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Messaggi del 23/04/2020
Post n°2817 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 13 febbraio 2020Misteriosi geni arcaici nel genoma delle popolazioni africane Danza della popolazione Yoruba dell'Africa occidentale (© hemis/AGF) Una nuova analisi ha mostrato che dal 2 al 19 per cento del genoma delle moderne popolazioni dell'Africa occidentale deriva da una specie umana sconosciuta, ancora più antica dei Neanderthal. Il risultato conferma ancora una volta la complessa storia di incroci tra diverse specie di Homo che ha dato origine al nostro attuale DNA Dal 2 al 19 per cento del genoma delle moderne popolazioni dell'Africa occidentale deriva da una specie umana arcaica ancora sconosciuta. È questa la conclusione di un nuovo studio pubblicato su "Science Advances" da Arun Durvasula e Sriram Sankararaman dell'Università della California a Los Angeles che colma in parte un vuoto di conoscenze sull'evoluzione del genoma umano nel continente africano. Gli studi recenti hanno documentato chiaramente l'impronta lasciata nel DNA umano moderno dai nostri "cugini" filogenetici con caratteristiche più arcaiche: i dati riguardano in particolare il contributo dei geni dell'uomo di Neanderthal e dei geni dell'uomo di Denisova. I paleantropologi ritengono che questo flusso di geni sia l'esito di un processo di introgressione, in cui gli individui di due specie umane diverse si accoppiano dando vita a individui ibridi che a loro volta si accoppiano con altri individui delle popolazioni di origine. I fenomeni di introgressione per le popolazioni africane sono rimasti per molto tempo un mistero. Ciò era dovuto in parte alla mancanza di fossili e in parte alla difficoltà di ottenere DNA di ominini antichi. Un recentissimo studio pubblicato su "Cell" ha però cambiato le cose, stabilendo, grazie a un nuovo metodo di analisi, un'ascendenza neanderthaliana nel genoma africano. Questa sarebbe frutto di un incrocio di antiche popolazioni dell'Africa con popolazioni di Homo sapiens provenienti dall'Europa che si erano già incrociate con i neanderthaliani in epoche precedenti. Ora Durvasula e Sankararaman aggiungono un altro pezzo del puzzle. Usando tecniche di modellizzazione al computer, hanno messo a confronto 405 genomi di individui Yoruba e Mende, due grandi gruppi etnici dell'Africa occidentale, con i genomi di Neanderthal e DenisovanI. L'analisi mostra che le differenze trovate sono compatibili con l'introgressione di una specie di ominini, ancora sconosciuta ma sicuramente arcaica: il suo ramo filogenetico si sarebbe infatti separato dal grande albero del genere Homo prima del ramo dei neanderthaliani. E' dunque confermato che il nostro attuale genoma è frutto di interazioni complesse e di lunga durata tra esseri umani anatomicamente moderni e varie popolazioni di ominini arcaici. Restano ora da stabilire i dettagli. Secondo Durvasula e Sankararaman, i loro dati aprono la strada a diverse ipotesi, che non si escludono a vicenda: l'introgressione da loro scoperta potrebbe essere avvenuta relativamente di recente e potrebbe aver coinvolto più popolazioni di ominini arcaici. (red) |
Post n°2816 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 02 aprile 2020 Homo antecessor, così lontano, così vicino Resi fossili di H. antecessor (©José María Bermúdez de Castro) L'analisi dello smalto dentale di uno dei più antichi ominini ha rivelato che si tratta di uno stretto parente dell'ultimo antenato comune a Homo sapiens, Neanderthal e Denisova. I tratti del suo viso, simili a quelli degli esseri umani moderni, carat- terizzano quindi il genere Homo fin da un'epoca molto remota Homo antecessor, uno dei più antichi ominini, era strettamente imparentato con l'ultimo antenato comune a Homo sapiens, Neanderthal e Denisova. Lo rivela un confronto dello smalto dentale di questa specie con quello di