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Nel tessuto dei legami di cuore

Post n°16 pubblicato il 11 Aprile 2007 da moreangel


Scrive Daisaku Ikeda: «Shakyamuni amava sinceramente gli esseri umani, era felice di farsi nuovi amici e di scoprire nuove qualità e virtù nei vecchi. Metteva in luce il lato positivo di ognuno e creava cordiali rapporti di amicizia con tutti. Tessere questi legami spirituali era la sua gioia più grande. [...]
Con Nichiren Daishonin era lo stesso: in sua presenza le persone si sentivano libere di esprimere i sentimenti e i pensieri più nascosti. Il Daishonin fu un maestro severo, eppure, dalle sue numerose lettere, si capisce che i discepoli si aprivano a lui con piena fiducia, ed egli sapeva ogni cosa di loro» (Daisaku Ikeda, Gli eterni insegnamenti di Nichiren Daishonin, p. 97).
Toki Jonin era uno di quei discepoli. Dalle lettere inviategli nel corso degli anni si desume che era molto devoto a sua madre e che il Daishonin apprezzava questo suo sentimento, e lo incoraggiava.
Ne è testimonianza una lettera datata 1275 nella quale Nichiren gli esprime la propria commozione per aver ricevuto l'offerta di un kimono. La veste era stata cucita dalla madre di Toki Jonin, che a sua volta ne aveva fatto dono al suo maestro.
«Questo kimono sfoderato è il regalo di una madre affettuosa, più che novantenne, al suo amato figlio Toki Jonin. Deve avere sforzato la vista e impegnato la sua stessa vita per cucirlo. Tu, il figlio, me lo avrai inviato sapendo che ti sarebbe stato difficile ripagare il debito per questa veste. E anche per me, Nichiren, è difficile ripagarlo. Ciononostante [...] se indosso questo abito davanti al dio del sole e gli spiego le circostanze, [...] le divinità celesti in tutto l'universo lo sapranno» (Lettera al signor Toki, GZ, 968).

Il cuore di una persona muove il cuore di un'altra. Madre e figlio devono aver gioito leggendo questa risposta. Questo episodio pieno di calore umano rende l'idea del legame che esisteva tra il Daishonin e i suoi discepoli. Grazie al senso di sicurezza che ne derivava, i discepoli riuscivano a superare grandi difficoltà e a impegnarsi anima e corpo per la propagazione della Legge (Daisaku Ikeda, op. cit., p. 100).
Toki Ama Gozen era originaria della provincia di Suruga. Aveva sposato in prime nozze un ricco proprietario terriero dal quale aveva avuto un figlio che sarebbe poi divenuto uno dei sei preti anziani, con il nome di Nitcho. Rimasta vedova, Toki Ama si era risposata con Toki Jonin e insieme a lui aveva avuto altri due figli.
Toki Jonin era un uomo di notevole cultura che si era convertito al Buddismo quando Nichiren si era recato in visita nella provincia di Shimosa, nel 1254. Da allora, insieme alla moglie, era stato una figura centrale tra i discepoli, impegnandosi con passione nelle attività di propagazione nella sua regione. Rivestiva inoltre un'importante funzione sociale, come vassallo del signore di Chiba.
Nel 1260, nei giorni della persecuzione di Matsubagayatsu, i due coniugi avevano offerto rifugio a Nichiren Daishonin. La loro casa era un punto di riferimento per i credenti della zona, tanto che in una lettera Nichiren stesso chiede a Toki Jonin se gli sia possibile ospitare una riunione (GZ, 949, in Il Nuovo Rinascimento, n. 338, p. 5).

