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Messaggi del 23/04/2020

L'antico DNA ancora presente.

Post n°2817 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

13 febbraio 2020Misteriosi geni arcaici nel genoma delle popolazioni africane
Danza della popolazione Yoruba dell'Africa occidentale
(© hemis/AGF) Una nuova analisi ha mostrato che dal 2 al
19 per cento del genoma delle moderne popolazioni
dell'Africa occidentale deriva da una specie umana sconosciuta,
ancora più antica dei Neanderthal.
Il risultato conferma ancora una volta la complessa storia di
incroci tra diverse specie di Homo che ha dato origine al nostro
attuale DNA
Dal 2 al 19 per cento del genoma delle moderne popolazioni
dell'Africa occidentale deriva da una specie umana arcaica
ancora sconosciuta. È questa la conclusione di un nuovo studio
pubblicato su "Science Advances" da Arun Durvasula e Sriram
Sankararaman dell'Università della California a Los Angeles
che colma in parte un vuoto di conoscenze sull'evoluzione del
genoma umano nel continente africano.

Gli studi recenti hanno documentato chiaramente l'impronta
lasciata nel DNA umano moderno dai nostri "cugini" filogenetici
con caratteristiche più arcaiche: i dati riguardano in particolare
il contributo dei geni dell'uomo di Neanderthal e dei geni dell'uomo
di Denisova.
I paleantropologi ritengono che questo flusso di geni sia l'esito
di un processo di introgressione, in cui gli individui di due specie
umane diverse si accoppiano dando vita a individui ibridi che a
loro volta si accoppiano con altri individui delle popolazioni di
origine.

I fenomeni di introgressione per le popolazioni africane sono
rimasti per molto tempo un mistero. Ciò era dovuto in parte alla
mancanza di fossili e in parte alla difficoltà di ottenere DNA di
ha però cambiato le cose, stabilendo, grazie a un nuovo metodo
di analisi, un'ascendenza neanderthaliana nel genoma africano.
Questa sarebbe frutto di un incrocio di antiche popolazioni
dell'Africa con popolazioni di Homo sapiens provenienti dall'Europa
che si erano già incrociate con i neanderthaliani in epoche precedenti.
 
Ora Durvasula e Sankararaman aggiungono un altro pezzo del puzzle.
Usando tecniche di modellizzazione al computer, hanno messo a confronto
405 genomi di individui Yoruba e Mende, due grandi gruppi etnici
dell'Africa occidentale, con i genomi di Neanderthal e DenisovanI.
L'analisi mostra che le differenze trovate sono compatibili con
l'introgressione di una specie di ominini, ancora sconosciuta ma sicuramente
arcaica: il suo ramo filogenetico si sarebbe infatti separato dal grande
albero del genere Homo prima del ramo dei neanderthaliani.

E' dunque confermato che il nostro attuale genoma è frutto di interazioni
complesse e di lunga durata tra esseri umani anatomicamente moderni e
varie popolazioni di ominini arcaici. Restano ora da stabilire i dettagli.
Secondo Durvasula e Sankararaman, i loro dati aprono la strada a diverse
ipotesi, che non si escludono a vicenda: l'introgressione da loro scoperta
potrebbe essere avvenuta relativamente di recente e potrebbe aver coinvolto
più popolazioni di ominini arcaici. (red) 
 
 
 

Homo antecessor

Post n°2816 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

02 aprile 2020

Homo antecessor, così lontano, così vicino

Resi fossili di H. antecessor (©José María Bermúdez de Castro)

 L'analisi dello smalto dentale di uno dei più antichi ominini ha

rivelato che si tratta di uno stretto parente dell'ultimo antenato

comune a Homo sapiens, Neanderthal e Denisova.

I tratti del suo viso, simili a quelli degli esseri umani moderni, carat-

terizzano quindi il genere Homo fin da un'epoca molto remota

Homo antecessor, uno dei più antichi ominini, era strettamente

imparentato con l'ultimo antenato comune a Homo sapiens, Neanderthal

e Denisova.

Lo rivela un confronto dello smalto dentale di questa specie con quello

di H. erectus pubblicato su "Nature" da Enrico Cappellini dell'Università

di Copenhagen, in Danimarca, e colleghi di un'ampia collaborazione

internazionale. 

La conclusione della ricerca indica anche che i tratti del viso moderni,

già posseduti da H. antecessor, sono comparsi nel genere Homo in un'epoca

molto antica.

