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Messaggi del 30/04/2020

Topacci news.....

Post n°2852 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli


CORONAVIRUS, TOPI CANNIBALI PER ASSENZA DI CIBO

/ "Dopo epidemia saranno aggressivi"Pubblicazione:

21.04.2020 -

Dario D'Angelo

Con il coronavirus e i ristoranti chiusi, i topi abituati a cibarsi

dei rifiuti sono costretti ad atti di cannibalismo e infanticidio: le

conseguenze...topo_2018_piabayTopi diventano cannibali

per il coronavirus.

Dura la vita per un topo di città ai tempi del coronavirus.

Abbiamo osservato, e scritto, del mondo animale che con

quasi tutta l'umanità in lockdown si riappropria della natura.

Ma ci sono delle eccezioni che del ritiro in quarantena degli

esseri umani stanno soffrendo eccome: basti pensare a ciò

che succede ai roditori fuori dai ristoranti.

No, non siamo qui per raccontarvi di una storia in stile

Ratatouille, non c'è nessun topino in sofferenza per il fatto

di non poter cucinare per nessuno (semmai questa idea

la lasciamo sviluppare alla Disney per un sequel del film

d'animazione).

La realtà del coronavirus parla a ben vedere di una situazione

molto più drammatica nell'ambiente dei roditori, in

particolare a New York, dove la chiusura dei ristoranti ha

portato i ratti a veri e propri atti di cannibalismo per

garantirsi la sopravvivenza.

 CORONAVIRUS, TOPI DIVENTANO CANNIBALI

PER ASSENZA DI CIBODel fenomeno, inquietante ma da

prendere in considerazione (e vedremo perché) ha parlato

alla Nbc News il rodentologo Bobby Corrigan, come riporta

La Stampa: "Un ristorante all'improvviso chiude, cosa che

è successa a migliaia non solo a New York ma da costa a

costa degli Stati Uniti e in tutto il mondo e quei ratti che

vivevano vicino a quel ristorante e che per decenni dipendevano

da quel locale, beh, ora "la vita" non lavora più per loro e hanno

solo un paio di scelte: cannibalismo e infanticidio per sopravvivere".

Tra le possibili conseguenze di questo fenomeno, come segnala

Michael H. Parsons, studioso di scienze biologiche della Fordham

University, vi è la possibile diminuzione della popolazione dei topi.

Lo studioso, intervenuto ad Inside, ha spiegato che questo nei

prossimi anni post-coronavirus potrebbe portare ad avere una

popolazione di ratti più forte e aggressiva:

"Gli esemplari si rivoltano l'uno contro l'altro, si stanno letteral

mente uccidendo fra di loro. Non appena troveranno nuovo cibo,

cosa che indiscutibilmente faranno, invece di avere topi di "basso

livello" che cercano di entrare nelle nostro residenze, ne avremo

di più intelligenti, più resistenti".

© RIPRODUZIONE RISERVATA 

 
 
 

Kepler1649c..gemello della Terra

Post n°2851 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Un pianeta terrestre nascosto in piena vista

Nuove analisi sui dati raccolti dal telescopio spaziale Kepler hanno permesso di

scoprire un pianeta terrestre con caratteristiche molto simili alla Terra.

I numeri del telescopio spaziale KeplerIl telescopio spaziale Kepler in numeri: dati aggiornati

al 24 ottobre 2018. | NASA  

Riesaminando con nuovi metodi i dati del telescopio spaziale Kepler

(NASA)in pensione dal 2018, un gruppo ricercatori ha scoperto un 

esopianeta di tipo terrestre in orbita nella fascia di abitabilità della sua

stella, chiamata anche riccioli d'oro: quella zona alla "giusta distanza

dalla stella" dove riteniamo che, su un pianeta roccioso (se c'è), l'acqua

(se c'è) possa mantenersi liquida.

Il nuovo esopianeta, che i primi studi non avevano rivelato, sembra

avere caratteristiche sorprendenti: di tutti i pianeti trovati grazie a

Kepler, questo pare il più simile alla Terra per dimensioni, massa e

per la temperatura che potrebbe esserci al suolo.

TUTTO A FAVORE DELLA VITA (TRANNE LA STELLA).

