito

ultimo del collasso di stelle giunte al termine del loro ciclo

vitale.

Quando infatti le reazioni di fusione nucleare all'interno

della stella hanno trasformato quasi tutto l'idrogeno in elio,

la pressione di radiazione verso l'esterno non è più in grado

di contrastare la forza gravitazionale che agisce in senso

opposto, e tutta la massa tende a concentrarsi nel nucleo.

Altre ipotesi prevedono invece che i buchi neri supermassicci

si formino in seguito al collasso di particolari tipologie di stelle

o di ammassi stellari.

Nell'ultimo decennio il panorama delle conoscenze su questo

argomento si è arricchito di numerose osservazioni di buchi

neri supermassicci estremamente lontani, che ci appaiono quindi

com'erano poche centinaia di milioni di anni dopo l'origine

dell'universo.

Ciò depone a favore di una formazione molto rapida e diretta

di questi oggetti.

Tenuto conto di questi dati, Basu e Das propongono ora nuovo

modello di formazione dei buchi neri supermassicci basato su

un'idea di base molto semplice: la loro origine è un collasso molto

rapido.

"I buchi neri supermassicci hanno avuto solo un periodo di tempo

 breve per formarsi e crescere, e a un certo punto la loro produzione

nell'universo è cessata", ha spiegato Basu. "È questo lo scenario

del collasso diretto".

Le simulazioni al computer dei due autori mostrano che le

osservazioni e i dati sperimentali dei buchi neri supermassicci già

presenti in un'epoca primordiale dell'universo sono compatibili

con un accrescimento esponenziale del buco nero, che inizia la sua

vita con una massa compresa tra 10.000 e 100.000 masse solari. (red)

 
 
 

Sui buchi neri

Post n°2527 pubblicato il 02 Marzo 2020 da blogtecaolivelli

Così i buchi neri forgiano le galassie

Fonte: INAF/Università di Tor Vergata

Rappresentazione artistica di un outflow prodotto

da un buco nero supermassiccio. (ESA/ATG medialab)

Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale per

raggi X XMM-Newton dell'ESA, un team di scienziati

guidato da Roberto Serafinelli dell'Istituto Nazionale di

Astrofisica ha mostrato come i buchi neri supermassicci

modellino le loro galassie ospiti con venti potenti che

spazzano via la materia interstellare rallentando il ritmo

di formazione di nuove stelle

Otto anni di osservazioni condotte con XMM-Newton

sul buco nero che si trova nel cuore della galassia attiva

PG 1114+445 hanno consentito di mostrare come i venti

ultraveloci - outflows (deflussi) di gas emessi dal disco di

accrescimento, nella regione prossima al buco nero stesso

- interagiscano con la materia interstellare vicino al centro

della galassia.

Questi outflows erano già stati individuati in precedenza,

ma il nuovo studio identifica chiaramente, per la prima volta,

tre fasi della loro interazione con la galassia ospite.

«Questi venti potrebbero spiegare alcune sorprendenti correla-

zioni note da anni ma che gli scienziati ancora non sono riusciti

a giustificare», dice il primo autore dello studio pubblicato

su Astronomy & Astrophysics, Roberto Serafinelli dell'Istituto

Nazionale di Astrofisica di Milano, che ha condotto la maggior

parte della ricerca durante il suo dottorato all'Università degli

Studi di Roma Tor Vergata. «Osserviamo, per esempio, una

correlazione tra le masse di buchi neri supermassicci e la

dispersione di velocità delle stelle presenti nelle regioni interne

delle galassie ospiti.

Questo però non può essere dovuto all'attrazione gravitazionale

del buco nero, a causa dell'elevata distanza del gas dallo stesso.

Il nostro studio, per la prima volta, mostra come i venti del

buco nero abbiano sulla galassia un impatto su una scala più

grande, fornendo probabilmente il collegamento mancante».

Già gli astronomi avevano identificato due tipi di outflows

negli spettri a raggi X emessi dai nuclei galattici attivi, le dense

regioni centrali delle galassie con buchi neri supermassicci al

centro.

I cosiddetti outflows ultraveloci (UFO, ultra-fast outflow),

fatti di gas altamente ionizzato, viaggiano a velocità che

possono raggiungere il 40 per cento di quella della luce, e si

osservano in prossimità del buco nero centrale.