La ricerca fa luce su una questione ancora molto dibattuta: la relazione di

parentela filogenetica tra le diverse specie di ominini del Pleistocene inferiore

(circa 2,5-0,77 milioni di anni fa).

Un'ipotesi era che H. antecessor fosse l'ultimo antenato comune dei Neanderthal

e degli esseri umani moderni, ma mancava una conferma definitiva per via della

natura frammentaria dei reperti fossili e della scarsità di reperti fossili di ominini

vissuti in Eurasia nel Pleistocene inferiore e medio (tra 781.000 e 126.000

anni fa) da cui si potesse recuperare DNA antico.

Il gruppo di Cappellini ha messo a punto da tempo una tecnica di analisi che

consente di aggirare il problema della scarsità di DNA dei reperti antichi

ricorrendo allo studio della proteomica, cioè del corredo di proteine di un

individuo.

Le proteine sono infatti molto più resistenti e più longeve del DNA, anche se

scontano il fatto di contenere meno informazioni e di variare poco da specie

a specie.

Il team ha analizzato e confrontato i proteomi ottenuto dallo smalto dei molari

di H. antecessor, scoperto nel sito di Atapuerca, Spagna, datato tra  949.000

e 772.000 anni fa, e di un esemplare di Homo erectus rinvenuto a Dmanisi,

in Georgia, e datato a circa 1,77 milioni di anni fa, due reperti fossili che rap-

presentano punti di riferimento fondamentali per definire la morfologia e le

parentele degli ominini.

Gli autori hanno così potuto stabilire che H. antecessor apparteneva a un ramo

filogenetico con caratteristiche molto simili a a quelle dei successivi ominini

che si sono sviluppati nel Pleistocene medio e superiore (tra 126.000 e 11.000

anni fa), in cui è compresa anche la nostra specie.

In altre parole, si trattava di un parente stretto dell'ultimo antenato comune a 

H. sapiens, neanderthaliani e denisoviani. In particolare, le caratteristiche

dell'anatomia del cranio accomunano H. antecessor ed esseri umani anatomica-

mente moderni: questi tratti sarebbero perciò molto antichi.

Una forma del cranio come quella caratteristica dei Neanderthal, da sempre

considerata arcaica, sarebbe quindi una forma derivata, sviluppatasi cioè in

un'epoca successiva. (red)

 
 
 

I nuovi studi sul riso

Post n°2815 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

04 marzo 2020Comunicato stampa

Più riso per la popolazione africana,

grazie all'editing genetico

Fonte: Università degli studi di Milano

© Università Statale di Milano Uno studio dell'Università degli

Studi di Milano, in collaborazione con l'Università di Montpellier,

ha utilizzato la tecnica di editing genetico CRISPR-Cas per poter

migliorare la resa di questo cereale e contribuire a contrastare la

scarsità di cibo. La pubblicazione su "Plos One".

Grazie alla tecnica di editing genetico CRISPR (Clustered Regularly

Interspaced Short Palindromic Repeats) - Cas sarà possibile produrre

più riso e in maniera controllata in zone soggette a condizioni

metereologiche e qualità del raccolto imprevedibili, come ad esempio

l'Africa, contribuendo in tal modo a soddisfare la domanda di cibo

della popolazione mondiale.

La ricerca "CRISPR-Mediated Accelerated Domestication of African

Rice Landraces" è coordinata da Martin Kater, docente di Genetica

presso il dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di Milano,

e svolta in collaborazione con l'Università di Montpellier.

Lo stidio, pubblicato su Plos One, si basa sulla tecnica di editing genetico

CRISPR con l'impiego della proteina Cas9, una sorta di forbici molecolar

i programmabili per modificare il DNA di una cellula, in questo caso

del riso africano della specie Oryza glaberrima e Oryza sativa.

Questi due cereali sono risorse agricole preziose per la naturale capacità

di adattamento alle condizioni dell'ambiente e del terreno locale;

presentano spesso una maggiore resistenza a parassiti endemici, siccità

e carenza di nutrienti rispetto alle varietà importate di riso asiatico ad alta

intensità di produzione. Purtroppo però queste caratteristiche (compresa

la minore dispersione e la maggiore resa dei semi, assieme alla messa

a dimora), non sono ben stabilizzate.