Nichiren Daishonin indirizzò a Toki Jonin alcuni dei suoi scritti più importanti, tra cui Il raggiungimento della Buddità in questa esistenza e Il vero Oggetto di culto. Toki Jonin fu, inoltre, il destinatario della sua prima lettera da Sado. In essa il Daishonin affermava: «La vita è limitata e non dobbiamo attaccarci troppo a essa. Ciò a cui dobbiamo aspirare, dopo tutto, è la terra del Budda».
«Era il ruggito di un leone - scrive Daisaku Ikeda - un'esortazione a dare la propria vita per realizzare questa grande e degna aspirazione. Da giovane impressi profondamente questo brano di Gosho nel mio cuore. Il Daishonin si adoperò a far crescere persone capaci di dedicare la propria vita al grande ideale di permettere a tutta l'umanità di ottenere la Buddità e di costruire un regno di pace duratura e felicità per tutti. Questo è il modo di vivere in sintonia con lo spirito del Daishonin. [...]
In un certo senso Nichiren Daishonin è stato il più grande educatore che l'umanità abbia avuto. Di fronte a persecuzioni senza precedenti subite per amore della Legge [...] egli si dedicò altruisticamente a insegnare ai suoi discepoli la corretta maniera di vivere» (MDG, 2, 16).
In un messaggio inviato a Toki Jonin da Teradomari, durante una sosta lungo il viaggio verso Sado, il Daishonin faceva appello ai suoi discepoli con queste parole: «Tutti coloro che aspirano alla Via dovrebbero riunirsi insieme e ascoltare il contenuto di questa lettera». Si può dunque supporre che i suoi discepoli si incontrassero regolarmente per dialogare e per discutere su come realizzare kosen-rufu, e che i legami che li univano fossero più profondi di quanto immaginiamo.

Nel febbraio del 1276, all'età di novantatré anni, assistita dall'intera famiglia, la madre di Toki Jonin morì. Toki Ama era di costituzione fragile e i problemi affrontati nella cura della suocera dovevano averla messa a dura prova. Il Daishonin percepiva la sua lotta silenziosa, apprezzava i suoi sforzi e la incoraggiò con calore. In quei giorni Toki Jonin fece ritorno da Minobu con una lettera per Toki Ama, nella quale Nichiren scriveva: «Il potere dell'arco determina il volo della freccia, la potenza del drago controlla il movimento delle nuvole e la forza della moglie guida le azioni del marito. Solo grazie al tuo sostegno adesso il signor Toki è potuto venire a visitarmi qui. Osservando il fumo si conosce il fuoco, osservando il movimento delle nuvole si conosce il drago, osservando il marito si conosce la moglie. Ora incontrando il signor Toki, mi sembra di vedere te» (L'arco e la freccia, SND, 9, 35).
In realtà Toki Ama era da tempo malata, ma per qualche motivo sembrava aver perso ogni desiderio di lottare. Nichiren stesso confidò a Toki Jonin la propria apprensione: «Penso alla malattia di tua moglie come se fosse la mia e sto pregando il cielo notte e giorno» (GZ, 978).
Anche Shijo Kingo, che era un ottimo medico, era assai preoccupato per le condizioni di Toki Ama, e ne aveva parlato con il Daishonin. In quell'occasione Nichiren la incoraggiò con forza a non farsi sconfiggere dalla malattia e al tempo stesso la esortò a rivolgersi a Shijo Kingo per curarsi: «[Shijo Kingo] mi disse anche che Toki [Jonin, tuo marito] è legato a te come a un bastone cui appoggiarsi o a una colonna per sostenersi. Era molto preoccupato per te. Shijo Kingo è un uomo che non si arrende mai alla sconfitta e che tiene in gran conto gli amici» (Il prolungamento della vita, SND, 4, 90).
Shijo Kingo e Toki Jonin avevano lottato insieme fin dall'inizio come compagni di fede, per questo Kingo avvertiva come proprie le preoccupazioni che Toki Jonin nutriva per sua moglie. Dalla lettera di Nichiren traspare chiaramente un sentimento di questo genere. Poi la incoraggia con queste parole: «Quando io, Nichiren, pregai per mia madre, non solo ella guarì dalla sua malattia, ma la sua vita fu prolungata di quattro anni. [...] Se non vuoi prenderti cura di te stessa, sarà molto difficile che tu guarisca. Un giorno di vita è molto più prezioso di tutti i tesori dell'universo, quindi, prima di tutto, devi accumulare una fede sincera. [...] Se vivi anche un solo giorno di più puoi accumulare una fortuna ancora più grande. Quant'è preziosa la vita!» (Ibidem, 91).
«Quando si è malati - scrive Daisaku Ikeda - l'incoraggiamento sincero dei compagni di fede può risultare più efficace di diecimila farmaci. Sapere che tutti ti sostengono e recitano Daimoku per la tua guarigione ti dà una forza senza limiti [...]. Non c'è niente di più meraviglioso che avere intorno altri membri della Soka Gakkai» (MDG, 1, 149-150).

