L'Anticonformista

"Nannarella"


C'è l'imbarazzo della scelta nel vocabolario italiano, per definire positivamente una grande stella del neorealismo cinematografico italiano: Anna Magnani o Nannarella. "Bruna e non bella, ma con gli occhi di una divorante, fonda, febbrile vivezza, lucenti sopra le occhiaie peste, di tra le ciocche dei capelli eternamente arruffati e spioventi".  Un altro mostro sacro del nostro cinema. A mio avviso la più grande delle attrici italiane, donna simbolo del dopoguerra, cinema della ricostruzione e del riscatto. Anna nasce a Roma il 7 marzo 1908. Mancante dell'affetto dei suoi genitori è la nonna la figura più importante della sua infanzia. Una vita sentimentale poco fortunata. Formatasi artisticamente con Silvio D'Amico all'Accademia, debutta al cinema con una particina ne "La cieca di Sorrento" (1934) di Nunzio Malasomma. Mentre comincia ad affermarsi nel teatro di rivista, ha modo di mettersi in mostra nel ruolo della cabarettista in "Teresa Venerdì" (1941) di De Sica: inizia così una strepitosa carriera, che la porterà ad essere l'attrice per eccellenza nella nostra cinematografia del dopoguerra. Non poté esser la protagonista del viscontiano "Ossessione" a causa d'una gravidanza: però non mancherà il successivo appuntamento in "Campo dè fiori" di Visconti nel '43 e disegnando in "Roma città aperta" (1945) di Roberto Rossellini il personaggio della sora Pina, popolana orgogliosa e sanguigna, con slancio e
passione memorabili. Il suo urlo finale, quel grido che ispirerà a Pasolini splendidi versi. La consegna senza colpo ferire alla storia, ne fa corpo martoriato e testimonianza mirabile d'un popolo che non si fa servo e resiste, sino ad immolarsi. Dovrà aspettare anni, la Magnani, per trovare il modo d'ancora esprimersi a simili livelli: glielo offrirà l'amico Luchino Visconti con "Bellissima" (1951), dove lei interpreta il ruolo di una madre abbagliata da miti facili che sogna per la sua bambina fama e celebrità. Capisce in tempo, per fortuna, e saggiamente rinuncia: ciò che non avverrà più negli anni del boom, quando anche gli umili muteranno radicalmente sotto la spinta dei soldi e della tv. Gli anni seguenti la vedono professionista impeccabile, vince un meritato Oscar con "La rosa tatuata", nel ‘55; in pellicole drammatiche come "Nella città l'inferno", 1959, di Castellani, nella vigorosa caratterizzazione d'una detenuta o brillanti "Risate di gioia", 1960, dove Monicelli ricrea l'antico duetto con Totò. La sua forte personalità ha modo di risaltare ancora in "Mamma Roma" del 1962 di Pier Paolo Pasolini, commosso omaggio ai valori del sottoproletariato già presagio della loro imminente scomparsa, in cui ella è una prostituta d'età che per amore del figlio vuole redimersi: finirà per piangere disperatamente sul suo cadavere, maledicendo un mondo che non capisce. Il commiato, straziante e bellissimo, è affidato ai pochi secondi nei quali compare in
"Roma" (1972) di Federico Fellini: la macchina da presa la segue sino al portone di casa sua, il regista vorrebbe interrogarla, ma ella non si fida. L’ultima occasione le viene offerta dalla televisione, verso la quale l’attrice era stata fino ad allora diffidente. Gira nel 1970 quattro film diretti da Alfredo Giannetti, "1870", "La sciantosa", "Un incontro" e "L’automobile". Anna lascia la sua casa di Palazzo Altieri agli inizi di settembre del 1973 e viene ricoverata alla clinica Mater Dei di Roma. La sera del 26 settembre la televisione decide di mandare in onda 1870, l’unico dei quattro film TV non ancora trasmesso perché destinato al circuito cinematografico e per questo viene portato un televisore nella sua stanza. Anna non riuscirà a vederlo, ma lo vedrà tutta l’Italia, per omaggiare la sua attrice più vera, il simbolo della donna italiana e della sua crescita. Nessuno dimenticherà mai i suoi occhi profondi, le sue occhiaie peste, la sua risata ora canzonatoria, ora gioiosa, ora irridente, l’alternanza tra stati di cupezza totali e momenti di gioia sfrenata che la caratterizzavano. Nessuno potrà mai dimenticare la donna che cade sotto i fucili dei nazisti in Roma città aperta, e che in quel tragico momento porta in scena e regala al pubblico la sua vita, caratterizzata da amori travolgenti e drammatici, da angosce laceranti, da lacrime di gioia e di dolore, da tutti quei contrasti che fanno di lei un personaggio unico, fuori dalla norma, in altre parole un Mito.