Esiste un preciso momento della malattia nel quale, razionalmente: sai alla perfezione cos’hai, conosci a memoria qualunque conseguenza potrebbe subire il tuo corpo a forza di lesionarlo, ti rendi conto del fatto che non puoi più permetterti di andare avanti in quel circolo vizioso assurdo che, inevitabilmente ti mantiene più vicino alla morte che alla vita.Sai tutto, hai approfondito, indagato, riflettuto, interpretato. Sopravvivi, immaginando con aria speranzosa e sognante un possibile ed idilliaco futuro senza malattia e ripetendoti, più o meno tre/quattro volte al giorno: "devo smettere, DEVO SMETTERE!" ma, intanto…non smetti!La ragione lavora febbrilmente e arriva a toccare una logica sconcertante, eppure le azioni non seguono, il corpo non ascolta, il cuore si chiude e non riesci, nemmeno a forza, ad uscire dalla solita imperterrita strada battuta e ribattuta.Credo fermamente che, in questa "fase" della malattia si vada a creare un subdolo equilibrio che necessita, in qualche modo, di essere squilibrato, ma penso anche che calcare la mano non serva a molto.E’ inutile costringere una persona aggrappata con i denti e con le unghie all’unica propria fonte di sfogo ad abbandonarlo. Neanche puntandole una pistola alla testa si riuscirebbe a farle cambiare ottica o atteggiamento.Riflettendoci, penso che, arrivati ad un punto di blocco tale, una delle poche cose utili da fare per aiutare se stessi o chi sta male sia quella di arginare il problema.Forse la ragione non riesce a convincere il cuore perché semplicemente non si è pronti.Raggiunta l’importantissima consapevolezza di star male ed arrivati alla ancora più grande consapevolezza che dipende in gran parte da se stessi uscire dalla malattia, si vorrebbe quasi subito fare il salto ma, avendo ancora troppo poca fiducia nelle proprie capacità e sentendosi estremamente chiusi, deboli, spaventati, ci si inchioda nell’angolo dell’abitudine.In certi casi si arriva perfino ad obbligarsi a combattere ma un atteggiamento del genere, che continua a coinvolgere la testa e la malattia e non i sentimenti né il vero ascolto interiore, porta a non superare in profondità l’ostacolo.E’ inutile dunque incaponirsi sul "dover" smettere di abbuffarsi o vomitare senza preparare il terreno.E quando parlo di preparare il terreno: non intendo dire che serve fare il conto delle volte nelle quali finalmente si è riusciti a trattenersi dall’ingurgitare in modo compulsivo, intendo dire che è utile, secondo il mio punto di vista, cominciare a fare dei micro passi fuori dalla solita propria realtà.
QUESTO MI FA STARE BENE!
Esiste un preciso momento della malattia nel quale, razionalmente: sai alla perfezione cos’hai, conosci a memoria qualunque conseguenza potrebbe subire il tuo corpo a forza di lesionarlo, ti rendi conto del fatto che non puoi più permetterti di andare avanti in quel circolo vizioso assurdo che, inevitabilmente ti mantiene più vicino alla morte che alla vita.Sai tutto, hai approfondito, indagato, riflettuto, interpretato. Sopravvivi, immaginando con aria speranzosa e sognante un possibile ed idilliaco futuro senza malattia e ripetendoti, più o meno tre/quattro volte al giorno: "devo smettere, DEVO SMETTERE!" ma, intanto…non smetti!La ragione lavora febbrilmente e arriva a toccare una logica sconcertante, eppure le azioni non seguono, il corpo non ascolta, il cuore si chiude e non riesci, nemmeno a forza, ad uscire dalla solita imperterrita strada battuta e ribattuta.Credo fermamente che, in questa "fase" della malattia si vada a creare un subdolo equilibrio che necessita, in qualche modo, di essere squilibrato, ma penso anche che calcare la mano non serva a molto.E’ inutile costringere una persona aggrappata con i denti e con le unghie all’unica propria fonte di sfogo ad abbandonarlo. Neanche puntandole una pistola alla testa si riuscirebbe a farle cambiare ottica o atteggiamento.Riflettendoci, penso che, arrivati ad un punto di blocco tale, una delle poche cose utili da fare per aiutare se stessi o chi sta male sia quella di arginare il problema.Forse la ragione non riesce a convincere il cuore perché semplicemente non si è pronti.Raggiunta l’importantissima consapevolezza di star male ed arrivati alla ancora più grande consapevolezza che dipende in gran parte da se stessi uscire dalla malattia, si vorrebbe quasi subito fare il salto ma, avendo ancora troppo poca fiducia nelle proprie capacità e sentendosi estremamente chiusi, deboli, spaventati, ci si inchioda nell’angolo dell’abitudine.In certi casi si arriva perfino ad obbligarsi a combattere ma un atteggiamento del genere, che continua a coinvolgere la testa e la malattia e non i sentimenti né il vero ascolto interiore, porta a non superare in profondità l’ostacolo.E’ inutile dunque incaponirsi sul "dover" smettere di abbuffarsi o vomitare senza preparare il terreno.E quando parlo di preparare il terreno: non intendo dire che serve fare il conto delle volte nelle quali finalmente si è riusciti a trattenersi dall’ingurgitare in modo compulsivo, intendo dire che è utile, secondo il mio punto di vista, cominciare a fare dei micro passi fuori dalla solita propria realtà.