 Il pianeta Kepler-1649c, terzo del suo sistema planetario (identificato

perciò con la lettera "c"), è a circa 300 anni luce da noi. In base ai dati,

la sua massa è pari a 1,06 volte quella della Terra, e la quantità di luce

che riceve dalla sua stella è stimata essere attorno al 75% di quella che

la Terra riceve dal Sole: le temperature, in superficie, potrebbero dunque

essere molto simili a quelle terrestri.

I dati del telescopio non permettono invece di sapere nulla della sua

atmosfera: né se c'è, né da che cosa è composta, perciò l'ipotesi della

presenza di acqua non è neppure un'ipotesi, ma una speculazione basata

sui pochi parametri noti, e ulteriori osservazioni non potrebbero al momento

aggiungere nulla di più.

Quanto alla vita, c'è un importante elemento a sfavore: la stella di quel

sistema, che per adesso si chiama solamente Kepler-1649, è una nana rossa.

Appartiene cioè a quella tipologia di stelle che frequentemente emettono

fortissime radiazioni, che possono sterilizzare ogni forma di vita a noi nota.

«Ma la scoperta di un pianeta così simile alla Terra ci fa sperare di poterne

trovare altri, anche attorno a stelle stabili come il Sole: una probabilità in

aumento, anche grazie al fatto che riusciamo ad analizzare sempre più in

dettaglio i dati raccolti da telescopi come Kepler», afferma Thomas

Zurbuchen (NASA).

 

IL PIÙ SIMILE. Kepler-1649c orbita attorno alla sua stella in soli 19,5

giorni terrestri (1 anno, per quel pianeta), mentre un altro pianeta di cui

si conosceva l'esistenza, a circa metà strada tra la stella e "c", ha un anno

più lungo: mentre "c" ruota nove volte attorno alla stella, il pianeta più

interno ruota solo 4 volte - e questo, affermano i ricercatori nello studio

pubblicato su Astrophysical Journal Letters - indicherebbe che si è creata

una stabilità tra i pianeti di quel sistema.

 

Ciò che in questa scoperta ha entusiasmato la comunità degli astrobiologi è

il fatto che sono noti esopianeti con dimensioni simili alla Terra, come

 TRAPPIST-1f e forse anche Teegarden c, e sono noti anche pianeti extrasolari

con temperature superficiali vicine a quelle terrestri, come TRAPPIST-1d e 

TOI 700d, ma nessun pianeta aveva finora mostrato di avere entrambe le

caratteristiche.

«Questo rende Kepler-1649c particolarmente interessante», ha affermato Andrew

Vanderburg (dip. di astronomia della University of Texas, Austin, USA),

coordinatore dello studio: «se ci fossimo accontentati dei primi studi su quei

dati, ce lo saremmo perso.»

Del resto, alla NASA sono consapevoli dei limiti di Kepler Robovetter, il

software utilizzato per filtrare i dati delle osservazioni del telescopio spaziale

Kepler, che valuta la "caduta di luce" di una stella quando qualcosa le passa

davanti (rispetto all'osservatore). Il software deve decidere se il calo di

luminosità può essere attibuito con certezza al transito di un pianeta: se

l'analisi non porta a un risultato certo, il fenomeno viene classificato come

"falso positivo", ed è proprio la rianalisi dei falsi positivi che ha permesso

di identificare Kepler-1649c.

26 APRILE 2020 | LUIGI BIGNAMI

 
 
 

Il cibo delle prelibate ostriche....!

Post n°2850 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Gli animali marini che si

mangiano i virus

Spugne, ostriche e altri animali marini riducono il contenuto virale

dell'acqua: una scoperta interessante e che potrebbe anche fare bene

all'acquacoltura.

SpugnaUna spugna. | TOM GOAZ / SHUTTERSTOCK  

Quanti virus ci sono nell'acqua di mare? Come fanno gli animali marini

a convivere con una "zuppa" piena di particelle potenzialmente pericolose?

La risposta alla prima domanda è sempliceun bicchiere d'acqua di mare

contiene circa 150 milioni di particelle virali, le quali, come tutti i virus,

hanno la possibilità di attaccarsi a un ospite e da lì partire per infettare altri

organismi della stessa specie.

Alla seconda domanda, invece, risponde uno studio di Jennifer Welsh, del

Royal Netherlands Institute for Sea Research, pubblicato su Nature, ch

e per la prima volta mette in evidenza il ruolo degli organismi filtratori

nel mantenere sotto controllo la popolazione virale in mare.

PRANZO A BASE DI VIRUS.