H. erectus pubblicato su "Nature" da Enrico Cappellini dell'Università di Copenhagen, in Danimarca, e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale. La conclusione della ricerca indica anche che i tratti del viso moderni, già posseduti da H. antecessor, sono comparsi nel genere Homo in un'epoca molto antica. parentela filogenetica tra le diverse specie di ominini del Pleistocene inferiore (circa 2,5-0,77 milioni di anni fa). e degli esseri umani moderni, ma mancava una conferma definitiva per via della natura frammentaria dei reperti fossili e della scarsità di reperti fossili di ominini vissuti in Eurasia nel Pleistocene inferiore e medio (tra 781.000 e 126.000 anni fa) da cui si potesse recuperare DNA antico. consente di aggirare il problema della scarsità di DNA dei reperti antichi ricorrendo allo studio della proteomica, cioè del corredo di proteine di un individuo. Le proteine sono infatti molto più resistenti e più longeve del DNA, anche se scontano il fatto di contenere meno informazioni e di variare poco da specie a specie. di H. antecessor, scoperto nel sito di Atapuerca, Spagna, datato tra 949.000 e 772.000 anni fa, e di un esemplare di Homo erectus rinvenuto a Dmanisi, in Georgia, e datato a circa 1,77 milioni di anni fa, due reperti fossili che rap- presentano punti di riferimento fondamentali per definire la morfologia e le parentele degli ominini. filogenetico con caratteristiche molto simili a a quelle dei successivi ominini che si sono sviluppati nel Pleistocene medio e superiore (tra 126.000 e 11.000 anni fa), in cui è compresa anche la nostra specie. H. sapiens, neanderthaliani e denisoviani. In particolare, le caratteristiche dell'anatomia del cranio accomunano H. antecessor ed esseri umani anatomica- mente moderni: questi tratti sarebbero perciò molto antichi. Una forma del cranio come quella caratteristica dei Neanderthal, da sempre considerata arcaica, sarebbe quindi una forma derivata, sviluppatasi cioè in un'epoca successiva. (red) |
Post n°2815 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet 04 marzo 2020Comunicato stampa Più riso per la popolazione africana, grazie all'editing genetico Fonte: Università degli studi di Milano © Università Statale di Milano Uno studio dell'Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l'Università di Montpellier, ha utilizzato la tecnica di editing genetico CRISPR-Cas per poter migliorare la resa di questo cereale e contribuire a contrastare la scarsità di cibo. La pubblicazione su "Plos One". Grazie alla tecnica di editing genetico CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats) - Cas sarà possibile produrre più riso e in maniera controllata in zone soggette a condizioni metereologiche e qualità del raccolto imprevedibili, come ad esempio l'Africa, contribuendo in tal modo a soddisfare la domanda di cibo della popolazione mondiale. Rice Landraces" è coordinata da Martin Kater, docente di Genetica presso il dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di Milano, e svolta in collaborazione con l'Università di Montpellier. Lo stidio, pubblicato su Plos One, si basa sulla tecnica di editing genetico CRISPR con l'impiego della proteina Cas9, una sorta di forbici molecolar i programmabili per modificare il DNA di una cellula, in questo caso del riso africano della specie Oryza glaberrima e Oryza sativa. di adattamento alle condizioni dell'ambiente e del terreno locale; presentano spesso una maggiore resistenza a parassiti endemici, siccità e carenza di nutrienti rispetto alle varietà importate di riso asiatico ad alta intensità di produzione. Purtroppo però queste caratteristiche (compresa la minore dispersione e la maggiore resa dei semi, assieme alla messa a dimora), non sono ben stabilizzate. protocolli per la trasformazione genetica degli ecotipi africani, per consentire l'uso di approcci di miglioramento genico che sfruttino