Gli outflows più lenti, chiamati anche "assorbitori tiepidi"

(warm absorbers), viaggiano invece a velocità assai più basse,

nell'ordine delle centinaia di km/s, e mostrano caratteristiche

fisiche - come la densità delle particelle, o la loro ionizzazione

- simili a quelle della materia interstellare circostante.

Questi outflows più lenti hanno una probabilità più elevata

di essere rilevati a distanze maggiori dal centro della galassia.

Nel nuovo studio, gli scienziati descrivono un terzo tipo

di outflow che combina le caratteristiche dei due precedenti:

la velocità di un UFO e le proprietà fisiche di un assorbitore

tiepido.

«Riteniamo che si tratti della zona in cui l'UFO entra in

contatto la materia interstellare e la trascina via come fosse

uno spazzaneve», spiega Serafinelli. «È ciò che chiamiamo

un outflows ultraveloce "trascinato", perché l'UFO, in questa

fase, sta penetrando nella materia interstellare. Un po' come

il vento quando sospinge la vela di una barca».

Il trascinamento avviene a una distanza dal buco nero che va

da decine a centinaia di anni luce. L'UFO sospinge gradualmente

la materia interstellare allontanandola dalle regioni centrali

della galassia, liberando queste zone dal gas e rallentando così

l'accrescimento della materia attorno al buco nero supermassic-

cio. Un processo, questo, già previsto dai modelli, ma mai

prima d'ora osservato nelle sue tre fasi.

«Nei dati di XMM-Newton possiamo vedere - a grandi

distanze dal centro della galassia - materia ancora indisturbata

dall'UFO proveniente dell'interno», osserva Francesco Tombesi,

dell'Università di Roma Tor Vergata e del Goddard Space Flight

Center della NASA, secondo autore dello studio. «Possiamo

vedere anche nubi di gas a minor distanza dal buco nero, vicino

al nucleo della galassia, dove l'UFO ha iniziato a interagire

con la materia interstellare».

Una prima interazione, questa alla quale accenna Tombesi,

che avviene a parecchi anni di distanza da quando l'UFO ha

lasciato il buco nero. Ma l'energia dell'UFO consente al buco

nero - un oggetto relativamente piccolo rispetto alla galassia

- di estendere la sua influenza su materia che si trova ben

oltre la portata della sua forza gravitazionale.

Secondo gli scienziati, attraverso gli outflows i buchi neri

supermassicci trasferiscono la loro energia nell'ambiente

circostante, spazzando via gradualmente il gas dalle regioni

centrali della galassia, che potrebbe quindi arrestare la forma-

zione stellare. E, in effetti, oggi le galassie producono stelle

a un ritmo assai inferiore rispetto a quanto non facessero

nelle prime fasi della loro evoluzione.

«Questa è la sesta volta in cui questo tipo di outflows

vengono rivelati», ricorda Serafinelli. «Dunque è tutta scienza

nuovissima.

Le fasi dell'outflows erano state osservate in precedenza, ma

separatamente: questa è la prima volta in cui si riesce a chiarire

come siano collegate l'un l'altra».

Il fattore chiave che ha consentito di distinguere i tre tipi di

outflows è la risoluzione energetica senza precedenti di XMM-

Newton. In futuro, con nuovi e più potenti osservatori come

Athena, l'Advanced Telescope for High ENergy Astrophysics

dell'ESA, gli astronomi saranno in grado di osservare centinaia

di migliaia di buchi neri supermassicci, rilevando gli outflows

con grande facilità. Cento volte più sensibile di XMM-Newton,

Athena dovrebbe essere lanciato nel 2030.

«Trovare una sorgente è fantastico, ma la vera svolta sarebbe

scoprire che questo fenomeno è comune nell'universo», dice

Norbert Schartel, project scientist di XMM-Newton all'ESA.

«Anche con XMM-Newton, nel prossimo decennio, potremmo

essere in grado di trovare altre sorgenti come questa».

 Ottenere ulteriori dati aiuterà in futuro gli scienziati a

comprendere in dettaglio le complesse interazioni tra i buchi neri

supermassicci e le loro galassie ospiti, e a capire le ragioni della

riduzione - nel corso di miliardi di anni - del tasso di formazione

stellare osservata dagli astronomi

 
 
 

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