Toki Ama non si lasciò sconfiggere dalla malattia e rafforzò la sua fede. Nichiren le scrisse di nuovo nel 1279 pregandola di voler proteggere tre monaci che avevano lottato con coraggio durante la persecuzione di Atsuhara, e nel ringraziarla aggiunse: «Ti auguro di vivere così a lungo come la tartaruga e la gru. Devi pregare per espandere la tua vita al di là di ogni limite, per diventare luminosa come la luna piena e come la marea che cresce incessantemente» (GZ, 990, in "La giusta medicina", Il Nuovo Rinascimento, n. 183, p. 14).
Dal monte Minobu Nichiren Daishonin inviò oltre quaranta lettere a Toki Jonin e questi, alla morte del maestro, si preoccupò di conservarle. Grazie a lui oggi possiamo disporre di numerosi manoscritti originali.
Toki Ama visse ancora molto a lungo, e finì i suoi giorni serenamente vicino al monte Fuji.


Le lettere di Nichiren Daishonin indirizzate a Toki Jonin e Toki Ama tradotte in italiano

 
 
 

Il denaro e l’amore

Post n°15 pubblicato il 11 Aprile 2007 da moreangel


Il mondo dell’economia e quello dei sentimenti hanno alcune parole in comune. Ciò significa che i soldi, come l’amore o l’amicizia, appartengono simbolicamente alla sfera delle relazioni umane, degli scambi

immagine Per esempio c’è il “bene”.
Il bene che voglio a mio padre, il bene di quando mi passa il mal di testa e torna la voglia di ridere, il bene matto che voglio a te.
E poi ci sono i “beni”. I beni durevoli. I beni mobili e quelli immobili. I beni da investire. Quelli ereditati. I beni riproducibili e quelli no.
Ci sono frasi come «Ho paura di perderti», oppure «Quell’incontro è stato un fallimento».
“Fallimento”, “bene”, “perdita”: tutte parole “economiche” usate nella sfera delle relazioni.
E poi ci sono certi termini tecnici usati dalle banche, come quello per definire la percentuale di prestiti accordati che non viene restituita: “tasso di sofferenza” si chiama. Una banca che ha “tasso di sofferenza zero” è una banca in cui tutti i prestiti accordati rientrano. È una banca che non soffre.
Per non dire dei titoli dei giornali quando parlano di estrema “sensibilità” del denaro a ogni sbandamento di borsa. O discutono sulla “fiducia” dei mercati.
“Sofferenza”, “sensibilità”, “fiducia”: parole “sentimentali” usate per il mondo dei soldi.
Dunque economia e amore dividono alcune parole. Ma che vuol dire?