 Welsh ha messo alla prova la capacità "antivirale" di diverse

specie di organismi marini che si nutrono filtrando l'acqua di mare:

ostriche, granchi, bivalvi e soprattutto spugne.

Gli animali sono stati lasciati senza cibo, "costretti" a filtrare l'acqua

di mare nella quale erano immersi;

Welsh ha poi confrontato la presenza di virus in quella stessa acqua

prima e dopo l'azione filtratoria.

Non tutte le specie si sono dimostrate ugualmente efficaci - le ostriche

hanno eliminato circa il 12% dei virus, mentre le spugne sono arrivate

al 94% nel giro di tre ore - ma tutte hanno dimostrato di avere una qualche

capacità di sottrarre particelle virali all'ambiente per assimilarle, scomporle

e trasformarle in cibo.

PIÙ SPUGNE PER TUTTI.

 Per noi uomini, la scoperta è particolarmente importante.

È raro che i virus marini in natura siano talmente concentrati da far scoppiare

epidemie devastanti nelle popolazioni selvatiche, ma il discorso cambia

completamente quando si parla di animali da acquacoltura.

Questa pratica, indicata come alternativa sostenibile alla pesca tradizionale e

che prevede di tenere pesci e altri animali marini in spazi chiusi ma a contatto

diretto con il mare aperto, genere infatti un altissimo rischio di epidemie

tra gli animali, soprattutto perché i recinti per l'acquacoltura ospitano di

solito una singola specie - ossia l'ambiente ideale per lo sviluppo di epidemie

devastanti, che a questo punto potrebbero essere tenute a bada riempiendo

i recinti di spugne e altri animali filtratori.

2 APRILE 2020 | GABRIELE FERRARI

 
 
 

Un pesce preistorico con le mani?

Post n°2849 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Le mani derivano dalle pinne

di questo antico pesce?

Nel fossile di un antico pesce, all'interno di una pinna, sono state trovate ossa

di dita articolate, come nelle mani della maggior parte dei primati.

La ricostruzione dell'elpistostege, il La ricostruzione dell'elpistostege, il "pesce con le mani". |

 KATRINA KENNY  

Un antico fossile di elpistostege (Elpistostege watsoni) trovato a Miguasha,

in Canada, ha gettato nuova luce sull'evoluzione della mano umana a partire

dalle pinne dei pesci.

A questa conclusione sono giunti i paleontologi delle università di Flinders

(Australia) e di Quebec (Canada), che riportano su Nature lo studio del fossile:

un esemplare completo di E. watsoni vissuto attorno a 360 milioni di anni fa,

lungo 1,57 metri e ricco di particolari.


La ricostruzione dela pinna dell'elpistostege e di un vero tetrapode.

La ricostruzione dela pinna dell'elpistostege e di un vero tetrapode. 

| RICHARD CLOUTIER E JOHN LONG

CON LA TAC. Gli scienziati hanno effettuato scansioni ad alta energia,

simili a TAC, sul fossile: l'analisi ha permesso di osservare lo scheletro

della pinna pettorale, nella quale si è vista la presenza di omero (braccio),

radio e ulna (avambraccio), oltre a file di carpo (polso) e falangi ben

organizzate (dita).

John Long, uno dei ricercatori, afferma che è la prima volta che si scoprono

quelle che senza dubbio sono dita nella pinna di un pesce così antico.

«Le ossa articolate nella pinna», spiega, «sono come le ossa delle dita nelle

mani della maggior parte dei primati.

Questa scoperta spinge indietro l'origine delle dita ed evidenzia anche come

l'evoluzione della mano sia iniziata molto prima di quanto si è sempre ipotizzato,

cioè poco prima che i pesci lasciassero l'acqua».

L'evoluzione dei pesci in tetrapodi, ossia i vertebrati a quattro zampe dai quali

discendono anche gli umani, è stato uno degli eventi più significativi

della storia della vita.

L'ARRIVO DI MANI E PIEDI.

 Fu quel salto nell'evoluzione che permise ai vertebrati di lasciare l'acqua

e conquistare la terra.

Per completare questa transizione, uno dei cambiamenti più significativi è

stata proprio l'evoluzione di mani e piedi.

Il periodo che vide questa evoluzione è compreso tra il Medio e l'Alto Devoniano,

ossia tra 393 e 359 milioni di anni fa.