il sistema di editing genetico CRISPR-Cas. In questo lavoro è stata utilizzata la varietà di riso Kabre, coltivata in Africa, con l'intento di modificare specifici loci che sono stati selezionati attraverso il processo di domesticazione delle varietà di riso asiatiche, con l'intento di migliorare la resa nella varietà africana. La trasformazione genetica con vettori contenenti la forbice molecolare CRISPR -Cas9 ha generato mutanti in singoli geni e in combinazioni multiple selezionate di geni. Attraverso la modificazione mirata del gene HTD1, sono state generate piante con altezza ridotta per diminuire l'allettamento delle piante, ossia il ripiegamento degli steli in seguito all'azione di venti e piogge. Inoltre, tre loci noti che controllano la dimensione del seme e / o la resa (GS3, GW2 e GN1A) sono stati simultaneamente modificati utilizzando il sistema multiplex CRISPR-Cas9. Ciò ha prodotto piante di riso Kabre con una resa dei semi significativamente migliorata. nuove tecnologie di coltivazione possano accelerare lo sviluppo di varietà di riso africano altamente produttive: si tratta di una conquista molto importante se si considera che alcuni continenti come l'Africa siano a un punto nevralgico per quanto riguarda la crescita della popolazione mondiale, perché più soggetti alla scarsità di cibo". |
Post n°2814 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet NUOVA SCOPERTARazana, il super coccodrillo giurassico Ricostruzione paleoartistica di Razanandrongobe sakalavae che si avventa sulla carcassa di un dinosauro sauropode, nel Giurassico medio del Madagascar. A differenza dei coccodrilli odierni, questo predatore di terraferma aveva un cranio alto e stretto e camminava eretto sulle quattro zampe. Inotosuchi erano coccodrilli preistorici vissuti nel Gondwana, il supercontinente che fino al Mesozoico comprendeva le terre emerse. Fino ad oggi si pensava fossero stati presenti sulla Terra a partire dal Cretaceo, ma nuovi fossili scoperti in Madagascar, pubblicati sulla rivista scientifica PeerJ da paleontologi italiani e francesi, non solo dimostrano che questi animali erano presenti già nel Giurassico medio, ma presentano al mondo un nuovo protagonista: Razanandrongobe sakalavae, per gli amici Razana. Non un dinosauro ma un coccodrillo Razanandrongobe sakalavae fu descritto già nel 2006. All'epoca di lui erano noti solo pochi denti e un frammento di mascella e i paleontologi italiani Simone Maganuco, Cristiano Dal Sasso e Giovanni Pasini lo identificarono come un nuovo rettile arcosauro del Giurassico del Madagascar. Le affinità con i dinosauri sembravano maggiori di quelle con i coccodrilli. Invece ora, nuovi resti cranici, tra cui un osso premascellare e un osso della mandibola depositati al Museo di Storia Naturale di Tolosa, hanno permesso agli stessi paleontologi italiani - a cui si è aggiunto il collega francese Guillaume Fléury - di stabilire che Razana era un coccodrillo giurassico di sette metri, dotato di robuste mascelle, armate di enormi denti seghettati, molto simili a quelli di un T.rex. comprendente le ossa originali (dentale sinistro, frammenti mascellari e premascella destra, per gentile concessione del Museo di Storia Naturale di Tolosa) e le loro copie speculari (in grigio), stampate in 3-D dai dati delle TAC ad opera di FabLab Milano, e infine montate al Museo di Storia Naturale di Milano. Crediti: Giovanni Bindellini Una serie di indizi anatomici fa pensare che Razana fosse un animale affine ai baurusuchi del Sud America, coccodrilli di terraferma diversi da quelli odierni: il loro cranio non era appiattito ma alto e massiccio, e camminavano sulle quattro zampe, ben sollevati da terra. «Razana poteva competere anche coi dinosauri teropodi, raggiungendo in Madagascar l'apice della catena alimentare, senza temere rivali - afferma Cristiano Dal Sasso, primo autore dello studio e paleontologo del