Per affrontare questa carenza il team di ricerca della Statale sta sviluppando

protocolli per la trasformazione genetica degli ecotipi africani, per consentire

l'uso di approcci di miglioramento genico che sfruttino il sistema di editing

genetico CRISPR-Cas.

In questo lavoro è stata utilizzata la varietà di riso Kabre, coltivata in Africa,

con l'intento di modificare specifici loci che sono stati selezionati attraverso

il processo di domesticazione delle varietà di riso asiatiche, con l'intento

di migliorare la resa nella varietà africana.

La trasformazione genetica con vettori contenenti la forbice molecolare CRISPR

-Cas9 ha generato mutanti in singoli geni e in combinazioni multiple selezionate

di geni.

Attraverso la modificazione mirata del gene HTD1, sono state generate piante

con altezza ridotta per diminuire l'allettamento delle piante, ossia il ripiegamento

degli steli in seguito all'azione di venti e piogge.

Inoltre, tre loci noti che controllano la dimensione del seme e / o la resa (GS3,

GW2 e GN1A) sono stati simultaneamente modificati utilizzando il sistema

multiplex CRISPR-Cas9. Ciò ha prodotto piante di riso Kabre con una resa dei

semi significativamente migliorata.

"Il nostro studio - spiega Martin Kater - fornisce un chiaro esempio di come le

nuove tecnologie di coltivazione possano accelerare lo sviluppo di varietà di riso

africano altamente produttive: si tratta di una conquista molto importante se si

considera che alcuni continenti come l'Africa siano a un punto nevralgico per

quanto riguarda la crescita della popolazione mondiale, perché più soggetti

alla scarsità di cibo".

 
 
 

Ma che bello Razana!! Un super fico

Post n°2814 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

NUOVA SCOPERTARazana, il super coccodrillo giurassico

Razana, il super coccodrillo giurassicoRicostruzione paleoartistica di Razanandrongobe

sakalavae che si avventa sulla carcassa di un

dinosauro sauropode, nel Giurassico medio del

Madagascar.

A differenza dei coccodrilli odierni, questo predatore

di terraferma aveva un cranio alto e stretto e camminava

eretto sulle quattro zampe.

Inotosuchi erano coccodrilli preistorici vissuti nel Gondwana,

il supercontinente che fino al Mesozoico comprendeva le

terre emerse.

Fino ad oggi si pensava fossero stati presenti sulla Terra a

partire dal Cretaceo, ma nuovi fossili scoperti in Madagascar,

pubblicati sulla rivista scientifica PeerJ da paleontologi italiani

e francesi, non solo dimostrano che questi animali erano

presenti già nel Giurassico medio, ma presentano al mondo

un nuovo protagonista: Razanandrongobe sakalavae,

per gli amici Razana.

Non un dinosauro ma un coccodrillo

Razanandrongobe sakalavae fu descritto già nel 2006.

All'epoca di lui erano noti solo pochi denti e un frammento

di mascella e i paleontologi italiani Simone Maganuco,

Cristiano Dal Sasso e Giovanni Pasini lo identificarono

come un nuovo rettile arcosauro del Giurassico del Madagascar.

 Le affinità con i dinosauri sembravano maggiori di quelle con

i coccodrilli.

 Invece ora, nuovi resti cranici, tra cui un osso premascellare

e un osso della mandibola depositati al Museo di Storia Naturale

di Tolosa, hanno permesso agli stessi paleontologi italiani -

a cui si è aggiunto il collega francese Guillaume Fléury -

di stabilire che Razana era un coccodrillo giurassico di sette

metri, dotato di robuste mascelle, armate di enormi denti

seghettati, molto simili a quelli di un T.rex.

Ricostruzione del muso di Razanandrongobe sakalavae,

comprendente le ossa originali (dentale sinistro, frammenti

mascellari e premascella destra, per gentile concessione

del Museo di Storia Naturale di Tolosa) e le loro copie speculari

(in grigio), stampate in 3-D dai dati delle TAC ad opera di

FabLab Milano, e infine montate al Museo di Storia Naturale

di Milano. Crediti: Giovanni Bindellini

Una serie di indizi anatomici fa pensare che Razana fosse un

animale affine ai baurusuchi del Sud America, coccodrilli di

terraferma diversi da quelli odierni: il loro cranio non era

appiattito ma alto e massiccio, e camminavano sulle quattro

zampe, ben sollevati da terra.