Fino a oggi era stato un altro tipo di fossile ad aiutare i paleontologi a comprendere

meglio quel tipo di evoluzione, il Tiktaalik roseae, trovato nel Canada artico, i cui

reperti - nonostante fossero incompleti - hanno permesso di comprendere meglio

anche le trasformazioni anatomiche associate alla respirazione fuori dall'acqua,

all'udito e all'alimentazione.

FOSSILE DI TRANSIZIONE. 

L'elpistostege trovato in Canada era il più grande predatore dell'habitat in cui viveva,

che comprendeva l'estuario di un fiume e bassi fondali marini.

«Visse 380 milioni di anni fa e anche se non possiamo certamente definirlo come un

nostro avo», ha detto Long, «è senza dubbio un vero fossile di transizione, un

intermediario tra pesci e tetrapodi».

Prima di questo fossile ne erano stati trovati altri due della medesima specie:

il primo, nel Parco Nazionale di Miguasha, nel Quebec, descritto nel 1938,

di cui fu trovata la sola parte superiore del cranio».

Questo nuovo esemplare di elpistostege è stato scoperto nel 2010 e solo oggi,

dopo lunghe ricerche, ha portato a questa importante scoperta.

18 APRILE 2020 | LUIGI BIGNAMI

 
 
 

Batteri news

Post n°2848 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Batteri kamikaze per salvare la coloniaIn presenza

di rivali, alcuni batteri si autodistruggono per

permettere ai loro simili di sopravvivere: uno studio

sul senso di questa strategia.

batteri-escherichia-coliBatteri Escherichia coli in un'illustrazione medica.

 | SHUTTERSTOCK  

Alcuni ceppi di batteri si autodistruggono in presenza

di batteri rivali: è un comportamento noto da tempo, ma

difficilmente spiegabile dal punto di vista evolutivo.

Ora uno studio eseguito su colonie di Escherichia coli rivela

che questa strategia va a beneficio della colonia:

il sacrificio di chi si immola sarebbe simile a quello di alcuni

insetti, che non esitano a dare la vita per il bene del nido.

La ricerca è stata pubblicata su bioRxiv.

GAVETTONI PRONTI AD ESPLODERE. 

Per visualizzare il processo da vicino, gli scienziati

dell'Università di Oxford hanno ingegnerizzato un ceppo

di E. coli noto per autodistruggersi in situazioni di pericolo

facendo in modo che diventasse verde poco prima del suicidio,

e rosa durante il gesto estremo.

Quindi, hanno esposto i mutanti a un ceppo di E. coli rivale,

e sono rimasti a osservare la battaglia.

Entrambi gli schieramenti hanno prodotto tossine per annientare

i nemici. I batteri ingegnerizzati in prima linea sono stati eliminati

direttamente dal "veleno"; quelli schierati subito dietro, si sono

autosacrificati.

Prima di autoannientarsi, però, hanno impiegato circa un'ora per

produrre e accumulare tossine: il loro sacrificio di massa è coinciso

con il rilascio simultaneo di queste armi chimiche, che hanno

aiutato il resto della colonia a sopravvivere.

Dal punto di vista dell'evoluzione, una possibile - ma incompleta

- spiegazione è che il sacrificio di alcuni serva a preservare i geni

di famiglia: spesso i batteri vivono in colonie di cloni, e salvare i

geni altrui significa portare avanti anche i propri.

Ma l'espressione di questo comportamento dipende anche da altri

fattori, come il mezzo in cui i batteri sono immersi o la velocità

di crescita.

 

LA MEDESIMA RISPOSTA.

 Questo stesso comportamento è stato osservato anche nelle

colonie di alcuni insetti (come le api), in cui in genere individui

già vecchi e con uno scarso potenziale riproduttivo si sacrificano

per allontanare le minacce dall'alveare.

Anche se lo spirito di gruppo dei batteri ricorda quello degli insetti,

le due strategie si sarebbero evolute in modo indipendente e per

analoghe motivazioni: una stessa soluzione sviluppata da organismi

diversi, in risposta a un analogo stile di vita.

 
 
 

L'origine preistorica dell'agricoltura mesoamericana

Post n°2847 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Trovata una nuova "culla" dell'agricoltura

Nell'Amazzonia boliviana trovate le prove di un'agricoltura

praticata dall'uomo 10mila anni fa: manioca, zucca e altri

prodotti commestibili erano coltivati in orti.