Museo di Storia Naturale di Milano». Infatti, la dentatura di Razana lascia ipotizzare che l'animale avesse davvero pochi rivali. Al contrario degli odierni coccodrilli, dotati di denti conici e lisci, quelli di Razana erano seghettati, con dentellli evidenti, regolari, ancora più grandi di quelli di T.rex. Questo fatto ci dice che il nostro super coccodrillo oltre che un predatore attivo fosse anche un cacciatore di carogne e che la sua dieta includesse tendini e ossa. Maganuco (a sinistra) mostrano alcune ossa del cranio di Razanandrongobe sakalavae al Museo di Storia Naturale di Milano. I denti sono enormi e per forma e dimensioni si avvicinano a quelli di un T. rex. (Crediti: Giovanni Bindellini «Razana - dice Simone Maganuco, coautore della ricerca - rappresenta una scoperta importante: è il più antico rappresentante del gruppo, che anticipa le altre forme di ben 42 milioni di anni e documenta un improvviso e inaspettato aumento delle dimensioni corporee, avvenuto all'inizio della storia evolutiva dei notosuchi». Non solo. 170 milioni di anni fa il Madagascar aveva già cominciato il suo distaccamento dalle altre terre emerse del Gondwana. E ciò fa ipotizzare che questo terrificante trituratore di ossa rappresenti una forma endemica dell'isola. Autrice: Laura Floris |
Post n°2813 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articoli riportati dall'Internet STRANEZZE ANIMALI Cinque animali - non mammiferi - che allattano Due individui di pesce disco che nutrono i piccoli L'allattamento dei propri piccoli è una prerogativa dei mammiferi. Tuttavia, ci sono alcuni animali che, pur non appartenendo a questa classe, nutrono la propria prole in una maniera del tutto analoga con sostanze e nutrienti simili. I piccioni I piccioni, così come altri uccelli come pinguini imperatore e fenicotteri, producono una secrezione con la quale nutrono le nidiate. Questa, però, non è una caratteristica unicamente degli individui di sesso femminile. Anche i piccioni maschi producono questo "latte" con il quale i piccoli vengono nutriti durante i primi giorni di vita, ovvero fino a che non sono in grado di assumere alimenti solidi in autonomia. Ma da dove arriva il latte di piccione? A produrlo è una ghiandola situata nel gozzo e la composizione di questa sostanza varia da specie a specie anche se una caratteristica comune è la totale assenza di calcio e carboidrati. Il latte di piccione, cos' come quello dei pinguini imperatore, è molto ricco di proteine e povero di grassi mentre quello prodotto dai fenicotteri rosa ha alte concentrazioni di lipidi. Si tratta di un alimento estremamente nutriente: un esperimento ha dimostrato che somministrandolo ai polli ne aumenta la crescita quasi del 40%. Il pesce disco Anche il pesce disco, appartenente alla famiglia dei Ciclidi, nutre i piccoli nati con una secrezione. Questo "latte", prodotto da entrambi i sessi, alto non è che una sorta di muco secreto da una ghiandola situata sul lato del corpo. I giovani pesci vengono alimentatati in questa maniera per le prime settimane di vita. Gli pseudoscorpioni Gli individui di sesso femminile di questi aracnidi secernono una specie di latte dalle ovaie. Le femmine, infatti, custodiscono le uova fecondate in una sacca posizionata all'altezza dell'apparato riproduttivo e le nutrono con questa sostanza. Anche dopo la schiusa i giovani pseudoscorpioni continuano a nutrirsi in questa maniera fino a che non hanno raggiunto la completa autonomia. Gli scarafaggi Anche la Diploptera punctata nutre con questo sistema la propria prole, che viene alimentata quando è ancora nelle sacche da una sostanza prodotta nello stomaco. I cecilidi Alcuni di questi anfibi apodi sono in grado di nutrire i propri piccoli con la loro stessa pelle. Dopo il parto, lo strato superficiale che riveste le femmine cambia composizione, aumentando la percentuale di grasso e proteine. I nuovi