«Razana poteva competere anche coi dinosauri teropodi,

raggiungendo in Madagascar l'apice della catena alimentare,

senza temere rivali - afferma Cristiano Dal Sasso, primo

autore dello studio e paleontologo del Museo di Storia

Naturale di Milano». Infatti, la dentatura di Razana lascia

ipotizzare che l'animale avesse davvero pochi rivali. 

Al contrario degli odierni coccodrilli, dotati di denti conici

e lisci, quelli di Razana erano seghettati, con dentellli

evidenti, regolari, ancora più grandi di quelli di T.rex.

Questo fatto ci dice che il nostro super coccodrillo oltre

che un predatore attivo fosse anche un cacciatore di

carogne e che la sua dieta includesse tendini e ossa.

I paleontologi Cristiano Dal Sasso (a destra) e Simone

Maganuco (a sinistra) mostrano alcune ossa del cranio

di Razanandrongobe sakalavae al Museo di Storia Naturale

di Milano.

I denti sono enormi e per forma e dimensioni si avvicinano

a quelli di un T. rex. (Crediti: Giovanni Bindellini

«Razana - dice Simone Maganuco, coautore della ricerca -

rappresenta una scoperta importante: è il più antico

rappresentante del gruppo, che anticipa le altre forme

di ben 42 milioni di anni e documenta un improvviso e

inaspettato aumento delle dimensioni corporee, avvenuto

all'inizio della storia evolutiva dei notosuchi».

Non solo. 170 milioni di anni fa il Madagascar aveva già

cominciato il suo distaccamento dalle altre terre emerse

del Gondwana.

E ciò fa ipotizzare che questo terrificante trituratore di

ossa rappresenti una forma endemica dell'isola.

Autrice: Laura Floris

 
 
 

I non mammiferi che allattano

Post n°2813 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articoli riportati dall'Internet

STRANEZZE ANIMALI

Cinque animali - non mammiferi - che allattano

Cinque animali - non mammiferi - che allattanoDue individui di pesce disco che nutrono i piccoli

L'allattamento dei propri piccoli è una prerogativa

dei mammiferi.

Tuttavia, ci sono alcuni animali che, pur non appartenendo

a questa classe, nutrono la propria prole in una maniera del

tutto analoga con sostanze e nutrienti simili.

I piccioni

I piccioni, così come altri uccelli come pinguini imperatore e

fenicotteri, producono una secrezione con la quale nutrono le

nidiate.

Questa, però, non è una caratteristica unicamente degli

individui di sesso femminile.

Anche i piccioni maschi producono questo "latte" con il quale

i piccoli vengono nutriti durante i primi giorni di vita, ovvero

fino a che non sono in grado di assumere alimenti solidi in

autonomia.

Ma da dove arriva il latte di piccione? A produrlo è una ghiandola

situata nel gozzo e la composizione di questa sostanza varia da

specie a specie anche se una caratteristica comune è la totale

assenza di calcio e carboidrati. Il latte di piccione, cos' come quello

dei pinguini imperatore, è molto ricco di proteine e povero di grassi

mentre quello prodotto dai fenicotteri rosa ha alte concentrazioni

di lipidi.

Si tratta di un alimento estremamente nutriente: un esperimento

ha dimostrato che somministrandolo ai polli ne aumenta la crescita

quasi del 40%.

Il pesce disco

Anche il pesce disco, appartenente alla famiglia dei Ciclidi, nutre i

piccoli nati con una secrezione.

Questo "latte", prodotto da entrambi i sessi, alto non è che una

sorta di muco secreto da una ghiandola situata sul lato del corpo.

I giovani pesci vengono alimentatati in questa maniera per le

prime settimane di vita.

Gli pseudoscorpioni

Gli individui di sesso femminile di questi aracnidi secernono una

specie di latte dalle ovaie.

Le femmine, infatti, custodiscono le uova fecondate in una sacca

posizionata all'altezza dell'apparato riproduttivo e le nutrono con

questa sostanza.

Anche dopo la schiusa i giovani pseudoscorpioni continuano a

nutrirsi in questa maniera fino a che non hanno raggiunto la

completa autonomia.

Gli scarafaggi

Anche la Diploptera punctata nutre con questo sistema la

propria prole, che viene alimentata quando è ancora nelle

sacche da una sostanza prodotta nello stomaco.

​I cecilidi

Alcuni di questi anfibi apodi sono in grado di nutrire i propri

piccoli con la loro stessa pelle.