Le parole sono le madri delle cose. Dicono l’origine e il senso di ciò che definiscono. Le parole sono tracce. Orme. Sono carte da decifrare per orientarsi. Sono segni. In questo caso segni di una comune struttura relazionale.
Il fatto che il mondo dei soldi e quello dei sentimenti dividano alcune parole significa che i soldi, proprio come l’amore o l’amicizia, appartengono simbolicamente alla sfera dei legami. Delle relazioni. Degli scambi. Hanno in comune una struttura, un segno.
Sono fili invisibili che legano le persone, sono righe fra di noi.
Certo la parentela non appare così immediata: il mondo dei soldi sembra così estraneo e ghiacciato rispetto alle cose. Così asettico e crudele da ridurre la complessità della vita a colonnine di numeri, percentuali e tassi. E l’amore, l’amicizia, i sentimenti tutti, foss’anche l’odio, sembrano così accesi, così poco parenti dei numeri, dei calcoli, della logica.
L’economia non nasce però come cosa fredda, lontana dai corpi, e spietatamente votata al profitto com’è ora; nasce flusso, energia di vita per intrecciare legami che allargano. Nasce come scambio di “beni” fra persone in carne e ossa. Flusso.
Cerco segni di questa “economia dei legami” e mi viene in mente il mercato e il significato simbolico che un luogo come quello ha e ha sempre avuto nella storia: incontri, scambi, sapere. Lingue diverse. Voci, visi ed esperienze. Socialità autentica. Sinfonia di colori e razze. Tant’è che all’origine della nostra Europa moderna ci sono movimenti come quello del “libero spirito” e tutti i grandi movimenti ereticali nati proprio nelle città dei mercanti. Perché i mercanti portavano in giro merci e saperi; nei mercati, insieme al denaro, viaggiavano idee in carne e ossa.
Anche il baratto è traccia di un’economia dei legami: io chiedo una cosa a te e tu ne dai una a me e il metro della scambio, la misura, la diamo noi. Una cosa varrà tanto se tratto con te e tant’altro se tratto con qualcun altro. In questo tipo di scambio ci sono le persone, i corpi, le necessità e i desideri. E c’è spazio per prezzare tutto. Con le sfumature, i mezzitoni, i colori pastello, tutte misure più rispettose del vero di quanto non lo siano interi e decimali.
Eppure l’economia, per lo meno quella che domina in questi tempi, è fatta di tutt’altro: è fatta di prezzi. Di soldi. È fatta di denaro che omogeneizza tutto, che traduce in numeri qualsiasi cosa: una casa, un chiodo, una poesia. Che rende tutto uniformabile: il computer su cui scrivo, la luce che consumo, un parere legale, l’anello che porto al dito. E che stabilisce valori seguendo criteri che penalizzano le cose piene d’amore: più una cosa ha valore e meno costa. Il latte di una madre, ad esempio, è gratis. Gratis la cura, gratis l’attenzione.
Ci sono un mare di cose preziosissime eppure senza prezzo, cose alle quali si attribuisce un valore grande, ma talmente grande da non avere prezzo. E così la nostra società, il nostro vivere insieme si forma su questa contraddizione.
Che le cose belle non hanno prezzo e non avendo prezzo non contano, non contribuiscono al PIL di un paese, non vanno nei bilanci, nelle finanziarie, nelle manovre economiche in genere. Rimangono invisibili e mute.
Che ci sia questo rapporto inversamente proporzionale fra amore e soldi ce lo dice anche l’esperienza di tutti i giorni: siamo disposti a fare cose noiose per molto denaro, facciamo gratis quel che ci piace. Come se l’amore e i soldi fossero una palla informe, un intero, cento diciamo: e se c’è venti d’amore ci sarà ottanta di soldi. Se c’è quarantotto d’amore ci sarà cinquantadue di soldi. Più amore c’è e meno c’è bisogno di soldi, più soldi ci sono e meno c’è bisogno d’amore. Da questo punto di vista si potrebbe dire che l’economia, per come viene comunemente intesa, è diventata il regno del denaro che cancella l’amore.
Il regno del denaro neutro, senza colore, né nazione, né odore. Che, anche se “sporco”, si pulisce al primo lavaggio, che se viene dai corpi di bambine vendute alla strada può diventare pulitissima catena di bigiotterie. Che si ricicla perché non porta traccia del passaggio. Non rimane mai inciso il dolore, non rimane imprigionato nel foglio il peso della mano che lo tocca. Denaro che non ricorda. Orma cancellata a ogni passo. Sempre buona, moneta, che una volta è medicina e la volta dopo orrore.
Il denaro che indennizza tutto.
Come se, pur non riuscendo a valutare valori non materiali come la giustizia, l’armonia, la bellezza o la salute, il denaro potesse superare il loro bisogno o compensare per la loro perdita.
E invece i soldi hanno bisogno dell’amore, di essere legati ai corpi, alle relazioni, all’origine.
Finora però l’attenzione di chi si occupa di economia è stata rivolta quasi esclusivamente alla logica del “vinciperdi”.
Quella del “o si mangia o si viene mangiati”.