nati grattano con i denti questo strato nutrendosene. Si tratta di un alimento molto sostanzioso: i piccoli cecilidi crescono, in una sola settimana, dell'11%. © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2812 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet GEOLOGIAÈ nato un nuovo vulcano nell'Oceano Indiano Apartire dal maggio dello scorso anno e per oltre 365 giorni, un lungo e persistente sciame sismico ha scosso Mayotte, isola dell'arcipelago delle Comore in pieno Oceano Indiano. I terremoti sono iniziati il 10 maggio del 2018 e sono culminati, soltanto cinque giorni dopo, nella scossa più forte mai registrata in tutto il settore (magnitudo 5.8). Dopo un anno, gli scienziati dell'Istituto Francese di Ricerca per l'Esplorazione Marina (Ifremer) hanno finalmente trovato la causa di questa fervente attività geologica: i sismi sono legati all'eruzione di un nuovo vulcano sottomarino situato circa 50 km ad est di Petite Terre. I sondaggi geofisici hanno mostrato il profilo batimetrico dell'edificio che si innalza da un fondale di circa 3500 metri, ha una base di circa 5 km di diametro e si sviluppa in altezza per circa 800 metri. Le prospezioni realizzate dal gruppo di ricerca mostrano chiaramente anche l'emissione di una colonna di materiale vulcanico e gas alta circa 2 km, che però non riesce a raggiungere la superficie e pertanto non è visibile. Secondo gli studiosi il vulcano è estremamente giovane e potrebbe essersi formato nell'estate del 2018 o al più tardi nell'autunno dello stesso anno. Un fenomeno geologico eccezionale che spiega il persistente odore di zolfo riportato in zona oltre alle ricorrenti morie di pesci registrate proprio nel braccio di mare antistante la costa orientale dell'isola. Le autorità dell'isola sono in stretto contatto con gli scienziati per fornire assistenza e informazioni alla popolazione e, ovviamente, per monitorare il fenomeno. Alcuni famosi precedenti Nel luglio del 2011 l'Istituto Vulcanologico delle Isole Canarie registrava un aumento dell'attività sismica al largo dell'isola di El Hierro, la più piccola e meridionale dell'arcipelago. Pochi mesi dopo gli scienziati notavano un cambiamento nel segnale sismico che iniziava a produrre del "tremore armonico": si tratta del segnale associato al movimento del magma nella crosta ovvero all'essoluzione dei gas in fase di eruzione. In poche ouperficie dell'oceano si era riempita di materiale giallognolo, l'aria era intrisa di zolfo e numeros i pesci galleggiavano esanimi a sud dell'isola. Iniziava così l'eruzione della fessura eruttiva sottomarina di circa 2 km al largo del villaggio di pescatori de La Restinga. Scienziati, abitanti e fortunati visitatori hanno assistito per mesi all'emersione di giganteschi piroclasti fumanti trasportati poi alla deriva, a colonne d'acqua ribollire al largo dell'isola ed enormi macchie giallastre formarsi sulla superficie del mare, segno dell'attività di quel vulcano, poi ribattezzato "Tagoro", che per soli 60 metri non divenne isola. Andando a ritroso nel tempo ed avvicinandoci a casa nostra, non si può non ricordare l'isola fantasma, ovvero "l'Isola Ferdinandea". Nel mese di maggio del 1831 la terra iniziò a tremare nella zona meridionale della Sicilia, nei pressi di Sciacca, e ben presto anche qui i terremoti furono accompagnati da forte odore di zolfo e morie di pesci a largo della cittadina siciliana. Fu così che, in una data imprecisata tra il 2 ed il 16 luglio 1831, nacque dal mare della Sicilia tra fontane di lapilli, bianchi vapori e saette, l'Isola Ferdinandea, un vivace vulcanetto basaltico che illuminò le notti estive del Canale per diversi mesi. La nascita di un nuovo brandello di terra, in una posizione così strategica com'era al centro del Mediterraneo, provocò l'interesse dei Borboni, dei Francesi e degli Inglesi che cercarono di accaparrarsene la proprietà. Sopiti i fragori