Dopo il parto, lo strato superficiale che riveste le femmine

cambia composizione, aumentando la percentuale di grasso

e proteine.

I nuovi nati grattano con i denti questo strato nutrendosene.

Si tratta di un alimento molto sostanzioso: i piccoli cecilidi

crescono, in una sola settimana, dell'11%.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 
 
 

Un nuovo vulcano nell'oceano Indiano.

Post n°2812 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

GEOLOGIAÈ nato un nuovo vulcano nell'Oceano Indiano

È nato un nuovo vulcano nell'Oceano Indiano

Apartire dal maggio dello scorso anno e per oltre 365 giorni,

un lungo e persistente sciame sismico ha scosso Mayotte, isola

dell'arcipelago delle Comore in pieno Oceano Indiano.

I terremoti sono iniziati il 10 maggio del 2018 e sono culminati,

soltanto cinque giorni dopo, nella scossa più forte mai registrata

in tutto il settore (magnitudo 5.8).

Dopo un anno, gli scienziati dell'Istituto Francese di Ricerca per

l'Esplorazione Marina (Ifremer) hanno finalmente trovato la causa

di questa fervente attività geologica: i sismi sono legati all'eruzione

di un nuovo vulcano sottomarino situato circa 50 km ad est di Petite

Terre.

I sondaggi geofisici hanno mostrato il profilo batimetrico dell'edificio

che si innalza da un fondale di circa 3500 metri, ha una base di circa

5 km di diametro e si sviluppa in altezza per circa 800 metri.

Le prospezioni realizzate dal gruppo di ricerca mostrano chiaramente

anche l'emissione di una colonna di materiale vulcanico e gas alta circa

2 km, che però non riesce a raggiungere la superficie e pertanto non

è visibile.

Secondo gli studiosi il vulcano è estremamente giovane e potrebbe

essersi formato nell'estate del 2018 o al più tardi nell'autunno dello

stesso anno. 

Un fenomeno geologico eccezionale che spiega il persistente odore

di zolfo riportato in zona oltre alle ricorrenti morie di pesci registrate

proprio nel braccio di mare antistante la costa orientale dell'isola.

Le autorità dell'isola sono in stretto contatto con gli scienziati per

fornire assistenza e informazioni alla popolazione e, ovviamente,

per monitorare il fenomeno.

Alcuni famosi precedenti

Nel luglio del 2011 l'Istituto Vulcanologico delle Isole Canarie registrava

un aumento dell'attività sismica al largo dell'isola di El Hierro, la più

piccola e meridionale dell'arcipelago.

Pochi mesi dopo gli scienziati notavano un cambiamento nel segnale

sismico che iniziava a produrre del "tremore armonico": si tratta del

segnale associato al movimento del magma nella crosta ovvero

all'essoluzione dei gas in fase di eruzione. In poche ouperficie dell'oceano

si era riempita di materiale giallognolo, l'aria era intrisa di zolfo e numeros

i pesci galleggiavano esanimi a sud dell'isola.

Iniziava così l'eruzione della fessura eruttiva sottomarina di circa 2 km al

largo del villaggio di pescatori de La Restinga.

Scienziati, abitanti e fortunati visitatori hanno assistito per mesi all'emersione

di giganteschi piroclasti fumanti trasportati poi alla deriva, a colonne d'acqua

ribollire al largo dell'isola ed enormi macchie giallastre formarsi sulla superficie

del mare, segno dell'attività di quel vulcano, poi ribattezzato "Tagoro", che

per soli 60 metri non divenne isola.

Andando a ritroso nel tempo ed avvicinandoci a casa nostra, non si può non

ricordare l'isola fantasma, ovvero "l'Isola Ferdinandea".

Nel mese di maggio del 1831 la terra iniziò a tremare nella zona meridionale

della Sicilia, nei pressi di Sciacca, e ben presto anche qui i terremoti furono

accompagnati da forte odore di zolfo e morie di pesci a largo della cittadina

siciliana.

Fu così che, in una data imprecisata tra il 2 ed il 16 luglio 1831, nacque dal

mare della Sicilia tra fontane di lapilli, bianchi vapori e saette, l'Isola

Ferdinandea, un vivace vulcanetto basaltico che illuminò le notti estive

del Canale per diversi mesi.