Ce ne parla Daisaku Ikeda (nell’articolo Una competizione umanitaria, pp. 43-45), e ci racconta di come le guerre siano passate, nel corso della storia, dal piano militare a quello politico fino a quello economico. Guerre di soldi, di conquista di mercati. E ci ricorda come il significato originario della parola “competizione” fosse “cercare insieme” ed è invece arrivata a definire la sconfitta o il trionfo sugli altri. Nel Buddismo c’è il principio di origine dipendente secondo il quale tutte le cose dell’universo coesistono in una relazione di reciproca interdipendenza. Se ti vinco, se trionfo su di te, secondo il principio di origine dipendente in realtà perdo. «Le persone, le comunità, le nazioni non possono esistere in isolamento. Hanno bisogno del reciproco aiuto. Per costruire una comunità mondiale, una civiltà globale basata sulla giustizia, la compassione e la speranza, occorre innanzitutto abbandonare l’etica della competizione basata sul principio del “mangiare o essere mangiato” per coltivare al suo posto un’etica condivisa di cooperazione e interdipendenza, che di fatto si avvicina maggiormente al significato originale della parola “competizione”».
Non solo il Buddismo ma anche l’economia, ci racconta Hazel Henderson (nell’articolo Certo che possiamo, pp. 26-31) si sta accorgendo del legame prezioso fra amore e soldi.
Secondo le stime del rapporto delle Nazioni Unite del 1995 esiste una economia non pagata che ammonta a sedici trilioni di dollari l’anno.
Un’economia fatta di volontariato, di lavoro domestico, di cooperazione, di educazione e crescita di bambini e bambine, di condivisione e cura. L’enorme valore di beni e servizi prodotti da questa economia dell’amore – ripeto: sedici trilioni di dollari nel ’95 – però è finora totalmente assente dalle statistiche che misurano la ricchezza dei paesi. Per l’economia è valore sommerso.
Ma qualcosa sta cambiando.
Ormai anche le industrie e i governi sono costretti ad abbandonare quel tipo di economia fondata sul denaro che ignora e punisce l’amore.
Bene, questo “speciale” si occupa di questo scenario che cambia.
Il potere uniformante del denaro, ovviamente, non è stato solo negativo: milioni di scambi fra popoli diversi e diverse necessità sono possibili proprio grazie all’esistenza del denaro. Lo potremmo paragonare all’inglese, lingua universale e preziosa per capirsi anche fra i popoli più distanti della terra.
Ma è come se gradualmente fossero sparite tutte le lingue del mondo e ne fosse rimasta una. Solo quella. Che avesse preteso di tradurre, uniformando, ogni stato d’animo d’ogni angolo della terra.
Quando il denaro diventa la misura assoluta della ricchezza di un paese, di una cultura, di una persona, spariscono le distinzioni qualitative fra le cose.
Eppure i “beni” non sono tutti uguali.
Alcuni sono stati fatti da noi umani, altri dati dalla natura; alcuni sono liberamente riproducibili, altri meno. Alcuni li potremo produrre all’infinito, altri prima o poi finiranno. È importante conoscere l’origine di un bene.
Il Buddismo parla di “retti mezzi di sussistenza”. Se lo pone il problema dell’origine di un bene. Fa le distinzioni. Ce ne parla l’articolo Per sostenere la vita (di Maria Lucia De Luca, pp. 32-37) quando racconta la visione buddista dell’economia: l’impegno nel lavoro onesto e diligente, nel rispetto di ogni forma di vita; «… una giusta misura nel consumare la ricchezza prodotta dividendola con la famiglia e gli amici, la generosità dell’offerta al sangha sono tutte caratteristiche di un’etica economica diretta ai primi credenti laici, non a caso mercanti».
Certo la realtà nella quale viviamo ha ancora la ricchezza come obiettivo primo, obiettivo in rapporto al quale ogni altro è diventato secondo. E lo sappiamo: i fini più alti non richiedono giustificazioni; tutti i fini secondi si devono piegare.
La logica economica corrente è “più prendi, più hai”.
Nell’articolo La ricchezza di donare (pp. 38-42) Manuela Vigorita ci parla dell’offrire e di come possiamo «provare a dare tutto quello che abbiamo, preghiere, parole, azioni, soldi, esperienza, tempo, emozioni, per cambiare le cose, per cambiarle quelle logiche economiche che decidono della mia fortuna ignorando, calpestando la sfortuna, il dolore, la morte di altri». Scrive come nella visione buddista della vita il “più prendi più hai” si ribalta. Perché, anche se la nostra percezione può non essere immediata, la legge di causa ed effetto dice che “più dai, più hai”.
È l’avidità a farci ricchi e poveri, analfabeti e colti, è l’avidità a creare sottosviluppo, carestie, inflazione. Disoccupazione, evasione fiscale, corruzione, attività illegali, la sete di potere. Avidità in ogni angolo della terra.
Il profitto, l’arraffare, il succhiare senza ridare nulla è contrario alla dignità della vita. È la fame. Affamati eppure ricchi, assetati eppure in acqua, avidi molli.
Nel mondo di avidità non uso i desideri per creare valore ma sono schiava e soffro e faccio soffrire. Vivo in una civiltà di affermazione dei desideri. Intorno a me una situazione perversa in cui il desiderio ha assunto proporzioni gigantesche e domina come un padrone.
I desideri umani non hanno limiti. C’è il desiderio di vivere, quello di cibo, c’è il desiderio di possesso e quello di avere l’attenzione degli altri. C’è il desiderio di potere, il desiderio di fama, quello di controllare gli altri e anche di essere rispettati e amati. È un dato di fatto che senza desideri non si può vivere.
Il punto dunque è come usiamo i desideri.
Il desiderio di “beni” come quello di “bene”.
La vita è una. Il che vuol dire che non ci sono materie distinte, cioè che la logica del profitto è misera, assassina della vita, sia che si parli di denaro sia che si parli d’amore.
La vita è una e registra tutto. Ogni intenzione, ogni affare, ogni dono.
(articolo tratto da BUddismo e società di G: Mazzini)