Piante di maniocaPiante di manioca, molto diffuse in Sud America: la loro

radice tuberizzata, commestibile e ricca in amido, è la

terza più importante fonte di carboidrati nell'alimentazione

umana mondiale. | SHUTTERSTOCK  

Un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto una nuova

area del Pianeta dove l'uomo riuscì ad "addomesticare la

vegetazione" o, in altre parole, avviò un tipo di agricoltura.

Si tratta di una zona dell'Amazzonia sudoccidentale dove

(secondo lo studio) 10mila anni fa manioca, zucca e altri

prodotti commestibili sono diventate piante coltivate in orti.

QUINTA CLASSIFICATA! 

È il quinto "tipo di agricoltura" a noi nota.

Si aggiunge a quella che, partita dal Medio Oriente, è stata

poi trasmessa in Europa e in Italia, e alle altre tre sorgenti

di agricoltura che nacquero più o meno nello stesso periodo,

ossia circa 10.000 anni fa: le colture del riso in Cina, quella

del mais in Mesoamerica (per errore era scritto

"Mesopotamia", NdR) e quelle delle patate e della

quinoa sulle Ande.

 

I risultati della ricerca - pubblicata su Nature - dimostrano

come Llanos de Moxos (questo il nome dell'area in cui è

avvenuta la scoperta) sia un luogo dove le coltivazioni

praticate da gruppi di persone, giunte fin lì durante l'Olocene,

abbiano causato una profonda alterazione dei paesaggi

amazzonici.

Parliamo di una savana di circa 125.000 chilometri quadrati,

situata nel Dipartimento di Beni in Bolivia, il cui paesaggio è

caratterizzato da sterri (ossia di scavi del suolo), campi rialzati,

tumuli, canali e aree forestali. Proprio all'interno di queste ultime

Josè Capriles, antropologo della Penn State è andato alla ricerca

di segni di giardinaggio precoce.

LE ISOLE ARTIFICIALI.

 «Abbiamo mappato le aree utilizzando il telerilevamento

(ossia studiando l'area dall'alto utilizzando foto satellitari

ad alta risoluzione)», spiega l'antropologo, «partendo

dall'idea che le isole forestali di forma regolare avessero

origine antropica».

In quell'immensa area infatti, vi sono più di 4.700 isole

forestali artificiali: 30 sono state studiate dai ricercatori,

che hanno individuato aree di residenza umana.

«Purtroppo vi sono pochissime prove dell'addomesticamento

delle piante da parte dell'uomo, perché il clima è tale da

distruggere ogni tipo di materiale organico e perché,

trattandosi di un'area alluvionale, risulta difficile anche

trovare le prove dei primi cacciatori-raccoglitori», ha

spiegato Capriles.

Come hanno fatto allora a determinare la presenza di

un'agricoltura "creata" dall'uomo? «Abbiamo studiato e

analizzato le "fitoliti", ossia minuscole particelle di minerali

che si formano all'interno delle piante che sono state trovate

nei pochissimi reperti archeologici a disposizione», spiega

Heinz Vei dell'Università di Berna.

Poiché le fitoliti prendono una forma particolare, diversa a

seconda delle piante in cui si formano, è stato possibile risalire

alle prove che, nelle isole forestali, vi erano già circa 10.350

anni fa piantagioni di manioca, yuca; da 10.250 anni si trovano

piantagioni di zucca, mentre il mais compare solo 6.850 anni fa.

ECCO COSA MANGIAVANO.

 Dunque si può dedurre che manioca, zucca, mais e altri

alimenti ricchi di carboidrati, come le patate dolci e le

arachidi, probabilmente costituivano la maggior parte della

dieta di coloro che abitavano a Llanos de Moxos: una dieta

che veniva integrata da pesci e grandi erbivori.

È possibile inoltre che i gruppi che diedero vita a questa

agricoltura siano giunti qui avendo già le conoscenze di

base necessaria a condurre una vita a base di agricoltura

e di caccia.

Nel passato molti archeologi e biologi avevano ipotizzato

che l'Amazzonia sudoccidentale potesse essere un centro

di propagazione di varie piante come manioca, zucca e

arachidi, oltre che di alcune varietà di peperoncini e di

fagioli, ma fino ad oggi non c'erano prove della loro

possibile provenienza.

 
 
 

Ancora sul Covid19

Post n°2846 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

COVID-19 e mucca pazza: così diversi eppure così uguali

CoViD-19 e mucca pazza, due malattie che più diverse di

così non possono essere, richiedono la messa in atto di

procedure per la gestione dell'epidemia molto simili.