vulcanici, Julie, Graham, Ferdinandea, l'isola dai molti nomi, contesa da tutti, alla fine dell'autunno fu avvolta dalle mareggiate e sparì nel giro di qualche settimana beffando chiunque. La sommità del vulcano oggi si trova a circa 8 metri di profondità ed è contrassegnata da una targa in pietra sulla quale, a scanso di equivoci, si legge: "Questo lembo di terra, una volta isola Ferdinandea, era e sarà sempre del popolo siciliano". Autore dell'articolo: Andrea Piazza. © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2811 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet GEOLOGIA Siamo pronti ad una futura gigantesca eruzione vulcanica? La domanda è tanto semplice quanto inquietante: il mondo moderno sarebbe pronto a fronteggiare gli effetti di una gigantesca eruzione vulcanica? La risposta (negativa) a questa domanda arriva da uno studio pubblicato recentemente su Geosphere a firma dei vulcanologi Chris Newhall, Stephen Self e Alan Robock. I ricercatori hanno proposto un elenco di vulcani che potrebbero dare origine ad un'eruzione con indice di esplosività 7 (Volcanic Explosivity Index, VEI 7), ovvero un evento catastrofico capace di eruttare fino a 100 km3 di ceneri e materiale piroclastico. Per intenderci un'eruzione 10 volte più grande di quella del Pinatubo avvenuta nel 1991. Gli ultimi eventi VEI 7 sono stati generati da due vulcani indonesiani, rispettivamente il Tambora nel 1815 ed il Rinjani nel 1257; è chiaro che il prossimo evento interesserà un mondo ben più popolato e soprattutto totalmente diverso da quello dell'ottocento o della metà del duecento. In quest'ottica lo studio dei tre vulcanologi sottolinea l'importanza di comprendere cosa potrebbe accadere. Effetti a livello locale e globale In prossimità del teatro eruttivo lo spessore al suolo delle ceneri di ricaduta si misurerebbe in metri, con il possibile crollo di tetti ed edifici. La pioggia di cenere inoltre danneggerebbe i raccolti e provocherebbe danni e problemi a innumerevoli strutture e manufatti come fognature, linee elettriche, linee telefoniche, linee della distribuzione del gas, sistemi computerizzati, impianti di trattamento delle acque, sistemi di riscaldamento e condizionamento. La formazione dei pericolosissimi flussi piroclastici poi cancellerebbe qualsiasi forma di vita per un raggio di minimo 20 km dal vulcano. I problemi non sarebbero relegati soltanto al periodo eruttivo ma continuerebbero per parecchi anni, con la formazione di lahar, smottamenti, piogge acide ed il rischio di altre eruzioni. Gli effetti distali invece si rifletterebbero principalmente sul traffico aereo e sul clima. Per avere un'idea dell'impatto sul traffico aereo basta pensare alla recente eruzione del 2010 del vulcano islandese Eyafjallajökull (VEI 3): l'emissione di circa 0.25 km3 di cenere ha causato la chiusura dello spazio aereo su gran parte d'Europa per una durata di 8 giorni, con un impatto economico complessivo nell'ordine di 5 miliardi di euro (fonte Oxford Economics, 2010). Immaginate quindi cosa potrebbe accadere con l'eruzione di un quantitativo di cenere pari a 400 volte quello del vulcano islandese. L'altro effetto globale riguarderebbe il clima. Una delle conseguenze più significative delle eruzioni vulcaniche di grande energia è il raffreddamento del clima terrestre, fenomeno legato principalmente all'emissione dell'aerosol di acido solforico. Le piccole gocce di aerosol, che derivano dalla presenza di anidride solforosa nei gas vulcanici, si diffondono nella bassa stratosfera del nostro pianeta, riflettendo la radiazione solare incidente. Per fare alcuni esempi, l'eruzione del Pinatubo nel 191 ha generato un abbassamento della temperatura media terrestre di circa 0.5ºC per due anni. L'eruzione VEI 7 del vulcano Tambora nel 1815, la più recente di tale magnitudo nella storia dell'uomo, ha prodotto un abbassa- mento della temperatura terrestre