 
 
 

L'impermanenza della vita.

Post n°14 pubblicato il 19 Marzo 2007 da moreangel

«Chi ha ricevuto la vita, non può evitare la morte. Questa è una verità che tutti gli esseri umani conoscono, dall’imperatore fino al più umile cittadino, ma in realtà neanche uno su mille o diecimila prende questa questione seriamente o se ne preoccupa», scrive Nichiren Daishonin nel Gosho Conversazione tra un saggio e un uomo non illuminato (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 7, pp. 27-28). «Quando improvvisamente ci troviamo di fronte all’impermanenza della vita [possiamo spaventarci al pensiero dell’ignoto e disperarci per la brevità del mondo a noi familiare], ma consideriamo sfortunati coloro che ci hanno preceduto nella morte, e superiori noi che siamo rimasti in vita. Presi da un impegno ieri e da un altro oggi, siamo vincolati senza scampo dai cinque desideri della nostra natura terrena. Inconsapevoli del fatto che il tempo passa veloce come un puledro bianco visto attraverso la fessura di un muro, ignari come una pecora condotta al macello, irrimediabilmente prigionieri del cibo e del vestiario, cadiamo senza accorgercene nella trappola della fama e del guadagno. E alla fine torniamo nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri, ripetendo il ciclo delle rinascite nei sei sentieri dell’esistenza. Quale persona di animo sensibile può non rattristarsi per questo stato di cose e non soffrirne?».
Ma cos’è che fa paura giacché «chi ha ricevuto la vita, non può evitare la morte»? Cosa? giacché «Questo nostro corpo comunque diventerà nulla più del terreno delle colline e dei campi; è inutile attaccarsi alla vita perché, per quanto lo desideri, non puoi trattenerla per sempre. Anche una persona che vive a lungo, non vive oltre i cento anni e tutti gli eventi di una vita non sono che il sogno di un breve sonno»?
(Op. cit., vol. 5, p. 180). Cosa? visto che, come dice Shakyamuni nel Sutra del Loto (Esperia, p. 298) «La mia vita dura da un incalcolabile numero di asamkhya di kalpa e durante tutto questo periodo io sono sempre vissuto qui e la mia vita non si è mai estinta»?