Combattere la COVID-19Vi sono strategie ricorrenti nelle più efficaci strategie

di contenimento delle epidemie. | SHUTTERSTOCK  

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Cristina Casalone,

Dirigente Veterinario dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale

del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, e Giovanni Di Guardo,

Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria

all'Università di Teramo, che mette a confronto due epidemie

di origine zoonotica: la COVID-19 e l'Encefalopatia spongiforme

bovina - il "morbo della mucca pazza", una malattia neurologica

cronica causata da un prione (una proteina anomala) tipica dei

bovini ma trasmissibile all'uomo attraverso carne contaminata.

L'allarme su una possibile correlazione tra morbo della mucca

pazza e malattia di Creutzfeldt-Jakob (una forma grave di

demenza con decorso molto rapido) in soggetti giovani arrivò

in Gran Bretagna nel 1996. Oggi l'epidemia legata al consumo

di carni infette è stata praticamente eradicata. 

Proprio in un momento come questo, in cui il mondo intero sta

combattendo il virus SARS-CoV-2, responsabile della più grande

emergenza sanitaria globale, è quanto mai importante fare

memoria delle lezioni apprese nel corso di emergenze sanitarie

passate.

Una di queste è senz'altro rappresentata dall'encefalopatia

spongiforme bovina (BSE), popolarmente nota come "morbo della

mucca pazza". CoViD-19 e BSE infatti, pur nelle colossali differenze

che caratterizzano le due malattie, la prima causata da un virus

a tropismo respiratorio, l'altra di origine alimentare e causata da

un prione, un agente "sui generis" di natura proteica, presentano

tuttavia una serie di analogie gestionali estremamente

interessanti.

AGIRE PER SALVARE VITE. 

La prima di esse riguarda il principio di precauzione, un

"minimo comune denominatore" applicato alla gestione di

qualsivoglia emergenza, non meramente sanitaria e dalle

conseguenze imprevedibili in quanto se ne hanno conoscenze

imprecise e frammentarie se non largamente deficitarie.

Ove l'agente di malattia risultasse trasmissibile all'uomo, come

nel caso di quello responsabile della BSE, oppure fosse dotato

di una contagiosità quanto mai elevata a fronte della mancata

disponibilità di farmaci e/o di vaccini specifici, come nel caso del

coronavirus che provoca la CoViD-19, ecco che al principio di

precauzione viene ad affiancarsi il concetto di worst case scenario.

Tradotto in italiano, il peggiore scenario che si possa immaginare,

sulla cui scia verranno predisposte e adottate tutta una serie

di misure finalizzate a ridurre al minimo l'esposizione umana.

Nella gestione sanitaria e nella conseguente massima mitigazione

del rischio di trasmissione della BSE all'uomo tali misure hanno

comportato l'esclusione, dal consumo alimentare, di numerose

matrici biologiche a livello delle quali è stata documentata la

presenza d'infettività. Analogamente, nel caso della drammatica

"emergenza da coronavirus" sono state adottate una serie di

misure draconiane che, a partire dalla città di Wuhan e dalla

provincia cinese di Hubei (epicentro della pandemia da SARS-CoV-2),

sono state successivamente applicate in maniera progressiva da vari

Paesi, primo fra tutti l'Italia, il cui esempio è stato seguito a ruota da

molti altri Paesi europei ed extraeuropei.

UNA LACUNA DA COLMARE.

Il principale gap relativo all'adozione del principio di precauzione è

rappresentato dalla mancanza di conoscenze adeguate sul "nemico"

che ci si trova a combattere, un agente patogeno di dimensioni

submicroscopiche e come tale percepito come una minaccia ancor

più incombente sulle nostre vite.

La comunità scientifica non soltanto è chiamata a dare un nome e

un cognome a questo nemico, ma anche ad individuare i tessuti e

le cellule in grado di consentirne la replicazione, unitamente ai

meccanismi e alle risposte attuate dall'organismo per limitarne

la diffusione.

Queste fondamentali quanto imprescindibili conoscenze potranno

esser desunte dalle indagini "post mortem", come hanno

chiaramente documentato anche i numerosi studi finora condotti

sulle specie naturalmente (bovino, gatto, uomo, etc.) o

sperimentalmente infettate con l'agente della BSE.