La nascita di un nuovo brandello di terra, in una posizione così strategica

com'era al centro del Mediterraneo, provocò l'interesse dei Borboni, dei 

Francesi e degli Inglesi che cercarono di accaparrarsene la proprietà.

Sopiti i fragori vulcanici, Julie, Graham, Ferdinandea, l'isola dai molti

nomi, contesa da tutti, alla fine dell'autunno fu avvolta dalle mareggiate

e sparì nel giro di qualche settimana beffando chiunque.

La sommità del vulcano oggi si trova a circa 8 metri di profondità ed è

contrassegnata da una targa in pietra sulla quale, a scanso di equivoci,

si legge: "Questo lembo di terra, una volta isola Ferdinandea, era e

sarà sempre del popolo siciliano".

Autore dell'articolo: Andrea Piazza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM© 

 
 
 

Un'eruzione vulcanica?

Post n°2811 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

GEOLOGIA

Siamo pronti ad una futura gigantesca eruzione vulcanica?

Siamo pronti ad una futura gigantesca eruzione vulcanica?

La domanda è tanto semplice quanto inquietante:

 il mondo moderno sarebbe pronto a fronteggiare

gli effetti di una gigantesca eruzione vulcanica? 

La risposta (negativa) a questa domanda arriva da

 uno studio pubblicato recentemente su Geosphere 

a firma dei vulcanologi Chris Newhall, Stephen Self e

Alan Robock. I ricercatori hanno proposto un elenco

di vulcani che potrebbero dare origine ad un'eruzione

con indice di esplosività 7 (Volcanic Explosivity Index,

VEI 7), ovvero un evento catastrofico capace di eruttare

fino a 100 km3 di ceneri e materiale piroclastico.

Per intenderci un'eruzione 10 volte più grande di quella

del Pinatubo avvenuta nel 1991.

 Gli ultimi eventi VEI 7 sono stati generati da due vulcani

indonesiani, rispettivamente il Tambora nel 1815 ed il

Rinjani nel 1257; è chiaro che il prossimo evento interesserà

un mondo ben più popolato e soprattutto totalmente diverso

da quello dell'ottocento o della metà del duecento.

In quest'ottica lo studio dei tre vulcanologi sottolinea

l'importanza di comprendere cosa potrebbe accadere.

Effetti a livello locale e globale

In prossimità del teatro eruttivo lo spessore al suolo

delle ceneri di ricaduta si misurerebbe in metri, con

il possibile crollo di tetti ed edifici.

La pioggia di cenere inoltre danneggerebbe i raccolti e

provocherebbe danni e problemi a innumerevoli strutture

e manufatti come fognature, linee elettriche, linee

telefoniche, linee della distribuzione del gas, sistemi

computerizzati, impianti di trattamento delle acque,

sistemi di riscaldamento e condizionamento.

La formazione dei pericolosissimi flussi piroclastici poi

cancellerebbe qualsiasi forma di vita per un raggio di

minimo 20 km dal vulcano.

 I problemi non sarebbero relegati soltanto al periodo

eruttivo ma continuerebbero per parecchi anni, con la

formazione di lahar, smottamenti, piogge acide ed il

rischio di altre eruzioni.

Gli effetti distali invece si rifletterebbero principalmente

sul traffico aereo e sul clima.

Per avere un'idea dell'impatto sul traffico aereo basta

pensare alla recente eruzione del 2010 del vulcano

islandese Eyafjallajökull (VEI 3): l'emissione di circa

0.25 km3 di cenere ha causato la chiusura dello spazio

aereo su gran parte d'Europa per una durata di 8 giorni,

con un impatto economico complessivo nell'ordine di

5 miliardi di euro (fonte Oxford Economics, 2010).

Immaginate quindi cosa potrebbe accadere con l'eruzione

di un quantitativo di cenere pari a 400 volte quello del

vulcano islandese.

L'altro effetto globale riguarderebbe il clima.

Una delle conseguenze più significative delle eruzioni

vulcaniche di grande energia è il raffreddamento del clima

terrestre, fenomeno legato principalmente all'emissione

dell'aerosol di acido solforico.

Le piccole gocce di aerosol, che derivano dalla presenza

di anidride solforosa nei gas vulcanici, si diffondono nella

bassa stratosfera del nostro pianeta, riflettendo la

radiazione solare incidente.

Per fare alcuni esempi, l'eruzione del Pinatubo nel 191 ha generato

un abbassamento della temperatura media terrestre di

circa 0.5ºC per due anni.