Si entra solo con la fede
È che io non ci voglio credere. È che prendo sul serio il problema «del cibo e del vestiario». È che cado e neanche me ne accorgo, «nella trappola della fama e del guadagno». È che, proprio per questo, continuo a tornare «nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri», Inferno, Avidità e Animalità, e a dimenticare che tutto origina dalla stessa cosa. Perché, come dice Daisaku Ikeda, «la sofferenza di nascita e morte, la sofferenza dell’impermanenza, è all’origine di tutte le sofferenze umane, di tutti i malesseri della società moderna» (La saggezza del Sutra del Loto, vol. 3, p. 64). È che non riesco a credere che la mia vita sia eterna. Poi penso al sonno e a come il mio “io” si perde. A come a volte nella notte mi sveglio e confusa mi domando chi sono. Non ricordo. Per un attimo non sono più niente. E penso a come questo debba somigliare alla morte. Penso a quante volte ho incontrato una persona con la sensazione di averla già vista, già conosciuta; con la sensazione di riprendere un discorso interrotto; penso a come compio un gesto, faccio una cosa, con la certezza di aver finalmente portato a termine qualcosa. Persino quando inizio a recitare Daimoku o quando mi siedo di fronte

 

al Gohonzon, ho la sensazione bellissima, avvolgente, di essere già stata lì. Di aver già visto quella pergamena, di aver già pronunciato quel mantra, Nam-myoho-renge-kyo. Ed è proprio lì davanti che tutti i pezzi si ricompongono. Che quei riflessi di eternità che percepisco dentro me assumono un senso più profondo, più “rotondo”. Che non si tratta solo di belle o interessanti parole, ma di una porta che, come dice il Sutra del Loto, si può varcare solo con la fede. Lì davanti percepisco che, come spiega il sedicesimo capitolo del Sutra del Loto, la vita è eterna. È una consapevolezza che mi esplode dentro, mentre recito Nam-myoho-renge-kyo; lo scopo di quel capitolo, spiega Daisaku Ikeda (ibidem, p. 67), «è spiegare che non solo Shakyamuni, ma tutti gli esseri viventi sono Budda dall’infinito passato e far sì che ne prendano coscienza aprendo gli occhi alla grande vita universale. La rivelazione di Nichiren Daishonin di Nam-myoho-renge-kyo, il principio implicito nel Sutra del Loto, lo ha reso possibile. Toda disse: “Lo scopo ultimo di praticare il Buddismo del Daishonin è di risvegliarsi all’eternità della vita, di sperimentare personalmente che la vita è eterna. Allora sperimenteremo l’assoluta felicità, una felicità che dura eternamente e che niente può turbare”. Ciò può essere ottenuto solo con la fede, approfondendo e perfezionando la fede. Toda sosteneva che capire una cosa con l’intelletto è facile, ma afferrarla con la fede è ben diverso. L’eternità della vita si può afferrare solo con la fede».
Solo con la fede. Sento che è in quella lotta quotidiana per realizzare qualcosa, qualunque cosa che lì davanti acquista un valore immenso, che passa questa mia eternità: ecco perché bonno soku bodai, i desideri terreni sono Illuminazione; ecco perché lottare tutti i giorni in questi corpo a corpo con la parte oscura di sé ha così tanto significato.
Solo con la fede. Ripenso al racconto dell’Illuminazione di Toda in carcere. A quando, «improvvisamente, prima che se ne accorgesse, Toda si ritrovò nel mezzo di un’enorme folla, forse simile ai granelli di sabbia di sessantamila fiumi, intenta a venerare il Dai Gohonzon» (La rivoluzione umana, vol. 4, p. 12). Sento che quella cerimonia è la stessa a cui sto assistendo io, qui davanti, mentre recito Nam-myoho-renge-kyo. Ed enorme e potente come una valanga – che il mio pensiero non riesce ad arrestare, nonostante il piccolo “io” che grida, che si dibatte – cresce la gioia, la certezza di comprendere “davvero” quello che avevo letto sull’esperienza di Toda, di condividere quella «gioia che lo faceva sentire quasi in preda al delirio» (ibidem, p. 13). E ora non solo comprendo ma mi sento tutt’uno con quella frase del Sutra del Loto che dice: «Non vi è nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione. Non è reale né illusorio, non è così né diverso. Non è così come viene percepito da coloro che vi dimorano» (Esperia, p. 298). E ora, qui davanti, mentre la mia bocca pronuncia Nam-myoho-renge-kyo, e la mia mente è finalmente calma, e il mio corpo è cullato da quel ritmo così forte eppure così semplice, ecco che la sento. Quella scheggia di eternità, quel frammento nascosto eppure pronto a esplodere come un fuoco d’artificio in una notte senza luna. E allora, ecco, adesso lo so: «Non c’è nulla di cui rammaricarsi o di cui temere».