così significativo che l'anno successivo, il 1816, è stato definito "l'anno senza estate". Europa e America del Nord vissero mesi di aberrazioni meteo- climatiche che produssero forti carestie ed epidemie, ma che ispirarono anche il genio artistico di talenti come Mary Shelley, Lord Byron e J.M.W. Turner. Agire ora Oggi gli effetti di un'eruzione di tale portata sarebbero dram- matici e probabilmente al momento in gran parte sconosciuti. Newhall e coautori invitano dunque il mondo scientifico ad interrogarsi e ad approfondire nel dettaglio tutte le potenziali conseguenze che un'eruzione di grande energia potrebbe avere sul mondo moderno. «La prossima eruzione VEI 7 - dice Chris Newhall - può avvenire nell'arco delle nostre vite o accadere tra centinaia di anni, non importa, dobbiamo discuterne adesso per permettere al mondo della ricerca e agli enti governativi di pianificare ed essere pronti in caso di emergenza». Ovviamente non tutti i vulcani del mondo sarebbero capaci di produrre eruzioni con VEI 7. I ricercatori hanno redatto una lista di possibili "candidati" di fuoco, tra cui figurano anche cinque vulcani italiani (per la nostra felicità): Latera, Bolsena, i Sabatini, i Colli Albani e, ovviamente, i Campi Flegrei. Autore dell'articolo: Andrea Piazza © RIPRODUZIONE RISERVATA |
Post n°2810 pubblicato il 23 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet GEOLOGIA Camini vulcani, la scoperta eccezionale alle Eolie Una lunga fila di pinnacoli piramidali ben allineati che sbucano dal fondo del mare. È questa la spettacolare immagine fornita dall'elaborazione di un modello tridimensionale del braccio di mare compreso tra l'isola di Panarea e lo scoglio di Basiluzzo, nelle isole Eolie. Circa 200 camini di origine vulcanica sono stati rinvenuti sul fondale del complesso vulcanico (guarda il video), ad una profondità compresa tra circa 70 ed 80 metri: una scoperta eccezionale che dimostra per la prima volta l'esistenza di queste strutture anche nel Mediterraneo. Il team di ricerca composto da studiosi del Cnr, dell'Ispra, dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e delle Università di Messina e Genova, ha ribattezzato questo luogo "Smoking Land", proprio per sottolineare l'intensa attività di degassamento osservata durante i sopralluoghi. Come si formano I camini vulcanici si formerebbero come risultato della precipitazione di Fe2+ di origine vulcanica provocata dall'acqua di mare e dal possibile supporto di attività microbica. Alcune di queste bocche emettono fluidi acidi, ricchi di gas, in prevalenza anidride carbonica. I gas sono di natura idrotermale e a bassa temperatura, ben diversi dunque dalle emissioni a più alta temperatura che si osservano sull'isola di Panarea, e risalgono nella crosta attraverso una faglia vulcano-tettonica lungo cui si allineano e si formano i camini. L'esplorazione della Smoking Land con un robot filoguidato dotato di videocamera (Rov, Remotely operated underwater vehicle), ha permesso inoltre di scoprire un habitat naturale eccezionale, caratterizzato da estese colonie di alghe (tra cui Peyssonnelia spp.), spugne, policheti tubicoli ed altri organismi bentonici. L'ultima eruzione 9mila anni fa Panarea ed i suoi scogli viciniori sono la porzione emersa di un sistema vulcanico che è ancora attivo. L'ultima eruzione subaerea è avvenuta circa 9.000 anni fa, ma nel 2002 una forte attività di degassamento sottomarina ha riacceso i riflettori su questo gigante di fuoco. La ricerca, dunque, pone l'attenzione non solo sulla straordinaria presenza dei camini vulcanici nei nostri mari, ma anche e soprattutto sull'esigenza di implementare il sistema di monitoraggio e sorveglianza dei fondali della più piccola delle isole Eolie. Autore: Andrea Piazza. © RIPRODUZIONE RISERVATA E CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COm |
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