L'eruzione VEI 7 del vulcano Tambora nel 1815, la più recente

di tale magnitudo nella storia dell'uomo, ha prodotto un abbassa-

mento della temperatura terrestre così significativo che l'anno

successivo, il 1816, è stato definito "l'anno senza estate".

Europa e America del Nord vissero mesi di aberrazioni meteo-

climatiche che produssero forti carestie ed epidemie, ma che

ispirarono anche il genio artistico di talenti come Mary Shelley,

Lord Byron e J.M.W. Turner.

Agire ora

Oggi gli effetti di un'eruzione di tale portata sarebbero dram-

matici e probabilmente al momento in gran parte sconosciuti.

Newhall e coautori invitano dunque il mondo scientifico ad

interrogarsi e ad approfondire nel dettaglio tutte le potenziali

conseguenze che un'eruzione di grande energia potrebbe

avere sul mondo moderno.

«La prossima eruzione VEI 7 - dice Chris Newhall - può

avvenire nell'arco delle nostre vite o accadere tra centinaia

di anni, non importa, dobbiamo discuterne adesso per

permettere al mondo della ricerca e agli enti governativi

di pianificare ed essere pronti in caso di emergenza».

Ovviamente non tutti i vulcani del mondo sarebbero capaci

di produrre eruzioni con VEI 7.

I ricercatori hanno redatto una lista di possibili "candidati"

di fuoco, tra cui figurano anche cinque vulcani italiani

 (per la nostra felicità): Latera, Bolsena, i Sabatini, i Colli

Albani e, ovviamente, i Campi Flegrei.

Autore dell'articolo: Andrea Piazza

© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

Il complesso vulcanico della Eolie

Post n°2810 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

GEOLOGIA

Camini vulcani, la scoperta eccezionale alle Eolie

Camini vulcani, la scoperta eccezionale alle Eolie

Una lunga fila di pinnacoli piramidali ben allineati che

sbucano dal fondo del mare.

È questa la spettacolare immagine fornita dall'elaborazione

di un modello tridimensionale del braccio di mare compreso

tra l'isola di Panarea e lo scoglio di Basiluzzo, nelle isole Eolie.

Circa 200 camini di origine vulcanica sono stati rinvenuti sul

fondale del complesso vulcanico (guarda il video), ad una

profondità compresa tra circa 70 ed 80 metri: una scoperta eccezionale 

che dimostra per la prima volta l'esistenza di queste strutture anche

nel Mediterraneo.

Il team di ricerca composto da studiosi del Cnr, dell'Ispra, dell'Istituto

Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e delle Università di Messina

e Genova, ha ribattezzato questo luogo "Smoking Land", proprio

per sottolineare l'intensa attività di degassamento osservata durante

i sopralluoghi.

Come si formano

I camini vulcanici si formerebbero come risultato della precipitazione

di Fe2+ di origine vulcanica provocata dall'acqua di mare e dal possibile

supporto di attività microbica. Alcune di queste bocche emettono

fluidi acidi, ricchi di gas, in prevalenza anidride carbonica.

I gas sono di natura idrotermale e a bassa temperatura, ben diversi dunque

dalle emissioni a più alta temperatura che si osservano sull'isola di Panarea,

e risalgono nella crosta attraverso una faglia vulcano-tettonica lungo

cui si allineano e si formano i camini.

L'esplorazione della Smoking Land con un robot filoguidato dotato di

videocamera (Rov, Remotely operated underwater vehicle), ha permesso

inoltre di scoprire un habitat naturale eccezionale, caratterizzato da estese

colonie di alghe (tra cui Peyssonnelia spp.), spugne, policheti tubicoli

ed altri organismi bentonici.

L'ultima eruzione 9mila anni fa

Panarea ed i suoi scogli viciniori sono la porzione emersa di un sistema

vulcanico che è ancora attivo.

L'ultima eruzione subaerea è avvenuta circa 9.000 anni fa, ma nel 2002

una forte attività di degassamento sottomarina ha riacceso i riflettori su

questo gigante di fuoco.

La ricerca, dunque, pone l'attenzione non solo sulla straordinaria presenza

dei camini vulcanici nei nostri mari, ma anche e soprattutto sull'esigenza

di implementare il sistema di monitoraggio e sorveglianza dei fondali

della più piccola delle isole Eolie.

Autore: Andrea Piazza.

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