 

 

Toda sosteneva che capire una cosa con l’intelletto è facile, ma afferrarla con la fede è ben diverso.

Nel Sutra del Loto vi è una frase che dice: «Non vi è nascita né morte, non vi è esistenza in questo mondo né estinzione. Non è reale né illusorio, non è così né diverso. Non è così come viene percepito da coloro che vi dimorano»

Davanti a queste affermazioni cosa può la mente?

Sempre attraverso il Sutra del Loto, Nam-myoho-renge-kyo ci appare non solo come belle o interessanti parole, ma come una porta che si può varcare solo con la fede.
Varcarla non è facile, tanti si fermano sulla soglia, altri la attraversano piu’ volte continuando a tornare «nella familiare dimora dei tre cattivi sentieri»(Inferno, Avidità e Animalità) alcuni una volta varcata non tornano più indietro…questa è l’illuminazione.

( Tratto da una lettera a "buddismo e società" della SGI)

 
 
 

Il mistero eterno della morte

Post n°13 pubblicato il 19 Marzo 2007 da moreangel



Sia i giovani che i vecchi vivono nel regno dell'incertezza, ma è nell'ordine naturale delle cose che i vecchi muoiano prima e i giovani rimangano. Perciò, anche nel dolore si può trovare un motivo di consolazione. Ma quando capita che il giovane muoia prima e il vecchio rimanga, nessuno si dispera di più del figlio che muore ancora bambino prima dei genitori e del genitore anziano che vede morire il figlio prima di lui. Gli uomini vivono in questo mondo fuggevole ove tutto è incertezza e impermanenza, eppure pensano soltanto ad ammassare ricchezze in questa esistenza. Dalla mattina alla sera si concentrano solo su faccende terrene, senza venerare il Budda e senza credere nella Legge; sprecano le loro giornate senza praticare e senza acquistare saggezza. Quando saranno trascinati davanti al tribunale di Emma, quali provviste porteranno con sé nel lungo viaggio attraverso il triplice mondo, cosa potranno usare come barca o zattera per attraversare il mare della sofferenza di nascita e morte e giungere nella terra del Budda della reale ricompensa e della luce tranquilla? Quando siamo illusi è come se sognassimo, quando siamo illuminati è come se ci fossimo svegliati.

 
 
 

VINCITORI...TUTTI

Post n°12 pubblicato il 14 Febbraio 2007 da moreangel

Tutti avete un'importante missione dall'infinito passato. Ognuno di voi è un diretto discepolo di Nichiren Daishonin. Tutti, nessuno escluso, hanno il diritto di diventare assolutamente felici e ognuno ha la capacità di divenire un eterno vincitore. Siamo persone nobili e dunque non dobbiamo sminuirci ma vivere con grande fierezza, pieni di speranza e d'immensa fiducia in noi stessi. (IKEDA)

 
 
 
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Un blog di: moreangel
Data di creazione: 23/01/2007
 

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Auguri per una serena e felice Pasqua...Kemper Boyd
Inviato da: Anonimo
il 23/03/2008 alle 16:46
 
Auguri di un felice, sereno e splendido Natale dal blog...
Inviato da: Anonimo
il 25/12/2007 alle 22:46
 
Grazie per la visita MR, torna a trovarmi
Inviato da: moreangel
il 25/01/2007 alle 14:40
 
ciao sn passata a leggere so che ti farà...
Inviato da: Anonimo
il 25/01/2007 alle 11:39
 
leggi il post di oggi, è per te.
Inviato da: moreangel
il 25/01/2007 alle 10:05
 
 

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