Non vi è dubbio alcuno, in proposito, che le attuali conoscenze

sulla patogenesi dell'infezione da SARS-CoV-2, da ritenersi allo

stato attuale oltremodo lacunose e frammentarie, potranno

grandemente beneficiare dallo studio dei pazienti deceduti.

Nonostante le numerose interviste concesse dai pur autorevoli

colleghi e scienziati quotidianamente intervistati dai media

(virologi, infettivologi, epidemiologi, esperti di sanità pubblica

ed altre figure che si avvicendano nell'arena mediatica),

nell'inquadramento nosologico e nosografico oltre che nella

classificazione dell'infezione da SARS-CoV-2 e della malattia

da esso sostenuta, la CoViD-19, non si è visto fino a questo

momento un solo patologo esprimere la propria opinione

nel merito.

È infatti grazie alla fondamentale opera svolta dai patologi che

potremo ottenere una fotografia della dimensione post-mortem

della malattia, con specifico riferimento alla sequenza evolutivo-

patogenetica dell'infezione da SARS-CoV-2.

E, come dimostrato per i ceppi responsabili di malattie prioniche

"atipiche" con caratteristiche diverse dal ceppo originario, sia

nell'uomo che negli animali, potrebbero esistere ceppi del virus

SARS-CoV-2 dotati di differenti livelli di patogenicità nei confronti

del nostro organismo.

Ribadiamo, ancora una volta, la cruciale rilevanza delle indagini

post-mortem per chiarire questi fondamentali aspetti attinenti

alla biologia dell'agente virale e, nondimeno, alle sue dinamiche

d'interazione con l'ospite.

 

INDAGINI PIÙ CAPILLARI.

 Nel corso dell'epidemia di BSE l'introduzione dei cosiddetti

"test rapidi" a scopo diagnostico ha permesso di esaminare

tutti i bovini adulti che non presentavano sintomatologia clinica

ed eliminarli dal consumo umano riducendo così l'esposizione

della popolazione all'agente infettivo.

L'attuazione di questa sorveglianza definita attiva, in quanto

si cerca attivamente la malattia ha richiesto uno straordinario

sforzo tecnico ed organizzativo da parte di tutti coloro che si

occupavano del settore.

Si trattò, infatti, di allestire nuovi laboratori che permettessero

di esaminare dai 1500 ai 2500 campioni al giorno.

Analogamente, nel caso di SARS-CoV-2, recenti indagini

condotte sui macachi dimostrano come sia possibile rilevare

precocemente la presenza del virus in animali infettati

sperimentalmente e asintomatici.

Pertanto, in base a quanto sopra descritto si può affermare

che l'utilizzo dei test mediante effettuazione di tamponi sulla

popolazione adulta permetterebbe di ridurre in maniera

considerevole il numero dei contagi applicando conseguentemente

le misure di isolamento sui casi risultati positivi.

REALTÀ INTERCONNESSE.
 Mai come in questo momento si rende evidente il concetto di
"One Health", che riconosce quanto la salute dell'uomo sia legata
indissolubilmente alla salute degli animali e dell'ambiente.
Ne deriva il legame, parimenti indissolubile, attraverso il quale
medicina umana, medicina veterinaria e tutela dell'ambiente sono
reciprocamente interconnesse, un concetto che i nostri antichi padri
traducevano efficacemente con l'espressione "universal medicina".
Diviene pertanto cruciale la collaborazione interdisciplinare, nel cui
ambito il ruolo degli esperti in grado di modellare l'evoluzione delle
epidemie e l'impatto dei cambiamenti climatici sulle caratteristiche
eco-epidemiologiche dei relativi agenti causali sta acquisendo
un'importanza via via crescente.

Tanto più alla luce di quanto recentemente sottolineato dall'Organiz-

zazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui il 75% delle

malattie infettive emergenti sarebbero sostenute da agenti di

dimostrata o sospetta capacità zoonosica (vale a dire in grado

di trasmettersi dagli animali all'uomo).

A 35 anni di distanza dalla scoperta del primo caso di BSE in

Inghilterra, oggi possiamo affermare che la malattia è stata

definitivamente sconfitta grazie all'applicazione di misure che,

nella loro drammaticità e nella parziale deprivazione di alcune

libertà individuali dalle stesse prodotta, hanno grandemente

penalizzato dal punto di vista economico alcuni settori più

direttamente coinvolti

26 APRILE 2020 

 
 
 

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